Capitolo: Clelia e le donne sole

per Gian Franco Ferraris

Capitolo: Clelia e le donne sole

Tra donne sole è il romanzo che Cesare Pavese compone fra il marzo e il maggio del 1949, con uno slancio che lui stesso definirà “sospettosamente facile”. Alla fine del lavoro, nel suo diario annota:
«Finito oggi Tra donne sole. Gli ultimi capitoli scritti ciascuno in un giorno… Ho avuto un bel coraggio. Ma sospetto di aver giocato di figurine… L’assunto non era tragico?»

La storia è quella di Clelia, donna di umili origini torinesi, emigrata a Roma dove, grazie al lavoro, è riuscita a costruirsi un’identità autonoma. Modista affermata, viene inviata dalla ditta per cui lavora ad aprire un atelier a Torino. Il romanzo si apre con il suo ritorno nella città natale, in un paesaggio di neve e macerie, dove la guerra appena finita ha lasciato rovine materiali e morali.

Clelia attraversa una Torino sospesa, che tenta di dimenticare e ricominciare, ma che resta prigioniera della sua doppia natura: da un lato città severa, operosa e austera, dall’altro centro piccolo-borghese che si illude di essere Parigi. Immergendosi in una rete di relazioni mondane — feste, vernissage, gite in Liguria — Clelia entra in contatto con un gruppo di donne borghesi, fragili e sole, ciascuna a suo modo naufraga di un’esistenza senza scopo.

Centrale è il personaggio di Rosetta Mola, giovane che Clelia vede la prima sera, trasportata in barella dopo un tentativo di suicidio. È l’ingresso in un mondo elegante e insincero, dove si muovono figure come Momina, Mariella, Nenè: donne affascinanti, ciniche, piene di battute e vuote di senso. Uomini e donne sembrano appartenere allo stesso teatrino stanco: battute brillanti, flirt spenti, relazioni senza radici. Il mondo borghese non è decadente in senso romantico: è solo inerte.

Clelia osserva tutto ciò con distacco e disciplina. La sua salvezza è il lavoro, che le dà misura, regola e dignità. L’unico uomo con cui condivide un’autenticità è Becuccio, giovane operaio della boutique, comunista dichiarato, che scherza con lei:
«No padrona… non arrivo più in là dei ceti medi».
Una battuta che racchiude umiltà, consapevolezza di classe e un’ironia leggera che fa da contrappunto alla cappa di finta brillantezza che soffoca gli altri personaggi.

Il romanzo si struttura come un lento viaggio attraverso l’incomunicabilità. Tutti parlano, nessuno si ascolta. I dialoghi — fitto reticolo di frasi di circostanza, allusioni, pettegolezzi — non costruiscono relazioni, ma le svuotano. In questo, Pavese tocca vertici esistenzialisti simili a quelli di La nausea di Sartre: l’uomo è solo, e la società è un insieme di maschere.

Il destino segna Rosetta, che si uccide davvero al secondo tentativo. La trovano sola, in una stanza presa in affitto. Il romanzo si chiude fra chiacchiere e funerali, fra l’eco di una tragedia e la continuità cinica del mondo che l’ha prodotta.

 

 

Il film di Antonioni

L’opera colpì Michelangelo Antonioni, che nel 1955 ne trasse Le amiche, film cupo e raffinato che vinse il Leone d’argento a Venezia. Il regista tristerello — come lo definiva qualcuno — restituisce bene l’atmosfera del romanzo: silenzi pesanti, dialoghi obliqui, paesaggi urbani che diventano metafora del vuoto. Il dualismo Torino-Roma, appena accennato da Pavese, viene esplicitato nel film: Roma è frivola e affamata di apparenze; Torino è austera, laboriosa, ma gelida e opprimente.

Il film, pur discostandosi dalla struttura narrativa del romanzo, ne conserva l’anima amara: descrive con rigore psicologico una borghesia femminile elegante e perduta, apparentemente emancipata, ma ancora legata alla centralità del maschio, fragile come individuo ma dominante nei ruoli sociali.

 

 

Appendice narrativa: due lettori, due scontri

Tra i primi lettori del romanzo vi furono Augusto Monti e Italo Calvino.

Monti, suo vecchio insegnante al liceo d’Azeglio, lo accusò di dannunzianesimo. Pavese, ferito, rispose con sarcasmo:
«Quando ho letto il paragone con Pastonchi… ho detto: “È diventato fesso, e basta”.»

In una lettera successiva, più conciliante, scrisse:
«Se tu ritiri il dannunziano, io ritiro il sentimentale e il militante… Ciao, sta’ bene e ricorda che Einaudi paga con dolore.»

Alludeva ai diritti d’autore che Monti attendeva per il suo libro Tradimento e fedeltà, da poco pubblicato.

Anche Italo Calvino — allora giovane redattore in Einaudi — fu spietato. Lesse il manoscritto e vi scorse Pavese travestito da donna:
«Una donna-cavallo, pelosa, con l’alito di pipa, che parla in prima persona: sei tu, con la parrucca e i seni finti.»

Riconosceva però anche un’intuizione profonda: il nesso fra lavoro e solitudine. Il romanzo, secondo Calvino, mostra come solo il lavoro possa dare una forma umana ai rapporti. Clelia — diceva — è una donna che “trova la sua regola di vita come scapola, e prende gli uomini come noi si prendono le ragazze”.

Pavese gli rispose a tono:
«Applichi due schemi, come due occhiali… Cavallinità e peni di faggio sono pura e bella invenzione. (…) Vergogna.»

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