La vita attraverso le lettere di Cesare Pavese, il romanzo più intenso
Caro Bobbio, 22 aprile 1943
Ti scrivo io perché Balbo(1) è tornato al corpo. Anzitutto mi commuovo sulla sorte di quella ragazza che sposerai, e poi riprendo alla tua lettera editoriale del 15 aprile.
Sta bene per Von Hugel. Gli darò anch’io un’occhiata, e in caso lo escluderemo dalla Filosofica.
Il Whitehead e lo Haldane che ci segnali sono noti, e il primo venne già bocciato dal Ministero.
Comunque ci pensiamo. Dell’altro vedremmo volentieri il resto, benché siamo convinti che non venga autorizzato.
Che le rose fioriscano sul tuo sentiero.
Ciao Pavese
ossequi alla tua futura Lady.
Nel 2001, all’improvviso, morì la moglie di Bobbio, Valeria. Bobbio, originario di Rivalta Bormida, aveva 92 anni e la morte della moglie lo aveva reso vulnerabile e annichilito dal dolore. La notte prima del funerale, rilessi gli auguri che Pavese aveva scritto a Bobbio in occasione del suo matrimonio. Bobbio mi chiese di rileggerli, aveva gli occhi e il sorriso di una tristezza cosmica, ma con una scintilla negli occhi mi disse “Pavese era misogino e se sei attento anche da questi auguri traspare!”. Non osai chiedergli una spiegazione e tante volte mi sono chiesto che cosa avesse inteso e penso che non troverò mai una risposta convincente alla sua affermazione.
Di certo la vita affettiva fu la vera tragedia di Pavese e lo accompagnò per tutta la vita. Anche dalla lettura delle lettere si vede che il rapporto con le donne, i sentimenti, la sessualità sono stati per lo scrittore una sofferenza senza sosta.
Le lettere raccolte con cura da Lorenzo Mondo e Italo Calvino negli anni Cinquanta e Sessanta si possono dividere in tre blocchi: quelle private in gran parte riguardavano la corrispondenza con gli amici di sempre, le lettere di natura affettiva e quelle relative alle pubblicazioni della casa editrice Einaudi, fondata da Giulio (figlio del primo Presidente della Repubblica del dopoguerra). Ovviamente questi ‘blocchi’ di lettere si intrecciano e ricostruiscono un’epoca dal fascismo al dopoguerra: letteratura, politica e racconti di vita si confondono perché i compagni del liceo Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila, Augusto Monti (insegnante al D’Azeglio) e Tullio Pinelli (non scrisse libri ma sceneggiature di Fellini, Germi, Lattuada e molto altro), saranno anche autori della casa editrice. Anche le donne amate facevano parte dello stesso tessuto culturale; Tina Pizzardo apparteneva al gruppo di antifascisti torinesi colpiti dalla polizia fascista nel 1935, mentre Fernanda Pivano, Teresa Motta e Bianca Garufi lavoravano per l’Einaudi.
Le lettere sono una testimonianza importante e critica, non solo del travaglio intellettuale e morale di Pavese, ma di quello di tutta una epoca e una generazione.
Le lettere e l’Einaudi
Buona parte delle lettere di Pavese proviene dall’appassionato lavoro che lo scrittore svolse per la casa editrice Einaudi che iniziò negli anni Trenta. Nel 1941 pubblicò il primo libro. Questa la risposta di Pavese alla lettera-contratto dell’editore Einaudi (Torino), 2 maggio 1941:
Spettabile Editore Einaudi,
accetto le condizioni che mi fate per l’edizione del mio racconto Paesi tuoi. Gradirei che simbolicamente mi fosse versato in anticipo n. 1 pipa, onde fumarmela e preparare in serenità altri e più seducenti racconti.
Dev.mo
Cesare Pavese
In questi tempi di voucher, la lettera a Giulio Einaudi ha fatto scalpore sul web fino a diventare il manifesto di tutti coloro che, lavorando come freelance, non ricevono rispetto per il lavoro svolto. Quello che si è omesso è che la lettera fa parte di un carteggio in cui spesso Pavese scherzava con l’editore Giulio Einaudi, a cui questa lettera era indirizzata. Ovviamente Pavese svolse il lavoro, e ovviamente il compenso non erano solo sei sigari Roma:
“Avendo ricevuto n. 6 sigari Roma – del che Vi ringrazio – e avendoli trovati pessimi, sono costretto a risponderVi che non posso mantenere un contratto iniziato sotto così cattivi auspici. Succede inoltre che i sempre rinnovati incarichi di revisione e altre balle che mi appioppate, non mi lasciano il tempo di attendere a più nobili lavori. Sì, Egregio Editore, è venuta l’ora di dirVi, con tutto il rispetto, che fin che continuerete con questo sistema di sfruttamento integrale dei Vostri dipendenti, non potrete sperare dagli stessi un rendimento superiore alle loro possibilità.
C’è una vita da vivere, ci sono delle biciclette da inforcare, marciapiedi da passeggiare e tramonti da godere. La Natura insomma ci chiama, egregio Editore; e noi seguiamo il suo appello.
Fatevi fare il Bini da un altro”.
In realtà Pavese era legato all’editore da antica e sincera amicizia, seppure più volte ne lamenta l’avarizia. Un lavoro meticoloso ( quello di Pavese che risponde a tutti quelli che scrivono) e di una sincerità stupefacente per chi vive nel mondo di oggi, ricco di volgarità ipocrita.
La retata del 1935
Il gruppo torinese di giovani intellettuali e “compagni” di scuola venne sconvolto il 15 maggio 1935, in seguito alla segnalazione dello scrittore Pitigrilli, al secolo Dino Segre, spia dell’O.V.R.A., la polizia segreta fascista.
Fra gli arrestati, oltre a Pavese, vi furono Franco Antonicelli, Giulio Einaudi, Vittorio Foa, Michele Giua, Carlo Levi, Piero Martinetti, Massimo Mila, Augusto Monti, Carlo Zini e venne coinvolto anche Norberto Bobbio.
Nei testi,abitualmente, questo gruppo viene definito il movimento politico di Giustizia e Libertà, ma in realtà alcuni di questi intellettuali agivano (per quanto possibile) con azioni contro il regime fascista; altri, come Pavese e Bobbio, vengono coinvolti per frequentazioni di amicizia e nel caso di Pavese, anche per la relazione con Tina Pizzardo. Pavese che non si era mai impegnato in attività cospirative contro il regime fascista, in alcune occasioni ha attribuito l’arresto all’ aver conservato in casa lettere di Altiero Spinelli indirizzate alla donna. Più probabilmente, invece, Pavese rimase coinvolto perché faceva parte della redazione de la “Cultura”, un gruppo di giovani intellettuali che la polizia fascista sospettava in contatto con esponenti di Giustizia e Libertà.
Le reazioni all’arresto furono molto diverse secondo il coinvolgimento e il “carattere” delle persone coinvolte: Vittorio Foa, uno dei più attivi e coerenti, venne condannato dal Tribunale Speciale Fascista, a quindici anni di reclusione per attività antifascista (1936). Le condizioni della reclusione furono durissime, con pesanti conseguenze sulla sua salute e uscì dal carcere di Castelfranco Emilia (MO) nell’agosto 1943 per unirsi alla Resistenza.
Norberto Bobbio se la caverà con una lettera di pentimento al duce e pochi mesi dopo, con il richiesto intervento di Mussolini e di Gentile, ottenne la cattedra di filosofia del diritto a Camerino.
Bobbio approfittò di essere di famiglia agiata, il padre Luigi era primario di ospedale a Torino e una parte della famiglia aveva fatto “carriera militare”. Questa parte della vita di Bobbio fu poi oggetto di svariate polemiche all’inizio degli anni Novanta, nel momento in cui Bobbio era uno dei filosofi più letti al mondo, senatore a vita e candidato a sostituire Sandro Pertini alla presidenza della Repubblica. Sono testimone diretto (siamo originari dello stesso paese, Rivalta Bormida) che Bobbio più volte raccontò in dialoghi privati e in occasioni pubbliche (nel paese di origine) dolente e ironico le ambiguità della sua famiglia verso il regime fascista. Aveva una sincera e visibile sofferenza nel ricordare uno degli amici più cari, Leone Ginzburg, morto nel 1944 nel carcere di Regina Coeli a seguito delle torture nazi-fasciste, perché si era rifiutato di “collaborare”.
«La nostra classe, o per lo meno alcuni di noi, avevano acquistato una speciale sensibilità […] per la presenza di un giovane precocissimo, che aveva, a quindici anni – quando entrò al d’Azeglio come studente di prima liceo – tal vastità di cultura, tal maturità di giudizio e tal altezza di coscienza morale da suscitar meraviglia nei professori – e uno di quei professori lo ha chiamato discepolo maestro – e schietta ammirazione, senza invidia, nei compagni: parlo di Leone Ginzburg.»
(N. Bobbio, Tre maestri: Umberto Cosmo, Arturo Segre, Zino Zini, in Id., Etica e politica. Scritti di impegno civile, a cura di M. Revelli, Mondadori, Milano 2013, p. 124.)
Nel tempo ci sono state molte polemiche sul comportamento e sulle ambiguità del gruppo di giovani intellettuali torinesi, alimentate dalla pubblicazione della lettera di Bobbio a Mussolini:
- Eugenio Garingiustifica la lettera di Bobbio, definendola «di tono molto giovanile» e osservando che, a quell’epoca, specie «fra i giovani (…) chi aveva scelto di restare in Italia, doveva accettare tutte le conseguenze di questa scelta. Anche se nell’intimo era contrario al regime, anche se partecipava in forme clandestine a dei tentativi di abbatterlo, doveva tenere un comportamento esteriore che gli consentisse di continuare ad esercitare la propria attività. (…) Era il tentativo di legittima difesa, l’unico margine che ti lasciava un’impresa irta di difficoltà quotidiane, com’è quella di vivere sotto una dittatura.»
- Per Gaetano Arfé, la pubblicazione della lettera «non in un saggio biografico ma a scopo sensazionalistico offende l’etica dello storico. Un episodio di debolezza verso il regime non appanna in alcun modo una biografia improntata a valori di moralità. Mi chiedo: che senso ha ricordare oggi un cedimento di Bobbio? Non mi sembra operazione lodevole, e s’inquadra nel tentativo di livellare tutti su uno stesso piano, smarrendo quelle distinzioni che è invece bene non smarrire».
- Luciano Canfora, dopo aver posto l’accento sul concetto che la dittatura corrompe, delinea il dilemma etico in cui si trovarono alcuni intellettuali antifascisti, posti di fronte alla scelta fra accettare dei compromessi con il regime pur di «conquistare una cattedra universitaria», oppure rinunciare alla cattedra lasciando però in questo modo più spazio ai professori fascisti.
- Giovanni De Lunaafferma che la lettera pubblicata su “Panorama” in realtà non rivela alcunché: infatti – sostiene De Luna – Bobbio aveva già parlato dei suoi rapporti col regime fascista in una intervista pubblicata pochi anni prima sul periodico “Nuova Antologia”. De Luna cita alcuni passi di tale intervista, in cui Bobbio tra l’altro affermava «di non aver mai sentito come una contraddizione l’aver conservato la tessera, pur non essendo mai stato in coscienza un fascista», e di aver praticato assieme ad altri «quel comportamento che veniva chiamato nicodemismo, per cui avere la tessera era un obbligo esterno, non in coscienza». In un altro intervento, uscito lo stesso giorno su “l’Unità”, De Luna suggerisce che la pubblicazione della lettera di Bobbio possa essere letta «all’interno di un disegno politico che punta a delegittimare la prima Repubblica nel suo DNA costitutivo, ereditato dall’antifascismo».
Ma la testimonianza più importante è quella di Vittorio Foa , che pagò duramente con anni di carcere il proprio antifascismo. Foa,nella intervista che riporto, ha difeso tutti i compagni coinvolti nei fatti del 1935: discolpò completamente Massimo Mila, il quale in un interrogatorio pare avesse accusato Foa, attribuendone il cedimento alla violenza fisica e morale operata contro di lui dall’apparato repressivo fascista.
Vittorio Foa, dopo essersi detto «disgustato» dalla pubblicazione della lettera di Bobbio, in una lunga intervista pubblicata su “La Stampa” del 16 giugno 1992 , sottoriportata, espone in forma più ampia la sua opinione sull’episodio, sostenendo fra l’altro che la lettera di Bobbio «è, da ogni punto di vista, politico o morale, assolutamente irrilevante. L’ammonizione era una violenza nei suoi confronti, era una misura amministrativa che poneva limiti alla libertà personale e alla capacità di viaggiare e lavorare. Era una violenza dalla quale Bobbio aveva il diritto di difendersi: io mi sento di parlare di legittima difesa. (…) Questa lettera va letta come un ricorso nei confronti di un provvedimento amministrativo». Foa critica duramente l’iniziativa di “Panorama” definendola «una forma di denigrazione nei confronti di un uomo la cui vita, tutta la vita, merita ammirazione e rispetto. È un’aggressione, una violenza che ci offende».
Ancora una volta sono un modesto, ma diretto, testimone della stima e affetto che Vittorio Foa aveva per l’amico Bobbio/Bindi, lo ascoltai in una lunga conversazione telefonica, in occasione della morte del folosofo, in cui Foa faceva le condoglianze alla comunità rivaltese.
MARTEDÌ’ 16 GIUGNO 1992 LA STAMPA
«Panorama» pubblica una lettera del ’35 al duce.
Parla Vittorio Foa: «Un documento irrilevante»
ROMA DAL NOSTRO INVIATO Alberto Papuzzi
Vittorio Foa non ha dubbi: «La lettera che Norberto Bobbio indirizzò a Mussolini nel 1935, per evitare un’ammonizione, è del tutto irrilevante, sia politicamente sia moralmente». Il settimanale Panorama ha pubblicato ieri una lettera che il filosofo scrisse al duce l’8 luglio 1935. Bobbio aveva allora 25 anni ed era docente di filosofia del diritto. In maggio era stato arrestato, quando la polizia aveva colpito il gruppo di intellettuali torinesi legati alla rivista La Cultura, tra i quali c’erano, oltre a lui, Leone Ginzburg, Augusto Monti, Vittorio Foa, Renzo Giua, Cesare Pavese, Carlo Levi, Franco Antonicelli, Massimo Mila, Giulio Einaudi. In luglio a Bobbio venne comunicato che gli sarebbe stata inflitta un’ammonizione, provvedimento amministrativo che restringeva la libertà personale e bloccava la carriera universitaria. Il giovane intellettuale scrisse al duce, ricordando di essere iscritto al Pnf e ai Guf e respingendo le accuse di cospirazione con «Giustizia e libertà».
Lettera di Bobbio a Mussolini
«Sono cresciuto – scrive Bobbio – in un ambiente familiare patriottico e fascista (mio padre, chirurgo primario all’ospedale San Giovanni di questa città, è iscritto al Pnf dal 1923)…» E, più avanti: «In questi ultimi anni, dopo aver conseguito la laurea in legge e in filosofia, mi sono dedicato totalmente agli studi di filosofia del diritto, pubblicando articoli e memorie che mi valsero la libera docenza, studi da cui trassi i fondamenti teorici per la fermezza delle mie opinioni politiche e per la maturità delle mie convinzioni fasciste». Conclude: «Rinnovo le mie scuse a Vostra eccellenza se ho presunto di voler fare giungere sino a lei le mie parole, ma mi ha spinto la certezza che ella nel suo elevato senso di giustizia voglia fare allontanare da me il peso di un’accusa, a cui la mia attività di cittadino e di studioso non può aver dato fondamento, e che contrasta con quel giuramento che io ho prestato con perfetta lealtà».
«Orrendo e ridicolo»: così Bobbio, in un’intervista a Panorama, giudica il testo di quella lettera, dichiarando che l’aveva «totalmente dimenticato». Con l’aiuto della famiglia – l’ammonizione fu tolta. La lettera è apparsa in un servizio firmato da Giorgio Fabre. Andrea Monti, direttore del settimanale, scrive che essa nulla toglie ai meriti poi acquisiti da Bobbio.
Nell’articolo si citano documenti che riguardano anche Mila, Antonicelli, Einaudi: un verbale degli interrogatori di Mila che avrebbe compromesso Foa, due lettere al duce di Antonicelli, i verbali degli interrogatori di Einaudi (già resi noti dallo storico Giovanni De Luna). Di quel gruppo, Vittorio Foa – coetaneo di Bobbio, deputato alla Costituente per il Partito d’azione e grande protagonista del movimento sindacale, una lunga milizia politica conclusa, nella scorsa legislatura, come senatore della Sinistra indipendente – pagò più duramente: oltre otto anni in carcere. Come scrive nel libro di memorie II Cavallo e la Torre, in carcere pensava agli amici liberi: «Ricordavo i distintivi fascisti all’occhiello delle loro giacche, ma li ricordavo solo per affermarne l’assoluta irrilevanza dal punto di vista morale: il distintivo indicava solo un’adesione formale come mezzo per facilitare lo studio e il lavoro (…). Mai mi sono sentito superiore a loro per essere in carcere».
Come vedeva Bobbio? Quali erano i vostri rapporti?
Negli anni dell’università io non l’ho frequentato. Allora lavoravo o facevo il militare. Ma ci siamo laureati entrambi nel luglio del 1931. Nel quadro di laurea, oltre alla sua e alla mia, ci sono anche le fotografie di Alessandro Galante Garrone, Giorgio Agosti ed Egidio Ortona, futuro ambasciatore a Washington. Invece, fra il ’31 e il ’35, Bobbio e io ci siamo frequentati molto. Lo ricordo BOBBIO aveva diritto di difendersi «Questa è aggressione. Tutta la sua vita merita ammirazione e rispetto». La polizia si accani contro il gruppo della rivista «La Cultura» «Quando uscii dal carcere, nel ’43 fu proprio lui la prima persona che venne a trovarmi: e mi parlò del Partito d’Azione» nettamente come un antifascista, sebbene non impegnato in attività cospirative, perché era preso dallo studio. Ma i suoi maestri erano Francesco Ruffini e Gioele Solari, Luigi Einaudi e Pasquale Jannaccone. I suoi amici Leone Ginzburg e Franco Antonicelli. Avevamo comuni una bottiglieria di via San Massimo, l’oste si chiamava Giuseppe. Con noi giocavano Franco Antonicelli e Carlo Zini, accesi antifascisti. Con Norberto, che chiamavamo e chiamiamo Bindi, non si parlava di cospirazione ma sempre e molto di politica.
Durante la sua prigionia, siete rimasti in contatto?
Non potevo avere alcun rapporto, neanche una cartolina, se non con genitori e fratelli. Ma Bobbio mi fu di serio aiuto nel consigliarmi letture giuridiche o filosofiche. Quando tornava a Torino, andava dai miei genitori che mi trasmettevano per lettera i suoi consigli. A lui debbo la conoscenza di Kelsen e di Husserl e poi anche la lettura, per me assai importante, di Gurwich sui diritti sociali.
Nella lettera Bobbio si presentava come un buon fascista. Lei che ne pensa?
Non facciamo confusioni. Una cosa era essere fascisti, altra cosa essere iscritti al fascio. Molti miei amici, e anche mio fratello, si erano iscritti al fascio pur non essendo fascisti, spesso essendo francamente antifascisti. La tessera del fascio era in molti casi una condizione per poter lavorare in modo adeguato alle proprie capacità, a volte per poter semplicemente lavorare.
Ma come giudica la lettera?
Dico subito che quella lettera è da ogni punto di vista, politico o morale, assolutamente irrilevante. L’ammonizione era una violenza nei suoi confronti, era una misura amministrativa che poneva limiti alla libertà personale e alla capacità di viaggiare e lavorare. Era una violenza dalla quale Bobbio aveva il diritto di difendersi: io mi sento di parlare di legittima difesa. Si difendeva com’era suo diritto, con accortezza, estendendo al presente i suoi antichi sentimenti fascisti. Quella lettera va letta come un ricorso nei confronti di un provvedimento amministrativo.
Perché rivolgersi direttamente al duce, e non al questore, al prefetto?
Ma è chiaro. Bobbio rivendicava una decisione a lui favorevole e la rivendicava da Mussolini, che era di fatto quello che decideva queste cose. Può dispiacere il linguaggio, del resto moderato rispetto alle infinite manifestazioni di piaggeria nei confronti del duce. Ma quello era il linguaggio riverente d’uso. Si usava anche col capufficio.
E come giudica, allora, la pubblicazione della lettera?
Ripeto che la lettera è totalmente irrilevante, ma l’averla usata, è una forma di denigrazione nei confronti di un uomo, la cui vita, tutta la vita, merita ammirazione e rispetto. E’ un’aggressione, una violenza che ci offende. Da un lato c’è un singolo episodio che solo con qualche forzatura può essere presentato come un cedimento, dall’altro c’è una vita tutta spesa, ogni giorno e ogni ora, per la difesa e la promozione della libertà con una sensibilità acuta per ogni aspirazione alla giustizia: una vita d’educazione e d’esempio.
Per quali ragioni si denigrerebbe Bobbio?
Io non dispongo della fantasia sufficiente per fare delle congetture. Ma sono abituato alle «clamorose rivelazioni» contro uomini e vicende impegnati nella difesa della democrazia, quando l’opinione pubblica è turbata da scandali, ruberie, dalla sfacciata contiguità fra la politica e gli affari, che spesso sono affari criminali.
Sarebbero dunque rivelazioni strumentali?
Io faccio di queste «clamorose rivelazioni» una questione di verità. Mi interessa meno la domanda: a chi giovano? E’ fin troppo evidente l’ondata che tende a cancellare o infangare la memoria della Resistenza, di quello che l’ha preparata e di quello che ne è seguito, di cancellare i valori fondativi della nostra democrazia.
Però si tratta di documenti storici…
In realtà, al posto della ricerca storica è venuto avanti l’impiego strumentale della storia, l’uso della storia come arma di politica contingente. La storia come manganello.
Il giornalista è tenuto a far conoscere i documenti, poi i lettori giudicheranno, o no?
Ma la verità non è solo evidenza di un oggetto, è anche e prima di tutto rispetto delle sue proporzioni, dei rapporti nel tempo e nello spazio.
E’ in questione, allora, il revisionismo storiografico?
Il revisionismo storiografico è legittimo, il mondo non può stare fermo nella percezione di se stesso. Ma il confine fra ricerca della verità e sua cancellazione va rispettato. Quando lo ha violato, il revisionismo ci ha dato paurosi esempi di menzogna sistematica: penso ai campi di sterminio.
Il giudizio è il medesimo per le rivelazioni su Mila, Einaudi, Antonicelli?
Non è verità ma falsificazione dare della personalità di Massimo Mila, della ricchezza straordinaria della sua passione politica, critica e alpinistica una immagine deformata da un singolo interrogatorio di polizia. Come ignorare il quadro della pressione poliziesca e delle sue tecniche repressive, che non sono fatte solo di violenza fisica. Con Mila ho passato anni e anni in una cella di Regina Coeli e mai, nemmeno per un attimo, ho pensato che qualche parola in un interrogatorio di polizia potesse offuscare l’immagine impegnata di quell’uomo. Più pesante di quella fisica c’era la violenza morale dello stesso interrogatorio di polizia, della ritualità del tribunale speciale i cui giudici erano «seniori», cioè colonnelli della milizia fascista. E ciò che dico per Mila vale anche per Einaudi.
Chi tira fuori i documenti ne fa una questione di intransigenza.
Fa pena sentir dare lezioni di intransigenza da chi vive in condizioni radicalmente diverse. Sul solco segnato da Gobetti e da Salvemini penso all’intransigenza come a un valore alto. Ma lo è quando è richiesta a se stessi. Se è richiesta agli altri è un abuso.
C’è chi non ha mai scritto lettere al duce, come lei.
Ma io decisi una scelta di rottura completa con la vita che facevo. Questo lo dico senza nessuna presunzione di superiorità.
E gli accademici che si rifiutarono di giurare al fascismo?
Si è trattato di pochissime persone, che in qualche modo avevano concluso il loro percorso e che desideravano sottolineare fortemente l’autonomia di ricerca che caratterizzava la loro vita. Bobbio, invece, non decise allora di testimoniare pubblicamente la sua fede, ma di coltivarla nella forma del lavoro, di fare politica con la ricerca.
L’immagine di Bobbio è quella di un maestro, lei stesso l’ha ricordato. Può uscire scalfita dall’episodio?
Ci sono dei casi in cui si costruisce su una persona un’immagine di maestro infallibile e allora qualsiasi cosa può apparire un cedimento. Anche per Bobbio è stata creata un’immagine del genere. Non è stato lui a volerlo, l’hanno costruita gli altri. Ma quello che Bobbio rappresenta realmente, non c’è niente che può scalfirlo. Quando io uscii dal carcere, alla fine dell’agosto del 1943, la prima persona che venne a trovarmi, sulla collina torinese dove i miei erano sfollati, fu lui, fu Bindi. E mi parlò del Partito d’azione.
Il Confino
Nella retata della polizia fascista del 1935 viene arrestato anche Cesare Pavese che non aveva mai cospirato contro il regime e dopo un soggiorno nelle carceri di Torino e di Regina Coeli, a Roma viene condannato a tre anni di confino nel comune di Brancaleone (Reggio Calabria), con lui venne condannata la redazione della rivista “La Cultura”: Giulio Einaudi fu prosciolto in istruttoria con ammonizione, Carlo Levi e Franco Antonicelli furono condannati a cinque anni di confino.
Pavese giunse a Brancaleone il 4 agosto del 1935 come raccontò in una missiva alla sorella Maria:
Cara Maria, sono arrivato a Brancaleone domenica 4 nel pomeriggio e tutta la cittadinanza a spasso davanti alla stazione pareva aspettare il criminale che, munito di manette, tra due carabinieri, scendeva con passo fermo diretto al Municipio.
Il viaggio di due giorni, con le manette e la valigia, è stata un’impresa di alto turismo. Ormai il nome della famiglia è irrimediabilmente compromesso: Le stazioni di Napoli e Roma le ho attraversate nel momento di maggior traffico e bisognava vedere come la gente faceva largo al sinistro terzetto. A Roma una bambina che va ai bagni, chiede al padre: ”papà, perchè nelle manette non fanno passare la corrente elettrica?” A Napoli non è mancata nemmeno la caduta sotto la croce, sotto forma di uno stramazzone – manette, valigia e tutto – preso sulla scalinata del cortile delle carceri. Allora un cireneo si è occupato della valigia. (…)
Qui ho trovato una grande accoglienza. Brave persone, abituate a peggio, cercano di tenermi buono e caro. (…) Qui, sono l’unico confinato. Che qui siano sporchi è una leggenda. Sono cotti dal sole. Le donne si pettinano in strada, ma viceversa tutti fanno il bagno. Ci sono maiali, e le anfore si portano in bilico sulla testa. (…) La grappa non sanno cosa sia. (…) La spiaggia è sul Mar Jonio, che somiglia a tutti gli altri e vale quasi il Po…
Insomma non chiedo che libri, soldi e saluti dalle amicizie. Ciau
Rileggendo le lettere del confino ho ritrovato un Pavese inquieto e dal carattere difficile, mi è venuto alla mente Carlo Levi, che al contrario,al confino ha scritto il bel libro “Cristo si è fermato ad Eboli”.
Le lettere sono indirizzate soprattutto alla sorella Maria poi ad amici come l’insegnante Augusto Monti (a cui all’epoca si rivolge ancora con il “lei”) e Mario Sturani, almeno due missive indirizzate a quest’ultimo hanno urtato pure me che ho letto più volte Pavese e ancora di più l’ho pensato.
27 novembre 1935
caro Sturani
…Vedo che insisti per sapere titoli di libri da mandarmi…ma ti sconsiglio di spendere altri soldi, non va bene esagerare in beneficenza, perché a un certo punto non si guadagna più che l’odio del beneficiato.
Ora è cominciato l’inverno sotto forma di piogge, venti torrenziali e umidità notturne, che per la mia asma sono tanto pepe. Questo me brutto, perché essendo qui il sonno l’unico passatempo non esasperante, sentirselo troncare tutte le notti moltiplica per X la durata dell’esilio.
Il mare già così antipatico d’estate, d’inverno è poi innominabile, alla riva tanto giallo di sabbia smossa; al largo, un verde tenerello che fa rabbia. E pensare che è quello d’Ulisse: figurarsi gli altri.
La grande attrattiva del paese sono i pesci, che a me non piacciono, che così non mangio pietanza non più che un giorno o due la settimana, quando ammazzano la vitella.
Ho quindi comperato una bella corda, l’ho adattata, a nodo scorsoio, e tutte le mattine la insapono per tenerla pronta.
Mi servirà a guadagnarmi un po’ di carne, quando i vicini mi chiameranno a prendere parte all’impiccagione del maiale, che sta ora ingrassando in rigorosa castità.
Mi ha scritto tuo suocero una cartolina dove mi promette libri greci e mi dà del commediante. Digli per ora, che se non mi restasse almeno il conforto di recitare una parte, mi sarei già trucidato da un pezzo.
Avrai saputo anche tu che Pinelli ha fatto rappresentare una sconcissima commedia intitolata la pulce d’oro. Io l’avevo letta e l’avevo trovata nel solito suo stile, ma divertente. E’ sporca, sporca, peggio del ‘Tutto bonda’. Così va il mondo. Non può uscire il Dio-Caprone tutto pieno di castissime risoluzioni, e rappresentano siffatte sessualità. Farebbe meglio ad adoperare il credito di cui gode, per farmi tornare a casa. Ma lui pensa a far figli e commedie: due operazioni cui attende esercitando i medesimi organi. E tanto basti.
Saluti alla tua beccaccina
Pav.
A Mario Sturani 25 dicembre 1935:
Caro Mario,
Visto che ti vanno male le prediche estetiche cominci con quelle morali?
Adesso mi rinfacci anche di dare a voi la colpa che sono a Brancaleone? ma dove? ma quando? E poi, se mi fa piacere maledire il mare, cosa hai tu da ficcare il naso nei miei odi? Tanto più che non è vero che i poeti, i pittori ecc. ne dicano tutti bene, io per esempio che sono un poeta, ne ho sempre parlato ingiuriosamente.
Mi rimproveri di essere astioso con tutti. possibile che in dodici anni che ci conosciamo tu non abbia capito un elemento fondamentale del mio carattere? Quando Pavese ha un dispiacere, una seccatura, un’indigestione, un morso di pulce, meglio non ammette che nessun altro sia allegro e contento, e fa del suo meglio per guastargli la pace o almeno propiziargli ogni disgrazia. Così è fatto ed è così che trova da star bene, anche quando sta male. ma che proprio tu mi rimproveri di pigliarmela con Tullio è enorme: tu che non fai altro che dirne male per dritto e per traverso e gli rimproveri persino la nascita.
Mi consigli di lavorare? Non ho bisogno dei tuoi consigli. Quattro mesi, dodici poesie.
Aggiungerò (strettamente confidenziale): qui sto bene, mi trattano con ogni civiltà, sono pagato per non far niente, realizzo insomma il mio ideale di vita… dunque? mi manca una cosa, una cosa sola, e per questo mi piace gridare e sfruttare ogni disagio (chi se ne infischia in realtà dei disagi?) pur di ottenerla nei limiti del possibile. Quale sia questa cosa non si può dirlo a un uomo sposato. E dunque? – ripeti tu – Perché secchi noi coi piagnistei? E allora lascio perdere ogni spiegazione, perché se non l’hai capita in 12 anni, non la capisci più.
Passando oltre, lettere come la mia prima, te ne potrei scrivere tutti i giorni, ma questo non significherebbe niente. potrei scrivertene anche in punto di morte. non capisci che mi diverto? Tanto ridendo, tanto lamentandomi? E qualunque cosa scriva per me è sempre materia di piacere? E che se dovessi scrivere esclusivamente per dare notizie, non mi scomoderei nemmeno? Tanto basti…
Quando un uomo scrive le più belle poesie del secolo, il calvario ha da essere più lungo. Come vedi mi hai attaccato la mania di persecuzione. però che bellezza! mi è capitato come a Dante Alighieri, Omero ed altri sommi.
Va per la selva bruna
solingo il trovator,
domato dal rigor
della fortuna.
Mi sono riconciliato con lo scrittore quando mi è venuto alla mente che durante il servizio militare sono stato lasciato ( “tradito”) dalla morosa per un altro uomo e ho sofferto tanto da cambiare vita. Pavese al confino smaniava per l’amore ossessivo della sua vita: Tina Pizzardo e per capirlo sono esemplari queste due lettere all’amata e alla sorella Maria (particolarmente significativa, indicativa dello stato d’animo ossessionato dalla Pizzardo durante il confino).
Lettera a Tina Pizzardo, (Brancaleone) 17 settembre (1935)
Cara,
scrivo con la tua stilografica. Nonostante la cattiva esperienza non so resistere alla tentazione di una lettera. Non so se le cartoline che ho spedito al vostro indirizzo vi siano giunte. Quattro tue mi sono arrivate. Approfitto di questo bravo ragazzo per mandarti un ricordo. E’ già usato, ma non ho altro.
Io passo le giornate (gli anni) in quello stato d’attesa che a casa provavo certi pomeriggi dalle due e mezzo alle tre. Sempre, come il primo giorno, mi sveglia al mattino la puntura della solitudine. Descriverti le mie ansie è impossibile. La mia pena non è quella scritta, sei tu; e lo sapeva bene chi ci ha così allontanati. Non scrivo tenerezze; il perché lo sappiamo; ma cerco il mio ultimo ricordo umano, è il 13 maggio.
Ti ringrazio di tutti i pensieri che hai avuto per me. Io per te ne ho uno solo e non cessa mai. Tuo
Lettera alla sorella Maria, (Brancaleone) 12 marzo (1936):
Siete un mucchio di fottuti. Me ne importa tanto a me di Frassinelli, di quel bischero di Franco, e se mangio all’albergo!
Quando la finirete di far finta di non ricevere che chiedo notizie, notizie, notizie, e una cartolina firmata, di *?
E avete ancora il becco di scrivermi se ho bisogno di qualcosa. Da un mese non chiedo altro.
Il confino è niente. Sono i parenti che costringono uno a lasciarci la pelle.
Che vi venga il cancro a tutti.
Pavese non riceveva notizie dell’amata perché la Pizzardo nel frattempo si era fidanzata con Henek Rieser e lo sposò il 19 aprile del 1936, negli stessi giorni in cui Pavese rientrò dal confino dopo aver chiesto la grazia a Mussolini.
Sulla domanda di grazia da leggere è la versione di Tina Pizzardo.
Letteratura americana e Fernanda Pivano
Una parte consistente delle missive è diretta a Fernanda Pivano; sono le lettere più conosciute, un bizzarro miscuglio di atteggiamenti di Pavese che oscillano tra l’innamorato, il vagamente paterno e il trattatello psicanalitico in cui traspaiono dello scrittore confessioni a volta spietate per l’esibizione delle proprie debolezze ed altre compiaciute dell’incapacità di un autentico legame affettivo.
La corrispondenza tra Pavese e Fernanda Pivano è completa anche grazie al fatto che la scrittrice ne aveva conservato copia, almeno due epistole sono state sottratte dalla donna alla pubblicazione, “la signorina Fernanda” rispose ai curatori dell’Einaudi che chiedevano l’autorizzazione per pubblicarle che “Le parole dell’amore non si pubblicano con leggerezza. Sono una parte dell’anima che non merita lo sgarbo della notorietà”.
Queste lettere sono preziose perché sono un vero e proprio diario di guerra, la guerra vissuta in Italia “da civili”; la prima missiva è del 22 agosto del 1940 e l’ultima del luglio del 1945 e con la malinconia dei giovani intellettuali d’allora, oppressi dal regime, dalla guerra, dalla povertà e da un isolamento personale e culturale. Pavese al di là del corteggiamento: chiese in sposa Fernanda Pivano due volte nel 1940 e nel 1945 senza successo, sprona l’antica allieva allo “studio, studio, studio”. La Pivano diventerà una colonna della cultura italiana del Novecento , traduttrice di Edgar Lee Masters, Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, Dorothy Parker, William Faulkner, e molto altro, scopritrice di talenti, ponte tra l’America della beat generation e l’Italia, ma al tempo del loro incontro era una giovane studentessa e a quel tempo era difficile per una donna uscire dai ruoli mediocri imposti dall’epoca e dal fascismo. Pavese la esorta ad avere fiducia in sé stessa, lo scrittore svolse il ruolo della levatrice “può studiare e lavorare. Non se l’intende coi Suoi, ma studiando e lavorando si prepara il modo di farsi un’indipendenza”. E nel 1943, ebbe inizio la sua carriera con la pubblicazione per Einaudi della sua prima traduzione: l’ Antologia di Spoon River. (Ida Bozzi).