Fonte: kritica
La guerra non zittisce la società iraniana
Di fronte all’escalation bellica in corso, la società civile iraniana non è inattiva, né silenziosa né confusa. Lavoratori, insegnanti, prigionieri, femministe e scrittori stanno articolando una posizione politica chiara, che condanna Israele ma non si allinea dietro la Repubblica islamica.
All’ombra delle sirene e del fumo, dove lo skyline di Teheran è ancora una volta segnato dal fuoco e dalla paura, un diverso tipo di voce sta emergendo dall’interno della società iraniana, che rifiuta sia le bombe che cadono dai cieli stranieri sia la violenza del regime che pretende di difendere la patria. Mentre l’attacco di Israele alle città iraniane ha intensificato il caos regionale e la Repubblica islamica risponde all’attacco, un’ondata di dissenso interno senza precedenti si leva dal basso. Non è lo Stato, né i suoi generali o chierici, ma i lavoratori, gli insegnanti, le femministe e gli scrittori – molti dei quali imprigionati – a dire le verità più chiare su guerra, giustizia e sopravvivenza.
Negli ultimi due giorni, vari settori della società civile iraniana hanno rilasciato sei dichiarazioni distinte ma politicamente allineate. Queste dichiarazioni provengono dai sindacati, dai sindacati dell’istruzione, dagli attivisti per i diritti delle donne imprigionate e dall’Associazione degli scrittori iraniani. Non fanno eco agli appelli alla vendetta o all’orgoglio nazionalista. Condannano invece tutte le parti del conflitto, dall’occupazione israeliana e la violenza imperiale al governo repressivo e militarizzato della Repubblica islamica. Insieme, queste voci formano un rifiuto unificato del militarismo e dell’autoritarismo e chiedono pace, democrazia e dignità, non come slogan, ma come strategie di sopravvivenza in una regione al collasso.
Non sono espressioni isolate, ma voci composite di un’unica resistenza collettiva. È un’istantanea della società iraniana, che vive e respira: martoriata, assediata, ma che ancora si rifiuta di scegliere tra due versioni di morte. La guerra può essere combattuta dagli Stati, ma il prezzo viene pagato dal popolo. E il popolo dice: non in nostro nome.
Voci dal settore educativo
Tra le prime e più chiare voci ad esprimersi sono stati gli insegnanti iraniani, coloro che trascorrono le loro giornate a curare i bambini e il cui impegno per la pace è radicato nelle aule scolastiche, non nei parlamenti. Due organizzazioni chiave, il Consiglio di coordinamento delle associazioni sindacali degli insegnanti iraniani e il Sindacato degli insegnanti di Teheran, hanno rilasciato dichiarazioni distinte ma profondamente collegate tra loro che sfidano sia l’aggressione esterna che la repressione interna.
Il Consiglio di coordinamento ha condannato l’attacco israeliano in territorio iraniano come una violazione del diritto internazionale e una minaccia alla vita dei civili. Ma la loro dichiarazione è andata oltre i confini nazionali. Ha respinto il militarismo di tutti gli attori regionali, compresa la Repubblica islamica, e ha ritenuto i governanti iraniani responsabili dell’escalation delle tensioni attraverso la segretezza, l’esclusione e l’avventurismo militare. “La guerra non è né una benedizione né un’opportunità”, hanno dichiarato, “è un disastro le cui vittime principali sono le persone comuni, i bambini, le donne e i civili”.
Il Sindacato degli Insegnanti di Teheran ha fatto eco a questo messaggio, concentrandosi sul tributo emotivo della violenza sulle nuove generazioni. “Lavoriamo ogni giorno con i bambini”, hanno scritto, “bambini che stanno cercando di capire un mondo che dovrebbe essere fatto di apprendimento, amicizia e sogni, non di bombe e distruzione”. La dichiarazione critica aspramente la campagna militare di Israele, definendola un crimine, ma insiste anche sul fatto che “nessun Paese può costruire la pace con il pugno chiuso”.
Entrambe le dichiarazioni rifiutano la neutralità di fronte alla sofferenza. Rimanere in silenzio, sostengono, significa normalizzare la violenza. Esortano invece tutte le organizzazioni civili e culturali – dentro e fuori l’Iran – a resistere alla guerra, a difendere la solidarietà umana e a sostituire il linguaggio del potere con quello dell’educazione, della dignità e della pace.
Gli insegnanti non stanno dalla parte degli Stati. Si schierano con gli studenti, con i lavoratori, con il futuro. Nelle loro voci c’è un messaggio chiaro: quando i regimi si preparano alla guerra, il popolo deve prepararsi alla giustizia.
Le femministe: Dietro le sbarre ma non silenziose
Dall’interno delle mura della famigerata prigione di Evin a Teheran, sette attiviste femministe e sindacaliste iraniane hanno rilasciato due potenti dichiarazioni che tagliano la propaganda della guerra e del nazionalismo. Queste donne, incarcerate per il loro ruolo nell’organizzazione di proteste e nella difesa dei diritti fondamentali, sono diventate alcune delle voci più chiare contro la violenza che sta travolgendo la regione.
In una dichiarazione, Reyhaneh Ansari, Sakineh Parvaneh, Varisheh Moradi e Golrokh Iraee parlano direttamente al popolo iraniano e ai movimenti di sinistra internazionali. Le loro parole rifiutano ogni speranza nella salvezza straniera. “La via della libertà per l’Iran”, scrivono, “risiede nella resistenza di massa e nel potere dei movimenti sociali”. Mettono in guardia dall’illusione che gli Stati stranieri – siano essi potenze occidentali o attori regionali – possano liberare i popoli oppressi. Tutto ciò che portano, sostiene la dichiarazione, sono nuove catene.
Le donne descrivono Israele come un regime costruito sull’occupazione e sul genocidio, un avamposto militarizzato dell’imperialismo statunitense responsabile di decenni di guerra in Palestina, Iraq, Siria e ora Gaza. Ma la loro condanna non è unilaterale. Criticano aspramente la repressione della Repubblica islamica e la manipolazione della guerra per il controllo interno, affermando che sta gettando le basi per “un altro 1988” – un riferimento alle esecuzioni di massa dei prigionieri politici. Per loro, la guerra è uno strumento utilizzato da tutti i poteri dominanti per mettere a tacere il dissenso.
In una seconda dichiarazione, Anisha Asadollahi, Nahid Khodajo e Nasrin KhezrJavadi si descrivono come “ostaggi” di un governo che conduce una guerra all’estero e schiaccia i suoi cittadini in patria. Esse invitano la popolazione a resistere alla guerra imposta attraverso la presenza collettiva e la solidarietà. “Le guerre non portano alcun beneficio al popolo”, scrivono. “È il popolo – che non ha avuto alcun ruolo nell’iniziare queste guerre – a pagarne sempre il prezzo”.
Da dietro le sbarre, queste donne affermano una verità che pochi fuori dalle mura del carcere osano dire: che la liberazione non può essere importata e che la lotta contro l’occupazione e la dittatura deve essere condotta da coloro che ne vivono le conseguenze. Le loro parole sono al tempo stesso un monito e un invito all’azione. La vera resistenza, insistono, non sta nei missili o negli slogan, ma nella solidarietà dal basso.
Mentre queste voci si levano da dietro le mura del carcere, un’altra dichiarazione è emersa dall’esterno: una dichiarazione firmata da più di 340 attiviste femministe e per l’uguaglianza in Iran. Pubblicata in risposta all’attacco militare israeliano e alla reazione della Repubblica islamica, questa dichiarazione attribuisce la responsabilità ai regimi patriarcali e militaristi e invita la società civile a resistere alla distruzione con un’azione collettiva:
“In un momento in cui due governi guerrafondai e patriarcali hanno preso in ostaggio innumerevoli vite civili – soprattutto donne e bambini – noi, un gruppo di attiviste per i diritti delle donne iraniane, facciamo appello a tutti i nostri concittadini affinché si uniscano per continuare il cammino di Donna, Vita, Libertà. La guerra non porta altro che distruzione. Porta uccisioni e danni economici e sociali diffusi. La guerra porterà a un ulteriore indebolimento e repressione degli attivisti politici e civili. Consideriamo nostro dovere coltivare i semi del movimento femminile iraniano insieme ad altri movimenti popolari e, ora più che mai, riaffermare il nostro impegno per gli obiettivi di Donna, Vita, Libertà contro i poteri patriarcali, il militarismo, la distruzione e la repressione”.
Questo appello pubblico colloca la lotta femminista non come una questione secondaria, ma come una forza centrale nel movimento democratico e anti-autoritario dell’Iran. Nomina sia lo Stato israeliano che la Repubblica islamica come regimi patriarcali e bellicosi che usano la paura e la morte per dominare le donne e i civili. E insiste sul fatto che lo slogan “Donna, vita, libertà” non è solo un canto del passato, ma un progetto vivo di emancipazione collettiva nel presente.
Dalle celle delle prigioni alle strade, la posizione femminista è ferma: non ci sarà libertà attraverso la guerra, né giustizia sotto la dittatura.
Il movimento operaio e la resistenza sociale: No alla guerra, no al fascismo
Mentre la Repubblica islamica fa leva sulla retorica bellica sotto la bandiera della “difesa della sovranità”, il movimento sindacale iraniano e le organizzazioni sociali alleate offrono una visione radicalmente diversa, fondata sulla lotta di classe e non su slogan nazionalisti. Dagli autisti di autobus alle infermiere, dai lavoratori della canna da zucchero ai difensori dei diritti dei bambini, è emerso un potente fronte di resistenza che dichiara con chiarezza: questa non è la nostra guerra.
In una dichiarazione congiunta rilasciata dal Sindacato dei lavoratori della compagnia di autobus di Teheran e dei sobborghi, dal Sindacato dei lavoratori della canna da zucchero di Haft Tappeh e dall’Alleanza dei pensionati, alcune delle più resistenti organizzazioni sindacali iraniane hanno rifiutato categoricamente l’escalation militare tra Israele e la Repubblica islamica. “Noi, il popolo lavoratore dell’Iran”, hanno scritto, “non guadagniamo nulla dalla guerra, dal militarismo, dai bombardamenti o dalle politiche imperialiste”. Al contrario, i lavoratori ne stanno già pagando il prezzo: povertà, repressione, fame e morte.
La dichiarazione ha denunciato con forza i bombardamenti di Israele su aree civili, raffinerie di petrolio e luoghi di lavoro, definendo tali azioni crimini di guerra. Ma ha respinto con altrettanta fermezza le affermazioni israeliane di buona volontà nei confronti del popolo iraniano, definendole una propaganda trasparente, soprattutto alla luce di minacce incendiarie come l’appello del Ministro della Difesa israeliano a “bruciare Teheran”.
Allo stesso tempo, queste organizzazioni sindacali hanno rivolto la loro critica verso l’interno. Hanno definito la Repubblica islamica per quello che è: “repressiva, avventurista e antioperaia”. Hanno elencato decenni di repressione delle proteste sindacali, la negazione dei diritti sindacali e la persecuzione degli attivisti del lavoro. Il messaggio dei lavoratori è stato inequivocabile: non sono pedine dello Stato, lo stanno combattendo.
Questa posizione è stata ripresa e approfondita in una più ampia Dichiarazione congiunta delle organizzazioni sindacali e sociali contro la guerra e l’attuale pericolosa crisi, firmata da un’alleanza di gruppi diversi: camionisti, lavoratori a contratto del settore petrolifero, infermieri, educatori, difensori dei diritti dei bambini, pensionati e movimenti femminili. Insieme, hanno descritto l’attuale guerra come un confronto mortale tra “due regimi fascisti”: lo Stato israeliano e la Repubblica islamica.
La loro impostazione è intransigente. La guerra, sostengono, non è accidentale. È il risultato inevitabile di decenni di militarismo, repressione e allineamento imperiale. Ha spinto la società iraniana sull’orlo del baratro, allontanando le persone, traumatizzando le comunità e aggravando la fame e la paura, soprattutto tra i bambini e i poveri.
Questi gruppi si oppongono non solo all’aggressione militare, ma all’intera logica della guerra: alle armi di distruzione di massa, all’inganno nucleare e alla messa a tacere del dissenso con il pretesto della difesa nazionale. “Vogliono mettere a tacere le nostre proteste chiamandoci spie”, avverte la dichiarazione, “usando la guerra come scusa per una maggiore repressione”.
Ciò che distingue queste dichiarazioni è la loro posizione esplicitamente rivoluzionaria. Non si limitano a denunciare la guerra: chiedono la fine di tutti i progetti militari e invitano a rinnovare la protesta popolare. “La risposta a questo disastro è la rivoluzione continua”, dichiarano, affermando che la liberazione non verrà dagli eserciti o dai governi, ma dalle strade, dai sindacati e dalla lotta per il pane e la libertà.
Tra i firmatari figurano l’Associazione dei lavoratori dell’elettricità e dei metalli di Kermanshah, la Campagna “Non giustiziate”, la Voce delle donne dell’Iran e vari consigli di protesta di base, a testimonianza di una crescente convergenza politica dal basso.
L’Associazione degli scrittori iraniani: Contro le macchine della morte
Tra il rombo dei missili e la propaganda di Stato, l’Associazione degli scrittori iraniani (Kanoon Nevisandegane Iran) ha rilasciato una dichiarazione cruda e senza mezzi termini. Da tempo bersaglio di censura e repressione, l’Associazione considera l’attuale guerra non come una rottura, ma come la continuazione di due progetti autoritari, uno radicato nell’occupazione, l’altro nel massacro interno.
Descrivono il confronto come una guerra “tra un regime fascista costruito sull’occupazione e sul genocidio e un governo fondato sul versamento del sangue dei dissidenti e dei cercatori di libertà”. In questa cornice, la guerra non distrugge solo vite umane, ma minaccia di cancellare la memoria storica della lotta, compresi i risultati della rivolta iraniana del 2022. Il pericolo, avvertono, è che ciò che cresce dalla terra bruciata della guerra non sia pace o giustizia, ma estremismo razziale, nazionalismo e nuove forme di fascismo.
L’Associazione degli scrittori non risparmia nessuno. Israele, sostengono, con l’aiuto dei suoi alleati mediatici, inquadra le sue campagne militari come difesa, mentre uccide i civili e mette a tacere l’indignazione. La Repubblica islamica, parallelamente, usa la guerra per espandere la sua presa sul potere, giustificando gli arresti, la censura e la minaccia di nuovi massacri invocando la sicurezza nazionale. “Versare sangue perché la nostra vita possa durare” – ci ricordano – è stata la logica fondante del regime, e ancora oggi plasma la sua strategia.
La dichiarazione richiama anche l’attenzione sull’ordine mediatico globale, dove “due poli” dominano la narrazione. Uno trasforma uno Stato in guerra in un salvatore eroico; l’altro nasconde l’autoritarismo dietro il linguaggio della difesa della patria. In entrambi i casi, le voci indipendenti vengono divorate. L’Associazione degli Scrittori insiste sul fatto che una vera resistenza deve rompere questo binario.
Il loro appello è rivolto non solo agli iraniani, ma agli scrittori, agli intellettuali e agli operatori culturali di tutto il mondo. Chiedono che questi attori amplifichino le voci indipendenti del popolo e si oppongano alla propaganda di Stato e alla complicità intellettuale. Il ruolo della letteratura, ci ricordano, non è quello di lucidare il potere, ma di dire la verità dai margini.
La penna, a loro avviso, rimane un’arma, non per lo Stato, ma per il popolo.
Solidarietà con la Palestina
Uno dei punti più chiari di allineamento politico ed etico di queste dichiarazioni è l’esplicita solidarietà con il popolo palestinese. Pur rifiutando l’uso strumentale della Palestina da parte della Repubblica islamica per la propria repressione, le voci della società civile iraniana tracciano una linea netta tra le false alleanze statali e la vera solidarietà umana. Non lasciano spazio ad ambiguità: la causa palestinese è giusta, ma non può essere usata per giustificare l’oppressione interna o la guerra regionale.
Le attiviste per i diritti delle donne imprigionate definiscono Israele “un regime costruito attraverso il massacro” e lo denunciano come “la base militare americana in Medio Oriente”, responsabile non solo dell’occupazione della Palestina, ma anche della devastazione in Iraq, Afghanistan, Siria e Yemen. La descrizione di Gaza, contenuta nel sito , non è filtrata da calcoli geopolitici: è parlata come una catastrofe umana e storica, parte della stessa logica globale che sostiene la violenza di Stato in Iran.
L’Associazione degli Scrittori iraniani denuncia l’uso della sofferenza di Gaza per giustificare una nuova ondata di esecuzioni, arresti e controlli ideologici in patria. Sottolineano che “la gioia che le persone provano nel vedere la morte dei loro assassini non dovrebbe mai essere scambiata con il benvenuto all’invasione della loro terra e delle loro vite”. Gli autori collocano la Palestina e l’Iran all’interno di una struttura condivisa di repressione, non come nemici o salvatori l’uno dell’altro, ma come popoli schiacciati da macchine da guerra autoritarie.
Le organizzazioni sindacali fanno eco a questa prospettiva. Nella loro dichiarazione, condannano i crimini di guerra di Israele a Gaza insieme agli attacchi alle infrastrutture iraniane. Ma non adottano la retorica del regime. Al contrario, sottolineano la sofferenza della gente comune in entrambi i luoghi. Per loro la solidarietà non è fatta di slogan, ma di rifiuto di lasciare che uno Stato parli in nome degli oppressi e li metta a tacere in patria.
Ciò che emerge non è un cenno retorico alla Palestina, ma una posizione fondata: la liberazione della Palestina e la liberazione dell’Iran sono interconnesse, ma nessuna delle due può avvenire attraverso il militarismo o la violenza di Stato. La vera solidarietà deve venire dal popolo stesso, dal basso, non dall’alto.
Dai margini alla maggioranza
Ciò che queste dichiarazioni rivelano collettivamente è qualcosa che i media mondiali, gli Stati e persino molti movimenti internazionali continuano a trascurare: La società civile iraniana non è inattiva o silenziosa, e non è confusa. Di fronte alle bombe, agli arresti, al collasso economico e alla censura, lavoratori, insegnanti, prigionieri, femministe e scrittori stanno articolando una posizione politica chiara, che non si scusa per la Repubblica islamica né giustifica il militarismo israeliano.
Non si tratta di una prospettiva marginale. Non si tratta di voci isolate. Queste dichiarazioni rappresentano i settori più organizzati e coerenti della società iraniana, quelli che hanno resistito a decenni di repressione e che continuano a impegnarsi per la giustizia. Il loro rifiuto di allinearsi a uno dei due Stati non è ingenuità. È una chiarezza politica nata dalla lotta.
Mentre i governi si scambiano missili e narrazioni, queste voci parlano di cibo, aule, sindacati, lingua e sopravvivenza. Ci ricordano che il vero campo di battaglia non è solo nei cieli, ma nelle strade, nelle prigioni, nei luoghi di lavoro e nelle scuole. Ci ricordano che la solidarietà non è uno slogan ma una responsabilità: ascoltare, amplificare e organizzare.
Se la sinistra internazionale, le istituzioni per i diritti umani e i movimenti per la pace sono seriamente interessati alla giustizia in Medio Oriente, devono smettere di inquadrare la regione attraverso le scelte imposte da Stati e imperi. La scelta non è tra Tel Aviv e Teheran. La vera scelta è tra dominio e liberazione, tra guerra e vita, tra silenzio e solidarietà.
E in Iran, il popolo ha già fatto questa scelta.
Scrittore e giornalista indipendente, è un rifugiato politico ad Atene, in Grecia. Scrive regolarmente di Iran, Medio Oriente, violenza ai confini e condizioni dei rifugiati in Grecia e in Europa.