Il suicidio di Pavese e Constance Dowling, musa dello scrittore e Passione di Kazan

per Gian Franco Ferraris

Il suicidio di Pavese e Constance Dowling, musa dello scrittore e Passione di Kazan

Pavese inizia l’anno 1950 con uno stato d’animo lugubre: il primo gennaio scrive sul diario:

Roma è un crocchio di giovanotti che attendono per farsi lustrare le scarpe.

Passeggiata mattutina. Bel sole. Ma dove sono le impressioni del ’45 –’46? Ritrovato a fatica gli spunti, ma niente di nuovo.

Roma tace. Né le pietre né le piante dicono più gran che.

Quell’inverno stupendo; sotto il sereno frizzante, le bacche di Leucò. Solita storia. Anche il dolore, il suicidio, facevano vita, stupore, tensione. In fondo ai grandi periodi hai sempre sentito tentazione suicida. Ti eri abbandonato. Ti eri spogliato dell’armatura. Eri ragazzo.

L’idea del suicidio era una protesta di vita. Che morte non voler più morire.

Il 2 gennaio:

“Tornato in ufficio del Vicario. Vecchi volti (le ragazze, gli uomini, io). Le cose si sa che accadono quando sono già accadute: La pienezza del ’45-’46 la so adesso. Allora la vivevo…. È destino ciò che si fa senza saperlo. Abbandonandosi…”

Il 4 gennaio:

“Visto e fiutato quanto a Roma ha di peggio. Facile amicizia, vita d’occasione, denaro fatto e speso come se non ci fosse, e invece tutti i criteri, i gusti, le voglie, ecc. sono in funzione di far denaro”.

Pavese rompe l’umore tetro al rientro a Torino, quando il 14 gennaio sul diario annota:

“Ripensando alle sorelle Dowling so che ho perduto una grande occasione di fare sciocchezze. Ecco che Roma si colora nel ricordo”.

 

Constance Dowling, l’attrice americana bella e legnosa, ricordata per essere stata la musa delle ultime poesie di Pavese e l’ultimo infelice amore dello scrittore,  è stata per dieci anni la passione fisica del regista americano Elia Kazan. È una storia poco conosciuta e molto singolare.

Nel 1988 Kazan pubblicò la sua monumentale autobiografia “A life”, libro che non è mai stato tradotto in italiano ed è quasi introvabile. Numerosi  critici si affrettarono a leggere le memorie del regista, sperando che venisse svelata la verità su uno degli episodi più luridi della storia politica d’America. Nel 1952 Kazan entrò in rotta di collisione con molti colleghi registi e attori per la sua collaborazione al cosiddetto comitato McCarthy. Elia Kazan, nonostante avesse avuto un passato da comunista, fece numerosi nomi (undici dei quali erano attori o registi di primo piano, tra cui alcuni dei suoi più stretti collaboratori e amici) inclusi quelli di persone che non erano mai state comuniste, ma che avevano partecipato a movimenti di sinistra in modo molto generico: alcuni di essi ebbero la carriera distrutta.

Ebbene, in “A life” non c’è una parola sul suo tradimento, ma ben duecento pagine sono dedicate alla sua passione divorante per Constance  e a raccontare che facevano l’amore ovunque ed in ogni momento. “Come animali nella stagione della caccia o come due criminali tallonati dalla polizia…ovunque si presenti l’occasione, nei camerini di teatro, in una stradina fra i grattacieli, sul tetto di casa, dietro i comignoli”. Connie non aveva diciotto anni ed il famoso regista ventinove. È curioso e significativo che, mentre i due uomini scriveranno centinaia di pagine per descrivere il loro amore, non esiste una versione di Constanc,  la cui identificazione è soltanto riflessa negli scritti dei due uomini: ma mentre Pavese scrive sul diario lei è la poesia nel più letterale dei sensi” oppure E’ così buona, così calma, così paziente. Così fatta per me”… e ancora nell’ultima lettera “... ho pianto come un bambino pensando alla mia sorte, e pure alla tua, povera donna forte abile disperata in lotta per la vita?” Kazan la descrive così: «Me la vedo in piedi immobile davanti a me, i suoi piccoli seni sodi, le gambe perfette, il suo ventre che sporge sensualmente come nelle donne delle pitture del Rinascimento italiano. E vedo il suo boschetto segreto, fragrante. Mi piacciono i suoi occhi quando facciamo l’amore. Trovo il mio piacere guardando il suo piacere. Quando viene, grida “Amore mio”, poi, con una punta di tristezza, dice “Oddio” e infine “Non fermarti, non fermarti”: la sua faccia è un misto di piacere e dolore (…). Il suo fiore delicato con i suoi petali gemelli mi fa impazzire. Non mi riesce pensare ad altro».

Pavese scrive manco a parlare di sposarti, come ho disperatamente sperato”. Kazan al contrario è sposato con Molly e vive dieci anni sdoppiato tra l’attrazione irresistibile per Constance e il rimpianto per la famiglia. Promette ripetutamente a Connie di divorziare ma, mentre l’abbraccia sotto la doccia, confessa a sé stesso che quella ragazza affamata di vita non potrà mai essere una moglie. Kazan, tormentato, convive con le due donne per dieci anni (interrotti da varie liti e distacchi), un triangolo logorante, soprattutto per le due donne. La moglie, la drammaturga Molly Day Thacher, che ebbe quattro figli con il regista e restò sposata sino alla sua morte nel 1963, disapprovava moralmente il marito e a volte lo percuoteva. Kazan racconta nelle memorie che non riusciva a reagire, ma nella mente si arrabbiava con la coniuge che non poteva comprendere quella passione fisica. Scrive: “ma come può comprendere la gioia, il godimento che provo con Constance che ora sarà con qualcun altro e mi dico dimenticala, dimenticala ma non posso perché Conni cadeva con me nella bestialità, era un animale come io sono un animale – l’animale che amo. E ora l’ho perduta per valori morali che non so cosa diavolo siano”.

Anche Constance si suppone, perché non c’è traccia nei testi o testimonianze dirette, doveva essere sfibrata dalle continue e non mantenute promesse del regista che oltretutto tormentava l’attrice con una gelosia sconfinata, terribile. Kazan scrive: “Ogni volta che la lascio si mette con un altro uomo – non dimenticarlo, la lascio sola e può tradirmi in un baleno, qualunque corteggiatore diventa attraente per lei come è successo altre volte con quale tempestività trova un altro, è già successo – tutti gli uomini vogliono possederla e non è questo il miglior complimento per lei.”

Nel 1941 cerca di lasciare Constance, con una lettera d’addio, in cui le dice quanto gli manchino i figli, la famiglia, la casa. “E’ la solita vecchia storia. Per un po’ io non ti vedrò. Devo ripensare alla mia situazione. Non posso vivere senza di loro (i figli e la moglie) ma forse dovrò farlo. Ma ora ho il mio lavoro”.

Nello stesso giorno scrive anche alla moglie: “Oggi ho rotto con Constance, io non voglio nessun’altra donna, voglio solo te. Vivo da solo e penso al mio lavoro, non ho altri progetti”. Constance risponde subito: “Ho il cuore a pezzi” e pochi giorni dopo: “Mi mordo le mani per non piangere. Mi sono illusa credendo che tu mi amassi profondamente: non era vero o almeno non mi amavi abbastanza. Ti ringrazio per quello che sei stato per me, conoscerti è stata la più bella cosa della mia vita. Sarò per sempre orgogliosa di essere stata la tua donna”.

Kazan lascia Constance più volte  ma non riesce a vivere senza di lei e inoltre diffida della sua sincerità, perché la donna ha una vera, smodata ossessione di diventare una star del cinema.

In uno dei periodi di lontananza, quando Variety  pubblica un’ottima recensione di “The Skin of Our Teeth”, Connie telefona di notte per congratularsi. E per dire che Sam Glodwyn, il boss hollywoodiano dello Metro Goldwyn Mayer, è “pazzo per me mi vuole a Los Angeles diventerò una star”. I due si rivedono e l’amore ricomincia: è una notte senza fine in un albergo di New York, con la luna che guarda i due amanti dalla finestra aperta.

Constance viene lanciata dagli agenti di stampa del produttore Samuel Goldwyn: “può ballare e recitare”: iniziò la sua carriera cinematografica recitando in Up in Arms (1944) per Samuel Goldwyn.

Kazan è un uomo di successo, comincia un periodo di continui viaggi fra New York e Los Angeles. A New York i figli e la moglie Molly, a Hollywood forma coppia fissa con Connie. Per Constance, però, le cose non vanno bene: Goldwyn si è stancato di lei. Dopo “Così vinsi la guerra” con Danny Kaye, scopre che alla Mgm hanno scelto di lanciare la bionda Virginia Mayo. Kazan è pieno di rabbia contro le belve di Hollywood, ma in un momento di sincerità dice a se stesso che lui non si è comportato meglio: non ha lasciato la moglie e non si è adoperato per farla recitare.

Pavese, in pochi mesi, scrive decine di copioni cinematografici per Connie, con la speranza di rinsaldare il rapporto; Kazan, famosissimo e grande scopritore di attori come Marlon Brando (Un tram che si chiama Desiderio (1951) e Fronte del porto (1954)), Paul Newman, James Dean ed Elizabeth Taylor e Audrey Hepburn, ma non fece fare a Constance neanche una particina nei suoi film.

Kazan è divorato dalla gelosia. Pavese scrive una desolata e comprensiva poesia The cats. Il giorno dell’addio a Pavese, Connie scrive “I’ll never forget you”. A Kazan, che all’inizio del 1945  attende l’imbarco per i Mari del Sud e le scrive una lettera di scuse e di promesse, lei risponde secca e dura: «Perché non impari a comportarti da uomo? Dimenticami. C.». Non si rivedranno più.

Pavese e Connie morirono giovani; Kazan a novant’anni nel 1999. Durante la 71ª edizione degli Oscar, venne premiato dall’Academy con il riconoscimento alla carriera. Nella cerimonia di consegna della statuetta, non tutti gli artisti in platea – memori della sua partecipazione al comitato McCarthy – si alzarono ad applaudire, tra gli altri, Ed Harris e Nick Nolte rimasero seduti e incrociarono le braccia.

Nel 1982, alla Cinémathèque francaise di Parigi fu posta una domanda su Kazan a Orson Welles che rispose: “Chère mademoiselle, avete scelto il metteur en scène sbagliato, perché Elia Kazan è un traditore. È un uomo che ha venduto a McCarthy tutti i suoi compagni in un momento in cui poteva continuare a lavorare a New York con un alto stipendio, e dopo aver venduto tutta la sua gente a McCarthy, ha poi girato un film intitolato On the Waterfront che era una celebrazione dell’informatore”.

In “A life”, Kazan del tradimento degli amici di fronte alla commissione McCarthy non scrive nulla, ma nelle memorie tuttavia ricorda anche Cesare Pavese: «Constance non ce la fece a sfondare a Hollywood». Se ne andò in Europa con sua sorella Doris e per un po’ di anni vissero in Italia felici e ammirate. Laggiù Constance divenne l’amante di Cesare Pavese, un bravo poeta che aveva problemi sessuali (“sicuramente aveva anche altri problemi che erano all’origine del suo infelice rapporto con il sesso”).

Pavese si suicidò e Constance tornò negli Stati Uniti. Recitò nel suo ultimo film Gog, prodotto da Ivan Tors, sposò lo stesso produttore cinematografico ed ebbe tre figli. È morta a soli quarantanove anni, ufficialmente un’emorragia cerebrale ha messo fine alla sua vita, mentre Lawrence G. Smith, autore di un saggio su Pavese, riporta la testimonianza del nipote: suicidio con sonniferi. lo studioso racconta di essere venuto a conoscenza della fine di Connie da Jonathan Shaw, figlio di Doris Dowling, sorella di Constance. Lo ha incontrato in una maniera rocambolesca. Aveva saputo che Jonathan voleva vendere delle lettere, dei libri e dei soggetti cinematografici pavesiani, in possesso di sua madre e di Constance. Shaw, però, stava per partire per Rio de Janeiro, dove viveva. Smith è riuscito a raggiungerlo, Jonathan aveva già le valigie in mano. Ha acquistato le carte e, chiacchierando con lui, ha saputo come era morta l’attrice. La circostanza gli sarebbe stata poi confermata da uno dei figli di Constance.

“Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualsiasi amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla”

Come abbiamo visto, Pavese, a capodanno del 1950, a Roma, incontra le sorelle Dowling, attrici americane alla ricerca di successo a Cinecittà. Doris sta girando Riso amaro, a cui Pavese ha collaborato per la sceneggiatura. In primavera si innamora della sorella Connie, il diario testimonia le speranze dello scrittore: le emozioni sono uniche e al contempo sono le stesse di ogni innamorato di tutti i tempi.

 

Il mestiere di vivere 1935- 1950. Edizione Einaudi 1952

Cervinia, 6 marzo

Stamattina alle 5 o 6. Poi la stella diana, larga e stillante sulle montagne di neve. L’orgasmo, il batticuore, l’insonnia. Connie è stata dolce e remissiva, ma insomma staccata e ferma. Il cuore mi ha saltato tutto il giorno, e non smette ancora. (Da tre notti quasi non dormivo. Parlavo, parlavo). Quella che si chiama passione non sarà poi semplicemente questo dibattersi del cuore, questa tara nervosa?

Sono molto deteriorato dal ’34 e dal ’38. Allora ero smaniosissimo ma non malato.

Eppure tutto mi pare un wandepunkt epocale. Tutto. Ma la figura di lei socialmente e moralmente? Se ci fosse un malinteso?

E io? non mi illudo nel vecchio modo, scambiando per valori umani dei semplici condimenti di distinzione, glamour, avventura, haut monde? La stessa America, il suo ritorno ironico e dolce, entra come valore umano, vero?

9 marzo

Battito, tremore, infinito sospirare. Possibile alla mia età? Non mi succedeva diverso a 25 anni. Eppure ho un senso di fiducia, di (incredibile) tranquilla speranza. È così buona, così calma, così paziente. Così fatta per me. Dopotutto lei mi ha cercato. Ma perché non ho osato lunedì? Paura? Paura del “13 venerdì”, paura della mia impotenza? è un passo terribile.

16 marzo

Il passo è stato terribile eppure è fatto. Incredibile dolcezza di lei, parole di speranza. Darling, sorriso, lungo ripetuto piacere di star con me. Le notti di Cervinia, le notti di Torino. È una ragazza, una normale ragazza. Eppure è lei – terribile. Dal profondo del cuore: non meritavo tanto.

Constance è la dea bianca, riassunto di tutte le donne che l’hanno preceduta, avida di vita e di pelle, opposta alle donne precedenti piuttosto mascolinizzate. Donna fragile, in balia del mondo maschile holliwoodiano o di Cinecittà.

Pavese il 17 Marzo 1950 scrive la prima lettera a Constance:

Cara Connie,

volevo fare l’uomo forte e non scriverti subito, ma a che servirebbe? Sarebbe soltanto una posa.
Ti ho mai detto che da ragazzo ho avuta la superstizione delle “buone azioni”? Quando dovevo correre un pericolo, sostenere un esame, per esempio, stavo attento in quei giorni a non essere cattivo, a non offendere nessuno, a non alzare la voce, a non fare brutti pensieri. Tutto questo per non alienarmi il destino. Ebbene, mi succede che in questi giorni ridivento ragazzo e corro davvero un gran pericolo, sostengo un esame terribile, perché mi accordo che non oso esser cattivo, offendere gli altri pensare pensieri vili. Il pensiero di te e un ricordo o un’idea indegni, brutti, non s’accordano. Ti amo.

Cara Connie, di questa parola so tutto il peso -l’orrore e la meraviglia- eppure te la dico, quasi con tranquillità. L’ho usata così poco nella mia vita, e così male, che è come nuova per me.

[…] Amore, il pensiero che quando leggerai questa lettera sarai già a Roma – finito tutto il disagio e la confusione del viaggio-, che vedrai nello specchio il tuo sorriso e riprenderai le tue abitudini, e dormirai da brava, mi commuove come tu fossi mia sorella. Ma tu non sei mia sorella, sei una cosa più dolce e più terribile, e a pensarci mi tremano i polsi.

Cara. Sto lavorando per te, a presto.

 

Pavese fallito romanziere di cinema, per le sorelle Dowling

Già due giorni dopo le manda un primo soggetto cinematografico, intitolato Le due sorelle, scritto apposta per trattenere in Italia e legare a sé le Dowling, dal momento che prevede due ruoli di protagoniste femminili. Si butta a capofitto nella scrittura per il cinema e sembra che viva un nuovo “stato di creazione”:

Cara Connie, ecco il soggetto per Le due sorelle (il titolo non importa). È soltanto abbozzato, soltanto un’idea. Se a voi pare che valga la pena, ditemelo, e continueremo a lavorarci. Se non vi piace, ne farò un altro, finché troveremo quello buono. Life is many days. A me pare di aver tenuto conto del tipo e delle possibilità di entrambe. E mi pare anche di avergli dato uno sfondo e un significato da cui potrebbe nascere una bella cosa, molto recitata e ricamata, tenera e terribile, con scene commoventi e importanti. Resta naturalmente da fare tutto il lavorio di dialogo e di trovate, di passaggi e di tipi, ma non sarà difficile. Per il dialogo, sono uno dei maestri riconosciuti del genere, per la sintassi cinematografica non ne so nulla ma con la volontà si arriva a tutto. Ho già imparato nella vita a fare il traduttore, il poeta, il critico, il narratore, il correttore di bozze, il consulente editoriale, l’insegnante – tutte cose che a vent’anni non sapevo. Posso imparare a fare anche questo. E voi che avete imparato a recitare, a ballare, a posare, a parlare italiano, non siete da meno”.

Nonostante gli sforzi che Doris compie nell’ambiente del cinema romano, non trova nessun regista o produttore interessato alla realizzazione. All’inizio di aprile, Connie decide allora di tornare in America. Cesare si reca subito a Roma per vederla ancora una volta ed esita a lungo nella hall dell’albergo dove l’attrice risiede; Doris, rimasta a Roma, sollecita lo scrittore, con lettere e telegrammi, a scrivere due soggetti cinematografici: uno – intitolato prima Gli innocenti, poi Amore amaro – da interpretare con Jean Gabin e Connie, l’altro – intitolato prima La vita bella, poi Il serpente e la colomba – con Maurice Chevalier, sempre Connie, e la regia di Vittorio De Sica.

Pavese scrive quasi ogni giorno e manda i soggetti da leggere sempre a Doris,ma ne informa Connie e mantiene viva la speranza di fare un film insieme – il 19 maggio:

 «Parliamo d’odio. Io odio l’Atlantico. Sono contento che tu parli di tornare subito, ma non mi piace il tuo malcontento per il film. Non dire merde troppo spesso, non serve ad andare avanti. Sono in corrispondenza con Doris e mi sono provato a scrivere altri soggetti. Uno di essi ha avuto successo con lei, e spero che da tutto questo venga fuori qualcosa di buono per voi due».

Tre giorni dopo scrive a Doris confermando l’entusiasmo con cui si sta dedicando al lavoro di soggettista e spiegando il motivo per cui ha ormai abbandonato il progetto-Gabin:

”Perdonami se sembra che io non ti lasci tirare il fiato tra lettere e soggetti, ma in essi sto dando libero sfogo a un élan vital lungamente trattenuto che per anni non ha avuto sfogo. Sono sicuro che capisci. Ora starò più tranquillo. Ancora una parola. Solo ieri ho visto Vulcano e sono rimasto terrorizzato a vedere su quello sfondo fasullo lo stesso soggetto che avevo scritto per voi due e Gabin. Unica differenza: l’ambientazione, il personaggio di Gabin e la suspense del nostro racconto. Ho paura che dovremo riconsiderare la cosa da capo e rifare tutto.”

Le trame dei soggetti cinematografici ricordano i noir francesi degli anni Trenta e dei gangster americani degli anni Quaranta: cinema che Pavese ama e conosce. Stupisce, casomai, l’ingenua speranza dello scrittore di riuscire a suscitare l’interesse di De Sica e Zavattini ad un film di questo tipo, che pare assai lontano dalle corde del regista e dello sceneggiatore. Pavese, in una intervista radiofonica, paragona il regista ai più grandi narratori del passato. Un elogio benevolo che pare dettato per sollecitare uno dei più celebrati registi neorealisti a girare un film con le sorelle Dowling.

Tentativo fallito, perché i due cineasti si dichiarano impegnati in altri progetti. Doris, il 2 giugno, informa Pavese che De Sica non ha risposto e che il progetto di fare il film con Chevalier è sfumato, propone di pensare a un film meno ambizioso, forse con Gino Cervi. Lo scrittore, qualche giorno dopo, la consola:

“Povera Doris, capisco che deve essere stato spaventoso cercare d’ottenere qualcosa da questa orribile gente. Il silenzio di De Sica non è certo di buon augurio. Intanto, in questi giorni sono stato con il mio principale in un giro pubblicitario […] e chi credi che abbia incontrato a Milano? Proprio De Sica. E a Venezia? Proprio Zavattini. (Non li avevo mai conosciuti prima) … Zavattini mi ha detto… che impiegheranno quattro o cinque mesi per un altro film su un povero vecchio pensionato. …nel ’51 andranno negli Stati Uniti… (non hanno ancora soggetto e non intendono averne: Zavattini andrà annusando e sognando ad occhi aperti per Broadway, Bronx e tutto il resto, e De Sica lo seguirà con la macchina a presa puntata. Pare che esagerino un po’ non credi?). È un peccato che abbiamo perso Chevalier. Quanto a Cervi, ho paura che dia al nostro film un’aria un po’ provinciale. Magari Spadaro o De Filippo o un qualche giovanotto in gamba truccato da anziano e agiato borghese può andare bene lo stesso.”

Nella stessa lettera Pavese risponde anche alle sollecitazioni di Doris affinché scriva una commedia brillante (per lei, Connie e Gabin), assicurandola di provare a fare del proprio meglio. Aggiunge di aver già ideato qualcos’altro: “ho pensato un altro progetto per le due sorelle, uno raccapricciante […]. Ha per tema il “suicidio” visto come un modo di vita contemporaneo”. Si dichiara infine dispiaciuto per la “disavventura” che Doris ha affrontato leggendo Il mito, un suo saggio pubblicato nella rivista Cultura e realtà:

“ma ricordati che non pretendo che leggiate tutta la roba con cui vado infastidendo la vostra casa. Perché ve la mando, domanderai. Sai, è un segno, un ingenuo segno di affetto. I milionari vi farebbero dei regali più sostanziosi: io ho solo carta scritta. Fossi un cacciatore di leoni, via Margutta sarebbe ora tutta ruggiti di cuccioli graffianti. Sta’ sicura che non ti abbandonerò, finché potrò far qualcosa… Verso l’ultima settimana di giugno sarò probabilmente a Roma per ricevere un premio letterario. Mi farebbe molto piacere incontrarti e parlare di tutto.”

Continua a lavorare intensamente e l’11 giugno annuncia:

«ecco La vita bella che per me è diventata definitivamente Il serpente e la colomba: ci ho lavorato quattro giorni, e tieni conto che dovevo prima scriverla e poi batterla a macchina, perché mi vengono le idee solo quando ho la penna in mano».

Franco Prono, docente di Storia del Cinema Italiano, ritiene che questi soggetti, veri melodrammi noir scritti da Pavese,  riguardino alcuni temi cari allo scrittore, rielaborati però in modo poco convincente in vista di un’utilizzazione pratica, come possibile punto di partenza per la realizzazione di un film: ”trovano pertanto una loro intima giustificazione soltanto nell’affannoso tentativo di trovare un lavoro per le due amiche e far tornare Connie in Italia”.

Il 24 giugno, nel Ninfeo di Villa Giulia, lo scrittore riceve il Premio Strega per La bella estate. Durante la cerimonia accanto a lui c’è l’affettuosa presenza di Doris, alla quale scrive qualche giorno dopo, il 6 luglio: «Lavorare per le sorelle tutto quello che mi resta ora» ma anche anticipa il suicidio: «Da sabato a lunedì andrò a visitare (per l’ultima volta) il mio paese».

Doris tornerà in America, ma, mentre Constance si ritirerà dalle scene già nel 1955, ebbe una carriera più fortunata, aveva già recitato nel film Giorni perduti (The Lost Weekend, 1945) di Billy Wilder, che all’epoca era il suo compagno di vita. Al rientro si dedicherà con successo al teatro e parteciperà a molte serie televisive tra le quali alcune note anche in Italia: Alfred Hitchcock Presents, Perry Mason, Bonanza, Kojak, The Incredible Hulk. Coloro che hanno conosciuto Constance, concordano sulle sue mediocri capacità di attrice, sul suo modo rigido e impacciato di muoversi davanti alla macchina da presa, ma ricordano anche la spigliatezza, il fascino di una ragazza vivacissima, raffinata, disinvolta, sensuale, spregiudicata.

Dall’innamoramento, che scatena in Pavese sentimenti contraddittori: speranze e scoramenti, pensieri di vita e di morte, si passa in poche settimane a bilanci esistenziali, amari e disincantati. Quindi all’idea ossessiva del suicidio. È pur vero che la malinconia, l’autoderisione, l’idea del suicidio sono costantemente presenti dall’inizio del diario, ma le  ultime pagine sono una vera marcia funebre sconvolgente.

20 marzo 1950,

Mon coeur reste encore à toi. Frase di degnazione, da maggiore a minore. Perché rallegrarsi tanto? È chiaro che son io il beneficato. Echomai ouch echo. Come possedere senza esser posseduto? Tutto dipende da questo.

Dai discorsi di stasera (con la Pollone) risulta chiaro che io “sono posseduto” perché mi godo la parte interessante dell’uomo posseduto. Devo godermi quella impassibile del padrone. Sarò più amato. Ma c’è ancora gusto? Tutte le volte che ho posseduto io, non ci ho provato gusto (Dina, M., L., ecc.). Vecchia storia.

Bisogna esser posseduto senza dimostrarlo. È possibile farlo con la “saggia rassegnata comprensione”?

21 marzo

Giornata dura. Situazione internazionale, situazione it. di latente guerra civile, voci varie di reazione atomica a catena per aprile. Tutto tende a separarmi da lei, a rimandarla in Am., a bloccare Roma, a sbaraccare tutto.

Soffrivo così prima? Sì, allora soffrivo per la paura di morire. Ora, per quella di perderla. È sempre un soffrire. Rassegnati. Stoicismo, questo conta. Si fractus illabatur orbis…

22 marzo

Nulla. Non scrive nulla. Potrebbe essere morta.

Devo avvezzarmi a scrivere come se questo fosse normale.

Quante cose non le ho detto. In fondo il terrore di perderla ora, non è l’ansia” del possesso” ma la paura di non poterle più dire queste cose. Quali siano queste cose ora non so. Ma verrebbero come un torrente quando fossi con lei. È uno stato di creazione. Oh dio, fammela ritrovare.

23 marzo

L’amore è veramente la grande affermazione. Si vuole essere, si vuole contare, si vuole – se morire si deve – morire con valore, con clamore, restare insomma. Eppure sempre gli è allacciata la volontà di morire, di sparirci: forse perché esso è tanto prepotentemente vita che, sparendo in lui, la vita sarebbe affermata anche di più?

25 marzo

Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla.

26 marzo

Prima di partire per Milano:

Nulla. Sempre nulla. Come avvezzarmi? Ormai per la strada, da solo, parlo benissimo inglese.

27 marzo

Niente. Ho un carbone in corpo, brace sotto la cenere….

28 marzo

Bene. Aveva scritto. Le ho parlato, lontano. Non mi vuole subito. Ebbene, questo è bello. Lavora.

Nell’ultima delle dieci poesie scritte da Cesare Pavese per Connie Dowling ,The cats, scritta a Roma durante una lunga notte di attesa dell’attrice (secondo i pettegolezzi, lei avrebbe trascorso buona parte della notte con un attore con cui aveva una relazione), c’è tutta la tristezza e la delusione per un incontro mutilato rispetto alle aspettative ma, partendo dalla propria condizione esistenziale, un velo di tristezza avvolge tutta l’umanità: è la consapevolezza della vanità della vita. Solo “i gatti lo sapranno” perché vedono anche al buio. La vita deluderà anche le aspettative dell’attrice americana che sperava di avere successo a Roma nel mondo del cinema.

Pavese il 17 aprile 1950 scrive a Connie Dowling:

“Carissima, non sono più in animo di scrivere poesie. Le poesie sono venute con te e se ne vanno con te. Questa l’ho scritta qualche pomeriggio fa, durante le lunghe ore all’Hotel in cui aspettavo, esitando, di chiamarti. Perdonane la tristezza, ma con te ero anche triste. Vedi, ho cominciato con una poesia in inglese e finisco con un’altra. C’è in esse tutta l’ampiezza di quel che ho sperimentato in questo mese: l’orrore e la meraviglia. Carissima, non avercela a male se sto sempre parlando di sentimenti che tu non puoi condividere. Almeno puoi capirli. Voglio che tu sappia che ti ringrazio di tutto cuore. I pochi giorni di meraviglia che ho strappato dalla tua vita erano quasi troppo per me – bene, sono passati, ora comincia l’orrore, il nudo orrore e io sono pronto a questo. La porta della prigione è tornata a chiudersi di schianto… Farai in tempo a ricevere La luna e i falò. Forse sarà già ad aspettarti in North Vista Avenue prima che tu arrivi. Sono così contento che ci sia il tuo nome. Ricorda che ho scritto questo libro – interamente – prima di conoscerti, eppure in qualche modo sentivo in questo libro che stavi per venire. Non è stato meraviglioso viso di primavera, io di te amavo tutto, non solo la tua bellezza, il che è abbastanza facile, ma anche la tua bruttezza, i tuoi momenti brutti, la tua tachenoire, il tuo viso chiuso. E pure ti compiango. Non dimenticarlo.”.

Sul diario il 20 aprile:

Dopo Roma – Forse sta volando sull’Atlantico. Per due mesi. Come aspettare tanto? E aspettare che cosa?…

26 aprile

Certo in lei non c’è soltanto lei, ma tutta la mia vita passata, la inconsapevole preparazione – L’America, il ritegno ascetico, l’insofferenza delle piccole cose, il mio mestiere. Lei è la poesia, nel più letterale dei sensi. Possibile che non l’abbia sentito? …

8 maggio

È cominciata la cadenza del soffrire. Ogni sera, all’imbrunire, stretta al cuore – fino a notte.

10 maggio

Mi si chiarisce l’idea, a poco a poco, che, se anche torna, sarà come non ci fosse. “I’il never forget you” questo si dice a chi si ha intenzione di mollare.

Del resto, come mi sono comportato io con quelle che mi pesavano, mi seccavano – che non volevo? Nell’identico modo.

Il gesto – il gesto – non deve essere una vendetta. Dev’essere una calma e stanca rinuncia, una chiusa di conti, un fatto privato e ritmico. L’ultima battuta.

12 maggio

Scritto un altro soggetto: Amore amaro. E con questo? Avrà lo stesso destino, e se anche ne avesse uno migliore, servirà ad altro che a staccarla di più?

13 maggio

In fondo, in fondo, in fondo, non ho colto al volo questa straordinaria avventura, questa cosa insperata e fascinosa, per ributtarmi al mio vecchio pensiero, alla mia antica tentazione – per avere un pretesto per ripensarci…? Amore e morte – questo è un archetipo ancestrale.

16 maggio

Adesso il dolore invade anche il mattino.

27 maggio.

La beatitudine del ’48-49 è tutta scontata. Dietro quella soddisfazione olimpica c’era questo – l’impotenza e il rifiuto a impegnarmi. Adesso, a modo mio, sono entrato nel gorgo: contemplo la mia impotenza, me la sento nelle ossa, e mi sono impegnato nella responsabilità politica, che mi schiaccia. La risposta è una sola – suicidio.

Dilemma. Devo essere un assoluto amico, che tutto fa per il suo bene, o un risoluto indemoniato che si scatena? Inutile domanda – è già deciso da tutto il mio passato, dal destino: sarò un amico indemoniato che non otterrà nulla – ma forse avrà il coraggio. Il coraggio…Certo io so di lei più cose che lei non sappia di me.

Il 24 giugno si reca a Roma a ritirare il premio, è stata Doris Dowling ad accompagnarlo, un po’ esitante, smarrito alla cerimonia mondana.

“A Roma apoteosi. E con questo? Ci siamo. Tutto crolla. Lo stoicismo è il suicidio. Del resto sui fronti la gente ha ricominciato a morire (ndr guerra in Corea) Se mai ci sarà un mondo pacifico, felice, che cosa penserà di queste cose? forse quello che noi pensiamo dei cannibali, dei sacrifici aztechi, dei processi alle streghe” (il Mestiere di vivere 14 luglio ’50)

Il 6 luglio 1950 scrive a Doris Dowling “Da sabato a lunedì andrò a visitare (per l’ultima volta) il mio paese”, mentre scrive soggetti cinematografici per le sorelle Dowling il pensiero della morte non lo abbandonerà più:

Bene, ho ricevuto una cartolina allegra e rassicurante di Connie dal New Mexico (del 27 giugno) ed ero molto triste sapendo, come so, che non tornerà mai. Mi sentivo come un uomo a cui tortuosamente si dice che ha il cancro. Uno non può avere troppo dalla vita (!), ma tutto quello che uno ha sembra spazzatura. È tanto che ho capito che la mia sorte è abbracciare delle ombre. Bene. Roma era grande, ma che cosa sarebbe stata senza la tua amorevolezza e la tua cura? Mi hai fatto sentire in pace con te e con la mia sorte – cosa difficile – sei stata una vera amica, una sorella affezionata, qualcosa che non conoscevo – perché non ci si può sentire sempre così e ci sono guerre, minacce, amore e sesso, oceani e cancro? Spero che salti fuori qualcosa che ti trattenga un po’ più a lungo in Italia. Lavorare per le sorelle D. è tutto quello che mi resta ora. Non ridere, sono quasi vecchio. Dada era felice e non vede l’ora di rivederti. Stanno festeggiandomi (intendo tutta Torino e l’Italia) come un piccolo Cesare e io mi comporto più graziosamente che posso. Il gaio di queste cose è che arrivano sempre quando uno le ha già superate e sta inseguendo dei strani e diversi, bene Doris, da sabato a lunedì andrò a visitare (per l’ultima volta) il mio paese. Non telefonarmi in quei giorni. Dopo sarò tuo di nuovo, Saluta Harry e Nico.

La lettera a Billi Fantini, segretaria del Premio Strega, del 20 luglio del 1950:

Cara B. io non mi “preoccupo” di niente. Ho abbastanza grattacapi, personali e storici, da occuparmi giorno e notte. Questo però non toglie che mi dispiace vedere le energie altrui versarsi sulla sabbia e sparire. Creda a me, nessuno come me in questi mesi sa quanto sia vana una pena, una sofferenza, un’acquolina di questo genere.

Questo mi dispiace, anche se a me non ne vengono che gli omaggi – la “prodigiosa” intelligenza, l’”insostituibilità” di Leucò, ecc. A proposito che vuol dire che la prediletta Luna è stata tradita con Leucò? Vuol forse dire che lei ha capito che Leucò è il mio biglietto da visita presso i posteri? Pochi ci arrivano. Tanto meglio.

Mi ricordo sovente dell’alba e del profilo della casetta perché mi sono molto piaciuti – sono un mio “mito” antico. Che cos’è il mito? Deve leggere in “Feria d’agosto” il saggetto intitolato “Del mito, del simbolo e d’altro”, oppure nel primo numero di “Cultura e realtà” la rivista che ha allarmato, a mio parere ingiustificatamente, il partito, l’altro soggetto intitolato “Il mito”. Lei non sa che sono anche un filosofo, un teorico dell’arte? Non c’è cosa ch’io non possa fare, quando beninteso non sia “stregato”. Allora divento un “cavaliere dalla triste figura” e mi rodo il fegato. Brutta sorte.

Auguri B., e si convinca che fuori dei libri scritti io non sono che una mezza cartuccia, un “angolino da ripulire”, un vermiciattolo.

Pavese

Pavese, ormai entrato nella fase più acuta della crisi, passa alcuni giorni dell’agosto 1950 a Bocca di Magra nella casa di villeggiatura di Giulio Einaudi e si invaghisce di una ragazza di diciotto anni a cui scrive biglietti “Ogni tuo ballo è un giorno di meno nella mia vita. Me ne restano pochi. P” e almeno tre lettere in cui manifesta l’intenzione di suicidarsi.

Nel frattempo Cesare Pavese il 12 o 13 agosto rientra a Torino e si stabilisce nell’albergo Roma, vicino alla stazione Porta Nuova. Sul  diario di quei giorni annota:

16 agosto: “Cara, forse tu sei davvero la migliore – quella vera. Ma non ho più il tempo di dirtelo, di fartelo sapere – e poi, se anche potessi, resta la prova, la prova, il fallimento.

Vedo oggi chiaramente che dai 28 a oggi ho sempre vissuto sotto quest’ombra – qualcuno direbbe un complesso. E dica pure: è qualcosa di molto più semplice.

Anche tu sei la primavera, un’elegante, incredibilmente dolce e flessibile primavera, dolce, fresca, sfuggente – corrotta e buona – «un fiore della dolcissima valle del Po», direbbe chi so io.

Eppure, anche tu sei soltanto un pretesto. La colpa, dopo che mia, è soltanto dell’«inquieta angosciosa, che sorride da sola.”

Perché morire? non sono mai stato vivo come ora, mai così adolescente.

Nulla si assomma al resto, al passato. Ricominciamo sempre.

Chiodo scaccia chiodo. Ma quattro chiodi fanno una croce.

“La mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti.”

17 agosto 1950

I suicidi sono omicidi timidi. Masochismo invece di sadismo.

Il piacere di farmi la barba dopo due mesi di carcere – di farmela da me, davanti a uno specchio, in una stanza d’albergo, e fuori era il mare.

È la prima volta che faccio il consuntivo di un anno non ancor finito.

Nel mio mestiere dunque sono re.

In dieci anni ho fatto tutto. Se penso alle esitazioni di allora.

Nella mia vita sono più disperato e perduto di allora. Che cosa ho messo insieme? Niente. Ho ignorato per qualche anno le mie tare, ho vissuto come se non esistessero. Sono stato stoico. Era eroismo? No, non ho fatto fatica. E poi, al primo assalto dell’“inquieta angosciosa”, sono ricaduto nella sabbia mobile. Da marzo mi ci dibatto. Non importano i nomi. Sono altro che nomi di fortuna, nomi casuali – se non quelli, altri? Resta che ora so qual è il mio più alto trionfo – e a questo trionfo manca la carne, manca il sangue, manca la vita.

Non ho più nulla da desiderare su questa terra, tranne quella cosa che quindici anni di fallimenti ormai escludono.

Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò.

Ti stupisci che gli altri ti passino accanto e non sappiano, quando tu passi accanto a tanti e non sai, non t’interessa, qual è la loro pena, il loro cancro segreto?

18 agosto

La cosa più segretamente temuta accade sempre.

Scrivo: o tu, abbi pietà. E poi?

Basta un po’ di coraggio.

Più il dolore è determinato e preciso, più l’istinto della vita si dibatte, e cade l’idea del suicidio.

Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l’hanno fatto.

Ci vuole umiltà, non orgoglio

Tutto questo fa schifo.

Non parole. Un gesto. Non scriverò più.

Il 21 agosto P. scrive a Tullio Pinelli e alla moglie Maria Teresa Quilico amici da venticinque anni, quando frequentavano il liceo Massimo d’Azeglio a Torino:

‘Invidio la vostra cristiana testardaggine. Io ho un diavolo per capello – e purtroppo ho molti capelli, non riesco a incalvire. Il premio chi se lo ricorda? sono balle. Val la pena questa gloria? io sono come Laocoonte: mi inghirlando artisticamente coi serpenti e mi faccio ammirare – poi ogni tanto mi accorgo dello stato in cui sono e allora scrollo i serpenti, gli tiro la coda, e loro strizzano e mordono. È un gioco che dura da vent’anni. Comincio ad averne abbastanza. Nessun amico ho cercato a Roma, perché non ne volevo. Vivete allegri e speriamo di vederci – chi sa – magari in cielo’. Pavese

Il 25 agosto scrive a Giuseppe Vaudagna:

Caro Giuseppe,

Cosa sono questi isterismi? Mi dispiace di aver avuto il tono nero parlando con Adele, ma è semplicemente che ho l’anima rigata per ragioni mie, sono a pezzi, non ho voglia di veder nessuno e pagherei a peso d’oro un assassino che mi accoltellasse nel sonno. Evidentemente tutto ciò si sente dalla voce.

Né cerco conforto. Non ne ho voglia né fiato. Tiro avanti per conto mio, sperando che sia presto tutto finito.

Per te e per le tue fraterne proteste ho gratitudine e riconoscenza.

Non pensare ad altro. Ciao. Pavese

Il 27 agosto 1950 Cesare Pavese venne trovato morto all’albergo Roma di Torino. Aveva ingerito dieci bustine di sonnifero. I suoi amici stretti, a partire da Giulio Einaudi, hanno sempre tenuto un certo  riserbo sulla morte di Pavese; L’unica che ha rotto il silenzio è stata Natalia Ginzburg, che frequentava da molti anni Pavese. In appendice riporto il racconto illuminante di Guido” Ceronetti.

Sul frontespizio dei Dialoghi con Leucò, posato sul tavolino, Pavese scrive le sue ultime parole:

“Perdono tutti

e a tutti chiedo perdono. Va bene?

Non fate troppi pettegolezzi

Cesare Pavese”

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