Marina
Quando hai incontrato Cesare Pavese?
Gian Franco
Non di persona, ovviamente. Ma l’ho incontrato lo stesso, a quindici anni. Era l’estate del Settanta: tutto sembrava sul punto di cambiare, e io mi aggrappavo ai libri come a un’idea di futuro.
Mia sorella Anastasia studiava filosofia a Torino. Portava a casa quei volumi Einaudi grigi, senza immagini, severi. Uno in particolare mi attrasse: La luna e i falò.
Lo lessi in due notti, di molto capii poco. Ma sentivo. Sentivo che quel racconto parlava a me, senza passare dalla testa.
Il protagonista, Anguilla, tornava al paese dov’era cresciuto e non trovava più nulla. Né le persone, né i luoghi, né se stesso.
Lessi e rilessi quella frase – “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene” – come fosse una formula magica. Era la prima volta che la letteratura diceva qualcosa che sentivo mio, in modo esatto e irrevocabile.
Da lì, presi tutto Pavese. Il mestiere di vivere mi folgorò. Finsi l’influenza, restai a letto tre giorni . Leggevo come in febbre, cercando qualcosa che non sapevo nominare.
Rileggendolo oggi mi accorgo che molte cose mi sfuggivano. Ma certe letture ci formano non per ciò che capiamo, ma per ciò che smuovono.
Marina
Ci sei mai stato, a Santo Stefano?
Gian Franco
Sì. La prima volta a diciott’anni, appena presa la patente. Avevo una 500 color panna e una ragazza accanto, Giuliana, che parlava poco e fumava sempre.
Aveva la voce roca, come certe donne pavesiane. Non bella in senso classico, ma con un’aria altrove, come se appartenesse a un ricordo non suo.
Salimmo in collina. Il paese era ancora intatto, senza targhe o percorsi guidati. La casa natale era chiusa, il cimitero deserto. Ci sedemmo su un muretto, lei fumava in silenzio e io lessi un brano ad alta voce. Quando dissi “Ma poi si torna sempre”, Giuliana soffiò il fumo e mormorò: “E non si trova più niente.”
Aveva colto tutto.
Negli anni ci sono tornato più volte. Da solo. Ogni visita un pellegrinaggio, non per cercare Pavese, ma per capire cosa restava di me. Una volta nevicava, una volta pioveva. Ma le colline, sempre uguali, restavano in silenzio. Come se dicessero: “Non siamo qui per consolare.”
Marina
Lo hai mai capito, Pavese?
Gian Franco
No. Ma credo che sia giusto così. Pavese non va capito, va inseguito.
È un autore che si offre per sottrazione. Più ti avvicini, più si ritrae. È come quelle colline: non parlano, ma dicono. Bisogna imparare a leggerle con lentezza, come si fa con i ricordi.
Per me Pavese è questo: il senso di qualcosa che c’era e non c’è più, e che pure continua a bruciare. La nostalgia di un’origine che forse non c’è mai stata davvero.