Raccontino della notte alla Dumas per i liberi e insonni

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Fausto Anderlini

di Fausto Anderlini – 27 aprile 2018

Annus mirabilis fu il 2017, venti lustri esatti dopo quella rivoluzione. Mentre gli ultimi decani del secolo breve, protagonisti e testimoni oculari, esalavano l’ultimo respiro, noi ci ritrovammo. Un’intera umanità sparpagliata ad adunarsi attorno al totem del grande partito defunto da ormai un quarto di secolo. Almeno tre generazioni invocanti il suo spirito, allineate sull’orbita di tre ventenni. Ci ritrovammo dopo che ci eravamo persi di vista, e spesso neppure poi da tanto, al punto che per alcuni fu rifare conoscenza dopo essersi venuti a noia fino al giorno innanzi. Ma ora finalmente faccia a faccia e mano nella mano. Incolonnati al ritmo del tam tam risonante nella giungla del web, con tutto il suo background di epiche sdolcinatezze. Una danza degli spettri irenica e pensosamente gaudente come neanche gli Hare Krishna, Un nuovo inizio posto alla fine di tutte le cerimonie di rinascita andate a male. Ma soprattutto un affettuoso convivio, quale solo si respira nelle adunate dei veterani, ma anche dei novizi, delle più nobili fra le cause perse.

Reduci, mutanti della terra di mezzo e trovatelli. Tutti invitati alla festa. C’erano i nati a cavallo dei ’40-50, i canuti ex baby boomers, il nerbo dei tumultuosi settanta. L’intera gamma stratarchica di una generazione iperpolitica, militanti sindacali e delle sezioni, allestitori di feste de l’Unità e persino suoi diffusori, quadri intermedi e riserve cospicue di stati maggiori. Gli appartenenti – molti ancora in esercizio – di un ceto politico di comprovata perizia e dedizione. Funzionari, organizzatori, agitatori, proselitisti e classe amministrante. E c’erano i nati nei ’70. La filiazione tardiva del trapasso dal Pci al Pds ed altri derivati del sacro costato. Una coorte di quarantenni fisicamente valida, ora nel fiore dell’età, ma con tutte le inquietudini e le irrisolte incertezze di chi porta il gravame di una socializzazione in un’età di transizione. Mentre i primi avevano vissuto il Pci dall’interno, come figli generati dal seme sparso dai padri fondatori, i secondi si erano nutriti dello spirito del defunto, irresistibile afrodisiaco tanatologico, e insieme del nettare copernicano del nuovo inizio. Sino all’ubriachezza,

E infine, staccati di un altro ventennio, c’erano i neo-nativi. Baldi giovani concepitii nella diaspora, ribelli per disgusto. Sparuta minoranza aliena nella propria generazione. Renitenti agli incarichi e alle mitologie da start up, come al lanciar sassi dai cavalcavia e alle perdite di tempo nelle apericene. Pecore nere, gente fuori del comune. Raffinatissimi scarti. Cioè giovani individui bisognosi di un ingaggio intellettuale e morale cogente a livello esistenziale. Bisognosi perciò di padri negletti e maledetti, o anche solo dimenticati all’anagrafe. Da Marx a Gramsci, passando per Hegel. Per farsi adottare: naturale, quanto sofferto, imperativo di ricerca in chi esce da un orfanatrofio ed è stato esposto sul sagrato di una chiesa.

Almeno dalla primavera all’autunno inoltrato di quel 2017 il clima fu clemente come mai: giornate fresche, radiose, piene di luce. Una mattinata sul mare che sembrava non dovesse finire mai. Che noi solcavamo ebbri di gioia, con passo lungo e il sole in fronte. Nelle cuffie musica che non andava oltre i sessanta. Di gusto nazional-popolare. Che metteva di buonumore. Arguta e dolciastra, pregna di aforismatici motivetti. Compagna radiofonica di una vita. Una intera stagione di autoconvocazione itinerante. Un programma di gite a toccare le più belle città del paese. Un pendolarismo politico persino lussuoso: viaggi in alta velocità, alberghi discreti e deschi paolini e insieme libertini attorno ai quali andavano in onda animate discussioni. Trovarci, ma soprattutto ri-trovarci fu come un orgasmo senza fine. Tutti ci venivamo incontro come sopravvissuti a un naufragio o a una disgrazia a lieto fine, pronti a rivivere e generare come si tornasse da una prigionia. Ci sorridevamo, ci abbracciavamo, ci toccavamo. Tanti baci e languide carezze. Eravamo saturi di tenerezza come fossimo a bagno in un vaporoso Ryokan. Con le anatrine, Cip e Ciop e altri uccelletti galleggianti. Le donne di ogni età erano colme di charme e tutti ci sentivamo quarantenni animati da un rinnovato vigore, Era come rinascere, spianati in una piccola, esclusiva ed intima comunità boudoir, mondati di ogni colpa, specie di quel ventennio di errori di cui fummo responsabili alla fine confluito nell’inimmaginabile obbrobrio del Pd. In quei raduni fu come rivivere l’epopea extraterritoriale dei mitici congressi del Pci, dove le delegazioni di ogni parte del paese si mescolavano, lontano dalle famiglie e dal mondo locale. E si facevano amicizie, si simpatizzava e sbocciavano nuovi amori. Se il partito era ordine e radicamento terreno, nella vita quotidiana, i congressi nazionali erano il paradiso per un popolo di eletti. E noi volevamo rivivere, per quanto in piccolo, fra di noi, quell’ebbrezza. Sebbene allora la trasferta la pagava il partito mentre qui mettemmo tutto di tasca nostra.

Liberi e Uguali è stato il prodotto di una auto-illusione, una dolce chimera non vivibile da altri che da questo nucleo di stratificazioni militanti rifusesi miracolosamente in quell’attimo solare durato una vacanza. Alla fine computabile in un milione e duecentomila persone, Un’enorme retroguardia elitaria di massa senza seguito, e perciò elettoralmente irrilevante, Sebbene una illusione della quale tutti eravamo consapevoli ma che nondimeno decidemmo di vivere, Perciò un lusso compulsivo ma velato di tristezza, la degustazione di un ultimo piacere prima dell’addio. Che infatti ci concedemmo essendo certi del magro risultato che ne sarebbe conseguito come del necessario ritorno al mesto tran tran della vita quotidiana, con le sue gabbie d’acciaio se non di matti. Dove le generazioni ritornano nei ranghi e i coetanei se la fanno di nuovo fra di loro: chi alle apericene, chi a sbattersi in famiglie disagiate col loro contorno di bugie, chi ai centri anziani e nelle sale biliardo. Ognuno perso per i fatti suoi, cioè nella cruda realtà della meccanica sociale che tutti sussume e che di ogni sursum corda .se ne fotte. Perchè le diaspore seguono il loro corso e se c’è una legge essa sta nell’impossibilità di rimettere il dentifricio nel tubetto. Ogni riunificazione, ogni ritorno nella terra avita essendo impossibile, se non come sublimazione fantastica. Mitica identità suggellata dal trauma di una perdita (non potrebbe essere altrimenti), condivisa da una minoranza segregata quanto dispersa ed irrisa di eletti. Nel nostro caso quel miscuglio di libidine, sogno e tenerezza a compensare una realtà di sangue, sudore e merda. Infatti ognuno secondo il suo stile. Perchè il Pci dei ’70 di Enrico Berlinguer, mirabile sospensione di una storia, fu duro di pelle ma dolce nell’animo e nel sentimento. Sicchè ritrovandoci non poteva capitare di prendersi a botte come fecero i socialisti attorno alla salma di Craxi o di trescare nei partiti degli altri come i democristiani. Non c’e dubbio, Contrariamente a quel che si crede, l’anno che sancì la fine di una lunga storia, e di alcune carriere, fu goffo ma bellissimo, frizzante di passione genuina e di belle recite. Perchè da veri materialisti storici sappiamo che la vida es un suegno, leggera e irripetibile come nelle più accattivanti riuscite di scena. Ci ritrovammo per riperderci. Fino al prossimo film. Se ci saremo. Non dico come personaggi e interpreti. Almeno come spettatori in sala.

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