Fonte: Neri e Pozza
Marco Follini racconta suo padre: “Era un uomo di Gladio”
Pubblichiamo, dell’editore Neri Pozza, un estratto del libro di Marco Follini, Beneficio d’inventario, da oggi in libreria
Non si dovrebbe rispondere al telefono, la sera di Natale. Ma quella sera lo squillo sembrava più insistente del solito, quasi perentorio. Così, risposi e seppi qualcosa di mio padre che non avevo mai neppure lontanamente immaginato. All’altro capo del filo la batteria mi passò l’ex presidente. «Ti voglio dire qualcosa che forse non ti piacerà, o forse invece magari sì. Tuo papà era uno dei capi di Gladio. Non ne troverai tracce, per quante ne cerchi, ma sappi che le cose stanno così. Buon Natale». Clic. E anche quel clic, quella sera di vigilia, mi sembrò più rumoroso e quasi definitivo. Mio padre era morto da qualche mese, e come tutte le persone di una certa età, e di salute malferma, aveva sovrapposto negli ultimi tempi la sua immagine di fragilità ai ricordi dell’antica, paterna sicurezza che aveva sempre cercato di infondere – non solo in me. Da ragazzo lo avevo vissuto come un uomo pieno di risorse, capace di fronteggiare ogni situazione spargendo intorno a sé tutte le certezze che gli altri andavano cercando. Poi però si era lasciato inghiottire dalla zona grigia dell’età della pensione. E lì si era un po’ perso, tra progetti che non aveva più il vigore di portare a termine e velleità che il tempo – quel tempo – si incaricava a quel punto di rendere improbabili. Così, mi era rimasto un dubbio su quale fosse stato il territorio che in realtà mio padre, negli anni buoni, aveva davvero abitato e forse a suo modo cercato di governare. Su quanto cioè quel territorio fosse solido, e quanto invece non fosse diventato nel frattempo un po’ evanescente, come certe fantasie a cui gli anni finiscono sempre per sottrarre qualcosa. Il presidente, a sua volta, era sempre stato per me un piccolo mistero. Perennemente in bilico tra la solennità della sua carriera e la compiaciuta ma tragica complessità del suo carattere. Poteva essere inappuntabile come un cadetto asburgico o scherzoso come un fool shakespeariano. Una parte di lui, quella che aveva lungamente determinato le sue fortune, era ufficiale, istituzionale, notabilare, pienamente aderente a tutti gli aulici codici del protocollo. Alle volte anche con qualche enfasi di troppo.
Ma poi tutti i saliscendi della sua vicenda pubblica, e alcune delle circostanze più drammatiche nelle quali si era venuto a trovare, avevano finito per farlo evadere da quella ritualità. E quelle sue evasioni lo avevano indotto a scartare di qua e di là, facendosi rincorrere e poi ritrovare laddove nessuno avrebbe mai immaginato che si fosse potuto rintanare. Via via che passavano gli anni questa seconda parte di lui sembrava infine aver preso il sopravvento. A poco a poco, infatti, il paradosso era diventata la sua cifra. Sicché non si poteva mai sapere quando stesse parlando nel modo canonico che ci si sarebbe aspettato da un presidente, sia pure emerito; e quando invece avesse preso la parola il folletto inquieto e divertito che spaziava nella sua fantasia. L’omino bianco contro l’omino nero, per dirla con le sue metafore. La telefonata di quella sera natalizia, per l’appunto, aveva tutta l’aria di questo secondo registro, più lieve e forse meno attendibile del primo. Ma poiché troppe volte il presidente emerito aveva affidato certe sue verità al suo spirito apparentemente bizzarro, forse non era il caso di considerare quella conversazione come uno scherzo. Non era la prima volta che dalle nostre parti il potere si trovava a vestire panni ludici, se così si può dire. E ogni volta, deposte le sue vecchie insegne, la suggestione che ne rimaneva consigliava ai suoi sacerdoti la via della divagazione. Così, il linguaggio prudente e paludato dell’ufficialità finiva per lasciar posto alle allusioni, alle metafore, ai giochi di parole. E in qualche caso a una sorta di giocosa licenza chiamata a compensare tardivamente i doveri e il contegno della passata ufficialità. Era quello il caso? Non avrei saputo dire. Mi apprestavo, da spettatore ignaro e involontario, ad assistere a una rappresentazione di cui mi sfuggiva il significato nascosto. Sul palcoscenico della mia immaginazione comparvero a un tratto due attori diversissimi.
L’uomo di potere, che aveva esercitato le più nobili funzioni della nostra vita pubblica. E un’altra figura familiare, più dimessa ma non così marginale, che quel potere lo aveva visto da vicino senza mai farne parte a pieno titolo. In quella loro differenza si potevano addirittura cogliere due letterature del potere. La sua loquacità immaginifica, fin troppo fantasiosa, quasi indiscreta, contro la rispettosa discrezione di chi preferiva avvolgere l’importanza delle cose sotto una coltre di allusivi e quasi deferenti silenzi. La chiacchiera sapiente di chi finalmente poteva parlare sopra le righe e l’allusione sottile e rispettosa di chi invece s’era sempre posto dentro, e qualche volta sotto, le righe altrui. Nel vano tentativo di decifrare parole e silenzi avrei finito per imbattermi nel gioco delle mille somiglianze e differenze che dovevano aver cucito, a un certo punto della vita, quei loro destini. Con tutta la serietà degli argomenti di cui si erano occupati, certo. Ma anche con quella loro attitudine a non prendersi mai troppo sul serio e a lasciar correre la fantasia verso un punto più lontano, dove non la si sarebbe più potuta domare. Quasi un invito a prendere le cose con beneficio d’inventario. Peraltro quei due, il presidente e mio papà, aveva no idee agli antipodi sul segreto. L’uno pensava che prima o poi i segreti, tutti i segreti, dovessero essere divulgati, esplorati, scandagliati, sottratti all’ambiguità delle loro ombre. L’altro pensava all’opposto che l’insidia stesse a volte proprio nella luce troppo abbagliante e che la riservatezza fosse una grande virtù ci vile. Due opinioni che stridevano un po’ con le loro due biografie, dato che – quasi contro ogni logica e ogni abitudine – l’uomo di potere si trovava a prediligere l’indiscrezione e l’uomo qualunque a rispettare la riservatezza. Il presidente s’era liberato dei panni dell’ufficialità ancor prima di finire il suo mandato. Aveva denunciato la vanità dell’impresa politica dopo averne salito a uno a uno, con metodica prudenza, tutti i gradini.
E in quelle sue esagerazioni, volutamente provocatorie, s’era messo in testa di raccontare, per paradossi, la fine del potere – il suo e quello dei suoi simili. In mezzo a quelle esagerazioni si poteva forse cogliere il mistero che spiega e deforma la trama dell’autorità politica. Ma appena qualche gradino più sotto, quanti avevano cercato rifugio sotto la coltre di quel potere sembravano propensi piuttosto a una fiduciosa deferenza. Per molti di loro non era pensabile che l’autorità politica si svestisse dei suoi panni più sontuosi. E anche le sue peripezie meritavano quasi sempre un racconto serioso, se non addirittura solenne. Mio padre era tra questi. Il potere (quello altrui, soprattutto) lo aveva sempre preso piuttosto sul serio e addobbato con le sue maschere più sontuose. Per un attimo, quella sera, mi venne da pensare che molto probabilmente lui avrebbe considerato poco appropriata quella telefonata. E che non avrebbe perso troppo tempo a rimuginarci sopra.
Tantomeno a lasciarsi andare a confidenze troppo disinvolte. Come a dire che per un curioso paradosso chi era stato “il” potere ci poteva sempre scherzare sopra. E chi invece si era solo mosso nei suoi dintorni, con passo felpato e fin troppo rispettoso, danzando al suono della sua musica, avrebbe giudicato assai severamente quel costume scanzonato. E più ancora quella confidenza natalizia. Il divario tra quei pensieri, e il modo di esprimerli, avvolgeva la frontiera tra realtà e racconto in una nebbia che non si lasciava diradare.