Leone per la pace

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Lucio Caracciolo
Fonte: La Repubblica

Leone per la pace

Leone XIV sta riportando la Santa Sede al centro della geopolitica mondiale. A suo modo. Quello di una istituzione romana perciò universale che ha per missione la diffusione del Vangelo e del suo messaggio di pace. Vocata quindi alla mediazione e all’equilibrio nell’ascolto delle parti in conflitto, soprattutto le più lontane dal suo sentire.

Quando, come Francesco, il nuovo papa implora la pace non si limita all’invocazione. Lavora per favorire il compromesso, ovvero la rinuncia dei belligeranti a parte dei loro obiettivi perché le armi tacciano.

A differenza di altre religioni la Chiesa cattolica si è dotata di una propria soggettività geopolitica incardinata nei 44 ettari dello Stato della Città del Vaticano. In quanto Santa Sede le sue relazioni con gli altri Stati sono perciò fondate sull’interesse cattolico, dunque generale, non su un interesse nazionale. Come diceva Paolo VI, «quando parliamo di Stati noi pensiamo sempre ai popoli che degli Stati costituiscono la realtà viva». La Sede petrina si considera “interna” a ciascun popolo. In quanto tutti i popoli sono un solo popolo di Dio.

Su tali premesse ogni pontefice modula la diplomazia vaticana in sintonia con il proprio carisma. Leone ne ha uno molto specifico. Come il suo predecessore mira all’obiettivo della pace (altri papi allestivano guerre) ma con stile e accenti propri.

Quanto allo stile, è prudente. Prevost per mentalità ed educazione rifugge dai manicheismi, dalle rappresentazioni in bianco e nero. Impero del bene contro impero del male, per dirla con uno stereotipo diffuso nel suo Paese di origine, non è la sua tazza di tè.

E se Francesco agiva spesso da solo, scavalcando la segreteria di Stato, Leone si affida invece alle strutture della Santa Sede non solo nella fase esecutiva ma anche a scopo consultivo. Parla il necessario e ascolta anche più del necessario. Da buon agostiniano, eletto e soprattutto rieletto generale dell’antico Ordine, considera il governo strumento inaggirabile della missione.

Quanto agli accenti, dalle sue prime mosse sulla scena internazionale si intravvedono novità. A Gaza e in Ucraina, i due principali teatri della «terza guerra mondiale a pezzi» — geniale definizione di Francesco cui Leone s’ispira — Leone comincia a far sentire la sua mano. Non solo la voce.

Nel conflitto fra Israele e i palestinesi, centrato sulla strage infinita di Gaza, l’accento di papa Prevost rivela attenzione al dialogo con il popolo ebraico. Uno dei suoi primi messaggi è stato infatti indirizzato al rabbino Noam Marans, dirigente dell’American Jewish College. Questo non significa comprensione per Netanyahu. Il capo della Chiesa cattolica vive come tragedia intollerabile il massacro di Gaza, l’indifferenza di Gerusalemme per la sorte della popolazione palestinese ridotta alla fame.

Qui però il Vaticano non ha leve da muovere. Il suo massimo rappresentante in Terrasanta, cardinale Pizzaballa, non suscita speciali simpatie in Israele. Quanto ai palestinesi, la cui causa grazie anche agli israeliani è sequestrata da Hamas, restano divisi, senza una guida cui riferirsi per trattare.

Qualcosa si muove invece sul fronte russo-ucraino. Nella fase iniziale del conflitto Francesco sembrava sensibile alle ragioni di Mosca, forse più per il suo peronismo anti-yankee che per inclinazione filorussa. Eppure papa Bergoglio ha svolto un ruolo sotterraneo quanto tangibile nel primo negoziato segreto russo-ucraino mediato dai turchi che nel marzo 2022 aveva prodotto una bozza parafata di preaccordo (poi sabotato da inglesi e americani) basata sulla rinuncia di Kiev alla Nato e ai territori a forte presenza russa.

La diplomazia segreta vaticana lavorava all’epoca per una tregua di tre anni vigilata da un contingente Onu con seguenti referendum per la definizione delle frontiere. La più recente missione del cardinale Zuppi, voluta da Francesco, ha poi dato credibilità all’attivismo vaticano anche fra gli ucraini, inizialmente scettici almeno quanto i russi. Senza presumere di avviare un negoziato geopolitico.

Leone è passato subito all’iniziativa. L’idea di proporre il Vaticano come luogo di incontro fra russi e ucraini è sua. Come sua sarebbe anche l’intenzione di visitare Kiev e Mosca. Mosse già pensate da Francesco, ma al tempo impossibili.

La svolta negoziale di Trump è silenziosamente incoraggiata dal nuovo papa, non sospetto di simpatie per Mosca. Leone è contrariato dai “volenterosi” franco-britannico-germanici, che ostentano appoggio alla resistenza ucraina pur sapendo di non poterla sostenere senza gli americani.

Tanto da varare il diciassettesimo pacchetto di sanzioni mentre Trump prima apre a Putin poi sembra rinunciare alla mediazione. La diplomazia vaticana si sta muovendo presso gli eurovolenterosi perché non ostacolino il dialogo appena riavviato fra Kiev e Mosca, già sufficientemente difficile.

Forse questi tentativi non sfoceranno in un cessate-il-fuoco. Resta però che la Chiesa sta ritrovando un protagonismo geopolitico, non solo simbolico, che contribuisce a frenare la deriva bellicista denunciata con grido quasi solitario da Francesco.

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