Quando uccisero Pasolini e Oriana Fallaci mi chiamò

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Antonio Padellaro
Fonte: Il Fatto Quotidiano

Quando uccisero Pasolini e Oriana Fallaci mi chiamò

A 50 anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini: il racconto di Antonio Padellaro, allora inviato del ‘’Corriere’’ a Ostia. Depistaggi e misteri. La pista ufficiale: un flirt omosessuale finito male, ma poi chiama la Fallaci: “Sono stati i neri: scrivilo

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di Antonio Padellaro  – Per la prima volta da quella lontana mattina, l’altro giorno, sono ritornato in via dell’Idroscalo a Ostia. L’insegnante di un liceo di Velletri aveva coinvolto i suoi studenti nella realizzazione di un video che ricordasse quanto era accaduto cinquant’anni fa in quel preciso luogo. In una breve intervista cercai di ricordare come fu esattamente che da giovane cronista del Corriere della Sera, praticamente il mozzo di bordo, mi ritrovai proiettato sulla scena di un delitto che sarebbe diventato il Delitto. Dove con il profeta di un’epoca erano stati assassinati un pensiero, un’idea, una visione, una speranza, un’arte, e molte altre cose ancora. Mi guardavo intorno e vedevo un parco ben curato, impreziosito da un monumento alla memoria e da citazioni estratte dai suoi libri e incise su lastre di marmo. Quel giorno, invece, mi trovai a camminare lungo uno sterrato impastato di fango e sangue. Giunto sul posto seppi che il cadavere era già stato portato via e immaginai che la polizia scientifica avesse già una ricostruzione di quanto accaduto. Prima, naturalmente, che la piccola folla accorsa alla notizia e lasciata libera di sostare e passeggiare, come i visitatori di una mostra horror, avessero calpestato e cancellato ogni segno e impronta utili alle indagini.

Le stazioni di quella via crucis erano come unite da un filo rosso: un pezzo di legno strappato alla staccionata e macchiato di materia cerebrale; il solco circolare degli pneumatici dell’Alfa Romeo Gran Turismo e l’avvallamento lasciato dal corpo investito e schiacciato dall’assassino (dagli assassini?) in fuga. Intorno, una fioritura di fazzoletti di carta con impresso il Dna di prostitute, prostituti e clienti che lì ogni notte si appartavano e, chissà, anche con il Dna dei massacratori, se ad agire era stato più di uno.

Con l’arrivo delle telecamere Rai i testimoni si fecero volentieri avanti. “L’ho trovato io – riferì una tale signora Maria – saranno state le sei e mezza, ero con il cane e ho visto quella specie di fagotto in mezzo alla strada, mi sono avvicinata ed era un corpo”. “È una cosa orribile, orribile”, Ninetto Davoli aggiunge la sua voce straziata: “Non ci sono parole, era la persona più buona del mondo”. Mentre un tizio con un grosso cane al guinzaglio distilla massime vernacolari di vita: “Se scherzi cor foco prima o poi t’abbruci”. La tesi dell’intellettuale comunista e frocio che aveva avuto il benservito circolava già indiscutibile in quelle ore. Qualche metro più in là dei ragazzotti, alcuni con giacche di cuoio nero e Ray-Ban d’ordinanza, osservano e ridacchiano.

Per non prendere buchi cerco di origliare i commenti dei cronisti di nera del Messaggero, del Tempo, di Paese Sera, vecchi lupi di mare che fanno capannello. Uno lo conosco, di solito divide i moventi dei fatti di sangue in due categorie dello spirito: “Robba de pelo” e “robba de culo”. Quando rientro in redazione trovo sulla scrivania montagne di agenzie che recitano tutte lo stesso mantra. A ucciderlo è stato un giovane marchettaro di nome Pino Pelosi, fermato dalla polizia al volante dell’Alfa rubata sulla strada da Ostia a Roma. Ha confessato. Si tratterebbe di un rapporto omosessuale finito male. Tutto chiaro? Caso chiuso? E invece no. Squilla il telefono: “Sono Oriana Fallaci. Padellaro, ascolta bene. Pasolini è stato ucciso dai fascisti. DAI FASCISTI, devi scriverlo”. La cornetta di bachelite (archeologia del tempo) vibrava di rabbia. L’ultima ruota del carro del grande quotidiano non sa cosa rispondere, lusingato ma anche intimorito dall’attenzione della celebre collega. Balbetto qualcosa sulle indagini di polizia, notizie a cui la voce non sembra per nulla interessata. Vuole, anzi, intima un titolo da pubblicare l’indomani sul Corriere della Sera che alla fine però non avrà. In quelle ore non esiste alcun elemento concreto per scrivere che Pier Paolo Pasolini è stato vittima di un agguato fascista. Si tratta solo del sesto senso della Fallaci le cui affermazioni virgoletto fedelmente. Da quella volta non mi cercherà più. Anche al cronista per caso che ero sembrava tutto piuttosto strano: il ritrovamento del corpo del poeta che risale alle 6 e 30 del mattino e l’arrivo dei primi giornalisti quando la salma era stata trasferita all’obitorio da ore, per cui la scena del delitto era ormai violata e dunque inservibile. E poi la tesi dell’omicidio a sfondo sessuale, subito sposata dagli inquirenti senza possibilità di appello. E se si trattasse davvero di un agguato fascista?

Negli anni a seguire l’ipotesi più realistica – ma non dimostrabile in sede giudiziaria (“Lo so. Ma non ho le prove”) – collega l’eliminazione dell’intellettuale più odiato dai poteri marci che assediano il Paese – la P2, l’eversione nera – a qualcosa di molto più oscuro e complesso di una lite con un ragazzo di strada. Anche se sono tempi nei quali addossare la colpa ai fascisti è una semplificazione quasi apodittica. Anche per la Fallaci, allora compagna di Alexandros Panagulis, imprigionato e torturato dai colonnelli greci, non è facile liberarsi dall’angoscia dell’“uomo nero”. In seguito Oriana vivrà altre vite e altre opinioni. Chissà cosa scriverebbe oggi.

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