Fonte: La stampa
La voce di Francesco in Israele
Quando nel 1993 si sono allacciate le relazioni diplomatiche fra Israele e Stato del Vaticano, anche il dialogo ebraico-cristiano si è intensificato e rafforzato. Un dialogo che aveva dietro di sé una lunga storia, e che si era approfondito nel clima del Concilio, sull’onda delle relazioni intessute fra la Chiesa conciliare e il mondo ebraico e della riflessione sulla Shoah, a cui la Chiesa di Pio XII era stata sorda e che aveva preso forza con l’avvento al pontificato di Giovanni XXIII, nel 1958. Nei decenni successivi, il dialogo si era sviluppato con ampiezza, mentre le trattative diplomatiche per arrivare ad un riconoscimento di Israele erano state lunghe e complesse, legate com’erano non solo ai temi del dialogo ma soprattutto a quelli dello statuto religioso di Gerusalemme e ad aspetti finanziari dell’accordo. Non sembra quindi strano che il riconoscimento sia avvenuto solo tanto più tardi, nel clima delle speranze nella pace tra israeliani e palestinesi suscitate dagli accordi di Oslo dello stesso 1993. Ma da allora in poi il dialogo interreligioso e i rapporti diplomatici fra il Vaticano e Israele avevano proceduto in sintonia, come dimostrano i momenti alti delle visite al Tempio Maggiore di Giovanni Paolo II, che era avvenuta nel 1986, cioè prima del riconoscimento, e di quelle di Benedetto XVI e di Francesco, nel 2010 e nel 2016, e come ci dicono i tanti momenti di confronto fra la Chiesa e il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni e le numerose iniziative congiunte di studio e di preghiera.
La connessione fra le vicende politiche del Medio Oriente e il confronto culturale e teologico fra ebraismo e cristianesimo è rimasta però stretta, tanto da mettere in crisi negli ultimi due anni anche lo sviluppo del dialogo. Papa Francesco ha preso più volte posizione su quanto stava accadendo in Palestina: ha ricevuto i parenti degli ostaggi, ha condannato le terribili violenze del 7 ottobre ma ha anche condannato con forza e ripetutamente la strage dei palestinesi attuata in questi mesi dal governo israeliano. In una dichiarazione che ha suscitato un notevole dibattito, che faceva seguito all’accusa rivolta ad Israele di genocidio, pur senza dare una vera e propria risposta a tale quesito, il Papa aveva sostenuto che era il caso di discuterla ed approfondirla. Perché il capo spirituale della Cristianità non avrebbe dovuto sollecitare un approfondimento su questo punto, che in quel momento stava fra l’altro alimentando accuse di antisemitismo e isolando Israele ? E in che senso ritenere che la critica, anche forte, alla politica di Netanyahu dovesse comportare un arresto del dialogo fra ebrei e cristiani? Questa crisi di un dialogo centrato sugli aspetti religiosi e culturali delle due religione, non su quelli soltanto politici, non può non apparirci come il frutto di un’identificazione radicale tra antisionismo e antisemitismo, quasi criticare da parte della Chiesa la politica israeliana significasse riprendere antichi stereotipi antisemiti e temi antigiudaici già cancellati dal Concilio. Un’accusa inespressa di antisemitismo ha di conseguenza gravato su questo dibattito, snaturandolo. Negli ultimi mesi, fin dall’ospedale dove era ricoverato, il papa ha parlato quotidianamente con i cristiani di Gaza e si è impegnato nel combattere il massacro che sta realizzandosi a Gaza. Un impegno forte e senza precedenti di fronte ad una situazione priva a sua volta di precedenti. Nessun accenno di antisemitismo, dunque, ma semmai il segno di un impegno responsabile di fronte al disastro in cui ci troviamo a vivere oggi.