Legge di natura del capitalismo finanziario. Parte seconda: l’estrazione di valore dall’uomo

per nicola
Autore originale del testo: Nicola Boidi

di Nicola Boidi

 «A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia.    Dalla sua analisi risulta che è  una  cosa  imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e capricci teologici».      Karl Marx

Abbiamo visto come il capitalismo finanziario globalizzato sia una sorta di novello Frankenstein, assemblato sui «corpi» del sistema bancocentrico, dei circuiti OTC «extraterritoriali» del commercio di derivati finanziari e compravendita last minute di titoli e divise («la finanza ombra»), e degli investitori istituzionali (fondi comuni d’investimento e compagnie assicurative, «eterodiretti» sovente dalle grandi banche, e fondi pensione) assurti al ruolo di gestori universali del risparmio e di decisori delle strategie aziendali. Come è successo che la finanza abbia prima generato e poi perfezionato, nel giro di un trentennio, un meccanismo di massimizzazione del profitto a danno dell’uomo, di estrazione di valore dall’uomo? E’ potuto accadere perché il sistema finanziario ha progressivamente attratto a sé e «arpionato» l’intero processo dell’economia produttiva, non finanziaria, non lasciando intoccato alcun ambito delle relazioni economiche, dei rapporti sociali, delle decisioni di politica economica e sociale nazionali e sovranazionali, e forgiando a suo uso e consumo potentissimi modelli culturali.

Si è progressivamente realizzata la previsione formulata già una settantina di anni fa dall’economista austriaco Joseph Shumpeter in Capitalismo, socialismo, democrazia, sull’inevitabile passaggio – a medio/lungo termine – dell’economia di mercato da una «competizione rispettosa» (mix di concorrenza e cooperazione tra le imprese) a «una competizione coercitiva» fondata su politiche rovinose dei prezzi che azzerano i margini di ricavo per unità di prodotto, sulla distruzione di sicure rendite oligopolistiche, sulla creazione di eccesso di capacità produttiva rispetto alla domanda, su innovazioni tecniche che rendono beni capitali di recente costituzione prematuramente obsoleti. Con l’ulteriore passo dell’obbligo di massicci investimenti dalla scarsa o negativa prospettiva di rendimento, la competizione diventa distruttiva.

Le condizioni perché questa nuova «natura» della competizione economica si affermasse sono state date a partire dagli anni 80 del novecento con la progressiva sostituzione del capitalismo manageriale produttivista (i manager che governano le imprese diventate società per azioni troppo grandi per essere guidate dai singoli capitalisti) con il capitalismo manageriale azionario o «capitalismo per procura», in cui i manager d’azienda vengono scelti, o gli viene data la procura della gestione delle aziende da parte dei suoi azionisti di maggioranza, per le loro competenze e abilità a muoversi nel mondo finanziario delle azioni e non più nei vari comparti della produzione industriale. La competizione «distruttiva» attuale ha la caratteristica di manifestarsi a diversi livelli del processo economico, potremmo dire a un «primo piano» e al «piano terra» del suo edificio, ma comunque come una competizione generalizzata di tutti contro tutti: di un’azienda contro un’altra, a volte di un manager d’azienda contro i suoi stessi azionisti, dell’azienda contro i suoi stessi fornitori, dei diversi fornitori tra di loro, con i loro lavoratori, tra i lavoratori, tra le diverse regioni di uno stesso paese o di paesi diversi.

La progressiva finanziarizzazione delle imprese non finanziarie è partita dalle industrie automobilistiche statunitensi per poi estendersi a quasi tutti i settori della produzione. Già dalla fine degli anni cinquanta del novecento la Ford e la General Motors, «pioniere» nell’esplorazione del campo, hanno costituito accanto alle divisioni produttive divisioni finanziarie adibite a offrire una gamma di servizi che via via hanno allargato la loro offerta dai piani d’investimento per l’acquisto di un’automobile alle polizze assicurative per qualsiasi marca di automobile, dai mutui ipotecari per l’acquisto della casa alla proposta di numerosi fondi d’investimento, ai servizi finanziari rivolti tanto a imprese industriali che alla grande distribuzione che ai commercianti che alle società di servizi. E’ successo così che la divisione finanziaria della Ford su ognuno dei piani d’investimento per l’acquisto di un’auto potesse guadagnare di più che dalla sua vendita per contanti; o che la Gmac (divisione finanziaria della General Motors) generasse dalla metà degli anni 2000 l’80% del reddito della General Motors, pur impiegando un personale molte volte inferiore a quello addetto alle attività manifatturiere. Analogo percorso di messa a profitto finanziario hanno seguito le industrie automobilistiche europee. La finanziarizzazione delle imprese industriali ha conosciuto una successiva estensione dall’autoindustria alla generazione e trasporto di energia, all’informatica, all’industria alimentare, all’aereospaziale, al settore terziario della grande distribuzione. Così nel capitalismo produttivo si è insinuato il «tarlo» che è il credito finanziario e non la vendita del prodotto finito che produce profitto e sostiene la produzione.

Un’ulteriore spinta in tal senso alle imprese industriali è venuta dagli investitori istituzionali che detengono ormai il 55% del capitale di tutte le società e imprese quotate in borsa, e dunque sono in grado di orientare in modo determinante, con una forte progressione a partire dagli anni ‘80, il governo e la «filosofia» delle aziende. E una tale filosofia, invero assai «povera di spirito», ma ricca di crude conseguenze materiali e pratiche, non poteva che esplicitarsi nello scopo prioritario su ogni altro di massimizzare il valore a favore degli azionisti: il valore deve essere creato sia facendo salire il corso delle azioni in borsa, sia facendo mostra di ottenere un elevato rendimento a breve termine del capitale di proprietà degli azionisti. Questo rendimento assume infine la forma concreta di dividendi distribuiti o interessi pagati sul debito (le obbligazioni) che l’impresa emette. Per gli azionisti i segnali più importanti sono però il corso quotidiano delle azioni in borsa da cui dipende il valore di mercato dell’impresa e i flussi di cassa dichiarati da una società trimestralmente o semestralmente.

Ne è discesa tutta una serie di conseguenze nella ristrutturazione e neomodellizzazione dell’azienda tipo che non ha potuto lasciare intoccata la quota di «capitale variabile» dell’azienda stessa, il capitale umano. L’impresa ha cominciato a non essere più concepita come un’organizzazione d’integrazione verticale di un processo produttivo in cui ogni parte è legata alle altre, in cui l’impresa tende a produrre al suo interno tutte le parti che compongono il suo prodotto finito e in cui il comportamento di ogni parte tocca l’interesse di molti gruppi (i dipendenti, i fornitori, la comunità locale) oltre a quello degli azionisti. Ora l’azienda modello si presenta come un «portafoglio» di attività connesse solo temporaneamente da un contratto; come un conglomerato d’impianti, mezzi di produzione e uffici, di cui ogni pezzo deve essere monitorato di continuo per valutare se il suo rendimento finanziario (il flusso di cassa che genera) è pari o superiore al rendimento finanziario dei corrispondenti pezzi migliori della concorrenza. Se il rendimento è in sé elevato ma inferiore anche solo di poco a quello della concorrenza, quel pezzo (o «anello») dell’impresa va prontamente ristrutturato o venduto o definitivamente chiuso.

Parte integrante di questa modifica del modello aziendale è l’esternalizzazione delle produzioni a centinaia di produttori, fornitori e sub-fornitori, medi e piccoli, sparsi per il mondo. E’ l’epoca dell’esternalizzazione che spinge l’impresa a, tendenzialmente, non produrre più nulla al suo interno trasformandosi in un centro di coordinamento orizzontale di quella micronesia di produzioni e forniture. La Dell, il più grande costruttore di computer al mondo, ad es., non produce nulla ma si limita a coordinare la produzione di migliaia di produttori, piccoli, medi e grandi, collocati in quattro continenti, convogliandone poi il flusso verso un numero ridotto di assemblatori finali. In questo modo milioni di posto di lavoro sono migrati dalle grandi imprese alle medie e piccole imprese che costituiscono i diversi livelli di fornitura. Con questo sistema l’impresa madre indebolisce i sindacati e riduce gli stipendi, i contributi pensionistici e le spese per le assicurazioni mediche. Un fornitore o sub-fornitore non più gradito per qualsiasi motivo alla casa madre può essere facilmente liquidato perché non è più un reparto funzionante al suo interno ma una società che sta in un altro paese e che viene eliminato dalla sua catena di estrazione di valore con una semplice e-mail.

I capitalisti per procura – i gestori dei fondi d’investimento – azionisti di maggioranza delle aziende, danno mandato ai manager di sviluppare una furiosa attività di fusioni e acquisizioni di società: M&A (Merger & Acquisition). M&A è in effetti la sigla magica che indica il metodo con cui i maggiori gruppi industriali s’ingrandiscono non perché abbiano accresciuto numero e dimensioni dei propri impianti, o investito in ricerca, lanciato nuovi prodotti , inventato strategie industriali e di marketing, stipulato accordi internazionali; niente di tutto questo ma semplicemente hanno comprato un gran numero delle imprese loro potenziali concorrenti. Si pensa che l’acquisto di una società concorrente sia meno costoso che incentivare i meccanismi competitivi. Il maggiore vantaggio atteso da una fusione o acquisizione è che i titoli di borsa delle società coinvolte aumentino infallibilmente. Anche là dove ciò avviene l’aumento dura poco ma per l’impresa finanziarizzata (per i suoi azionisti di maggioranza) contano i rapporti che indicano i flussi di cassa veri o presunti a breve termine.

I numeri ci dicono che negli Usa tra il 1985 e il 1997 20.660 società industriali sono state incorporate da altre società (per un totale di 356.362 stabilimenti che hanno cambiato proprietà) con una media di 17,2 impianti per società acquisita; che le fusioni e acquisizioni avvenute tra gli anni 90 e i primi anni 2000 nell’industria Usa, in quell’Ue (Unione Europea), e tra l’una e l’altra, hanno cambiato il volto dell’industria mondiale, creando monopoli o oligopoli di dimensioni gigantesche, con valori variabili dai 9,3 miliardi di dollari della ThyssenKrupp (colosso tedesco della siderurgia) ai 183 miliardi di dollari del colosso inglese delle Telecomunicazioni Vodafone. Le fusioni e acquisizioni naturalmente, richiedendo l’impiego di diverse decine di miliardi di dollari,vengono in gran parte finanziate ricorrendo al debito: con emissioni di valanghe di obbligazioni, che sono titoli di debito, o contraendo larghi prestiti presso le banche. Specularmente, le società che vogliono difendersi da M&A non gradite, contraggono debiti allo scopo di acquistare grossi volumi di azione proprie, per aumentare il loro prezzo di mercato e scoraggiare eventuali acquirenti.

La sottoscrizione delle montagne di debiti, fatta per soddisfare le strategie di M&A richieste dagli azionisti di maggioranza, dura decenni e rende dipendenti le imprese industriali, oltre che dagli azionisti, dalle banche, a cui si legano tramite estese attività finanziarie e intricate relazioni. I fini principali dell’impresa industriale finanziarizzata si presentano nell’ordine: 1) aumento dei dividendi e delle plusvalenze percepite dagli azionisti; 2) riacquisto delle azioni proprie al fine di far crescere il valore delle azioni; 3) gli elevatissimi compensi ai manager – centinaia di volte lo stipendio medio dei dipendenti – quali incentivi e premi per i risultati finanziari comunque ottenuti. Se prendiamo a paradigma le industrie automobilistiche, vediamo come ormai i mercati dei prodotti diventano necessariamente stazionari, mercati di mera sostituzione dei mercati «veri» (quelli finanziari). Proprio nel campo delle autoindustrie vediamo che l’eccesso di capacità produttiva rispetto alla domanda potenziale, combinato con altri fattori, le obbliga, per non deprimere il rendimento (finanziario) del capitale investito, non a battere la concorrenza ma a distruggersi a vicenda.

Questa caratteristica della competizione tra grandi imprese non finanziarie «al piano superiore» ha naturalmente pesanti conseguenze «al piano terra», poiché la politica di M&A quasi sempre si accompagna a un altro processo: il downsizing («ridimensionamento»). Anche il modello downsizing, che potrebbe essere tradotto in «taglia gli impianti e l’occupazione, distribuisci maggior valore agli azionisti», ha avuto i suoi antesignani: Kraft, Nestlè e Unilever, le tre più grandi industrie alimentari del mondo. La Kraft ha programmato per il periodo 2000 – 2008 la chiusura di quaranta stabilimenti e l’eliminazione di 14.000 posti di lavoro. La Unilever (terza industria alimentare nel mondo) aveva 300.000 dipendenti nel 2000, mente all’inizio del 2009 ne aveva solo più 148.000, essendo impegnata a distribuire agli azionisti 16 miliardi di dollari tra il 2000e il 2004, e altri 30 miliardi dal 2005 al 2010. Alla scomparsa di una grande quota dei lavoratori a tempo indeterminato è corrisposto l’aumento dei lavoratori informali occupati nelle catene di fornitura e sub-fornitura. Lo stesso è accaduto alla Nestlè. In tutti e tre i casi l’annuncio dei piani di ristrutturazione ha provocato l’aumento del valore delle azioni in borsa.

Questo modello di downsizing dall’industria alimentare si è esteso a quasi tutti i settori dell’industria contemporanea. Sono in generale i fondi d’investimento che danno un esempio «di scuola» di come applicare il modello downsizing: essi acquistano società pubbliche o private, le scompongono in diverse parti e rivendono ogni parte per ricavare un capitale totale assai più elevato del valore di mercato sborsato per l’acquisizione iniziale. Le conseguenze immediate sono la riduzione dei posti di lavoro di quelle «filiere» d’impresa se non il totale licenziamento degli impiegati del settore. Necessariamente le politiche di M&A e di downsizing comportano un deterioramento generale delle condizioni dei lavoratori. A partire dagli anni settanta fino al 2006 nei paesi più sviluppati dell’Ocse la quota del salario sul Pil in media si è ridotta del 10%: in Usa è scesa dal 70 al 63%, in Germania dal 72 al 64%, in Francia dal 76 al 65% , in Italia dal 68% al 53%. La crisi del 2008 non ha fatto altro che radicalizzare questa tendenza.

Le strategie finanziarizzate delle imprese estraggono valore dal lavoro, oltre che riducendo l’occu-pazione, moltiplicando il lavoro informale, atipico e precario, reso flessibile da legislazioni su contratti e diritti sul lavoro coniate ad hoc dagli Stati «sovrani». Il contratto di lavoro a breve termine consente all’impresa di: 1) pagare il meno possibile il tempo di lavoro effettivo; 2) d’impiegare e retribuire solo la quantità di lavoro necessaria in un dato momento per compiere una data operazione di accertata utilità produttiva, «giusto in tempo»; 3) minimizzare gli oneri addizionali che gravano sul tempo di lavoro (imposte, contributi previdenziali, assicurazioni sanitarie). E’ l’effetto di quel processo di forte pressione sui salari dei paesi sviluppati che ha avuto inizio con la fase della globalizzazione in cui le delocalizzazioni delle attività produttive e gli ingenti investimenti all’estero favoriti dalle istituzioni finanziarie sovranazionali (Fondo monetario internazionale e Banca mondiale) hanno consentito alle imprese di trasferire sostanziosi volumi di produzione di beni e servizi in paesi emergenti dove il costo del lavoro era da due a dieci volte più basso che nei paesi sviluppati. Un micidiale meccanismo di competizione tra salariati di paesi emergenti e salariati di paesi sviluppati, ne è stata la logica conseguenza. Un’altra forma di estrazione di valore dal lavoro è quella d’intensificare i ritmi di lavoro e la corrispondente riduzione delle pause durante l’orario: dalla riduzione di un quarto delle pause sulle linee di assemblaggio o la misurazione dei tempi di lavoro che applica alle singole operazioni manuali una metrica fondata sui centesimi di secondo, nelle industrie automobilistiche, alla misurazione in secondi dei contatti telefonici con i clienti degli operatori call center a cui corrisponde la loro retribuzione.

L’estrazione di valore non si ricava solo dal lavoratore ma anche dal consumatore o «cliente»: basti pensare allo sviluppo e all’induzione pubblicitaria all’acquisto delle più recenti tecnologie delle telecomunicazioni, che spinge a essere perennemente interconnessi nel sistema dei media, a non lasciare momenti della giornata in cui non si sia interconnessi. Come passive centraline di rilancio delle comunicazioni che riceviamo, in flussi permanenti di byte e bit finalizzati a scopi che ci sono totalmente sconosciuti ed estranei, diventiamo consumatori che lavorano perennemente per qualcun altro. E’ la totale immersione dell’individuo in un processo autoalimentantesi di produzione di comunicazione per mezzo di comunicazione. L’interconnessione 24 ore al giorno fa sì che ogni secondo frazioni di euro vengano depositate nel bilancio di differenti società che si occupano di telecomunicazione, di ingegneria del software, di produzione e vendita di apparecchi, etc. La loro somma dà come risultato il guadagno di milioni di euro: un inconsapevole prolungamento ad oltranza nel tempo e dello spazio dell’estrazione di valore dall’uomo.

L’estrazione di valore dall’uomo, oltre che da un’impresa da parte di un altra, dal manager nei con-fronti dei suoi azionisti se è il caso, dal lavoratore e dal consumatore, si completa con l’estrazione di valore dal pensionato: si è realizzato lo scopo inducendo milioni di lavoratori a farsi una pensione integrativa privata, cioè a versare contributi a carico del proprio reddito, compreso il TFR, invece che fruire di quelli a carico del datore di lavoro. In questo modo questi contributi vengono versati anziché agli istituti pensionistici ai fondi pensione, gestiti nominalmente dai sindacati ma nella sostanza dalle banche.

Se questo è lo scenario complessivo su cui regna attualmente la legge di estrazione di valore dall’uomo, manifestamente esso stride con le proclamate finalità che gli ideologi del neoliberismo già qualche decennio assicuravano sarebbero state raggiunte in modo sicuro e infallibile. Si sarebbe dovuta raggiungere la società della conoscenza, con il necessario e conseguente sviluppo di professioni ad altissima qualificazione, mentre invece le professioni oggi richieste in maggior numero sono commesse, baristi e operai dequalificati o lavoratori informali, che ricevono retribuzioni molto basse, mentre i centri di ricerca chiudono o delocalizzano uno dopo l’altro, e il loro personale viene licenziato. L’occupazione flessibile doveva contribuire a elevare la produttività del lavoro, e consentire che ognuno arrivasse rapidamente all’occupazione più adatta, ma le aziende l’hanno utilizzata sopratutto per compiere lavorazioni a basso valore aggiunto, che vuole dire scarsa produttività. L’ammontare delle pensioni scende precipitosamente verso la metà dell’ultimo salario percepito per i dipendenti a tempo indeterminato e per i lavoratori flessibili verso un terzo del salario medio.

Il cammino d’ibridazione tra finanza e industria ha conosciuto il suo primo arresto, la sua prima crisi «stile Enron» – trucchi contabili, frode fiscale, bancarotta fraudolenta dei manager nei confronti dei piccoli azionisti – agli inizi degli anni 2000; la sua seconda, devastante, crisi alla Lehman Brothers (mutui Subprime o bolla dei derivati finanziari) nel 2007-2008; il terzo atto della crisi, alla «greca», è iniziato nel 2010 con l’attacco dei fondi speculativi e degli enti finanziari in genere al debito sovrano degli Stati europei, dopo che questo debito era stato appesantito per tamponare gli enormi debiti privati delle banche. Quali che siano le misure che la politica metterà in campo (ammesso che lo faccia) per riformare questo mostro bicefalo finanziario – industriale, esse non recheranno vantaggi all’occupazione, ai redditi della maggioranza dei lavoratori, allo sviluppo di un’economia meno irrazionale, se le riforme non mireranno anche a invertire il lungo processo attraverso il quale il sistema industriale è diventato un’appendice del sistema finanziario, e l’uomo a sua volta è diventato un’appendice – una «servo-unità» in linguaggio crudo ma veritiero – del sistema economico nel suo complesso.

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