Sotto l’ombra di un bel fiore

per Gabriella
Autore originale del testo: GIROLAMO DE MICHELE
Fonte: euronomade.info
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SOTTO L’OMBRA DI UN BEL FIORE – di CECCO BELLOSI – ed. MILIEU

Quattro anni da Con i piedi nell’acqua, arriva attesissimo il nuovo lavoro di Cecco Bellosi, narratore di frontiera sospeso tra ricostruzione storica e racconto epico. I suoi libri sono, secondo una felice definizione di Aldo Bonomi, “preziosi giacimenti di memoria collettiva”.
Scritto nella forma del romanzo, ma inseribile nel solco della non fiction novel, Sotto l’ombra di un bel fiore ha per protagonisti due partigiani che ripercorrono a distanza di anni le loro esperienze e assistono in presa diretta al progressivo smantellamento dei loro sogni di cambiamento. Costruiti sapientamente da Bellosi ricalcando le caratteristiche di alcuni dei protagonisti della Resistenza che ha conosciuto nel corso della sua vita, Pedro e Paolo rivivono gli avvenimenti che hanno segnato un intero territorio, quello del Lago di Como, teatro di uno degli episodi cardine della storia italiana dei Novecento: la cattura e l’uccisione di Mussolini. Pedro si trova in mezzo a quella storia durante i giorni di aprile del 1945 e assiste al tragico epilogo della vicenda di Gianna e Neri, partigiani uccisi da partigani, sullo sfondo del mistero dell’oro di Dongo. Divenuto dirigente dell’Eni, conosce Paolo, un altro partigiano insieme al quale fa il punto della situazione, ogni volta a dieci anni di distanza: a caldo, nel 1947, sotto l’effetto straniante dell’amnistia Togliatti; nel 1957, in occasione del Processo di Padova agli imputati per la questione dell’oro di Dongo; nel 1967, in piena aria di golpe, con lo schieramento dell’Ovra e anche di alcuni vecchi partigiani valtellinesi, a partire dal capitano Motta e da Fumagalli, nel ruolo di protagonisti della strategia della tensione.
Un racconto che traccia un filo rosso lungo 20 anni di storia d’Italia, con un finale a sorpresa. A cavallo tra Fenoglio e Cercas, un romanzo che mescola la ricerca storica su documenti in parte inediti, con pagine di grande epica resistenziale. Destinato a far discutere gli storici e a far appassionare i lettori.

recensione di GIROLAMO DE MICHELE

(questo articolo è stato pubblicato, in versione più breve, sul manifesto del 12 aprile 2018)

Cinque anni dopo Con i piedi nel lago, Cecco Bellosi ritorna, con Sotto l’ombra di un bel fiore. Il sogno tradito della Resistenza (Milieu 2018)  a narrare i luoghi del lago di Como, questa volta fissando la sua raffinata e curatissima penna su quel pugno di giorni che segnarono la storia d’Italia, nella tarda primavera del ’45, con la cattura e fucilazione di Mussolini e dei gerarchi fascisti. Nella quale si intreccia la tragica morte di Luigi Canali e Giuseppina Tuissi, il capitano Neri e Gianna, partigiani comunisti torturati dai fascisti e uccisi dai loro compagni perché sospettati di tradimento. A loro Bellosi aveva dedicato uno dei racconti del libro precedente; ora, mescolando con perizia narrazione romanzesca e accurato vaglio degli eventi e delle testimonianze, restituisce loro quella giustizia che mancò nei giorni convulsi del ’45, dimostrando come si possa parlare degli eventi più scabrosi della Resistenza senza cadere nelle falsificazioni alla Pansa, o nelle opinioni in libertà spacciate per verità con le quali Pisanò ha costruito la contronarrazione fascista della Resistenza.

Neri, leggendario comandante partigiano, e Gianna, staffetta e sua compagna, furono catturati dai fascisti nell’inverno del ’45; Neri riuscì a evadere, Gianna fu seviziata e violentata con crudele sadismo, facendo dei nomi sotto tortura. Su di loro fu emessa una sentenza, la cui esecuzione rimase sospesa per il prestigio di cui godeva fra i partigiani Neri: non a caso uno dei partigiani che giustiziarono Mussolini.
La loro vicenda è ripercorsa lungo tre momenti: il 1948, quando il calore degli aventi appena trascorsi si scontra con l’effetto dell’amnistia di Togliatti, che riporta fuori dalle galere – e nei ranghi delle forze dell’ordine, delle prefetture, degli uffici dello Stato, sugli scranni del Parlamento – i fascisti: un provvedimento di grazia e non di giustizia che, trasformandosi in amnesia, «si è incagliata nella bonaccia crudele dell’oblio».
Segue il 1957, quando a Padova ebbe luogo il processo per il presunto furto dell’oro di Dongo, che rappresentò il tentativo di processare la Resistenza nel suo complesso; e che vide riuniti nella «difesa convinta di una dignità comune», accanto al comunista Longo, Raffaele Cadorna ed Enrico Mattei: «loro avevano compreso che separare i destini, gettando il fango sui comunisti, avrebbe sporcato una nobile storia. Tutta e non solo una parte».
Qui Bellosi ci dà una vera lezione di metodo storico, distinguendo la storia reale – «la cattura di Mussolini e dello stato maggiore del fascismo da parte di uno sparuto, smagrito e lacero gruppo di partigiani» – dalla chincaglieria costruita a partire da ciò che quel 25 aprile 1945 era secondario o irrilevante – la borsa del Duce, i documenti riservati, l’oro: «La gente e gli storici improvvisati sanno ricostruire la storia al contrario, invertendo l’ordine dei fattori. E il prodotto cambia». L’obiettivo diretto è la narrazione pseudo-storica di Pisanò; ma, restando sul piano del metodo, non diversa è l’operazione storiografica compiuta da Miguel Gotor nelle sue fluviali ricostruzioni e curatele degli scritti dalla prigionia di Aldo Moro: dove quello che è un effetto, peraltro non di primo piano, del sequestro – le lettere, e soprattutto il cosiddetto Memoriale – viene fatto retroagire sull’evento principale – l’avere un’organizzazione armata sequestrato un esponente politico il cui ruolo era considerato centrale in base alla fallace e stolida teoria politica dello Stato Imperialista delle Multinazionali – sino a divenire il punto prospettico a partire dal quale viene dedotta l’intera struttura (compresi ipotetici organigrammi) delle Brigate Rosse. Con lo stesso rigore col quale Pisanò ricostruiva l’arresto e l’esecuzione di Mussolini: come se l’intera vicenda che si dipana dalla strage di via Fani al cadavere di Moro nella Renault 4 avesse sin dal principio lo scopo di produrre quel Memoriale che finisce con l’abbagliare lo sguardo di Gotor tal quale il fantomatico oro mussoliniano abbaglia quello di Pisanò.

Infine, nel 1967, quando le uova dei serpenti stanno per schiudersi e Paolo, socialista libertario, amico fraterno di Ignazio Silone, ricostruisce la prima strage di Stato, quella della Fiera di Milano del 1928, legata a quella di piazza Fontana come il passato remoto è legato al futuro anteriore, dove «il futuro anteriore è il modello del passato remoto»: a conferma dell’allucinazione visionaria di Borges (e Benjamin): «sono i posteri a creare gli antenati». Accanto a Paolo, Pedro, proveniente dall’aristocrazia toscana; Tom, partigiano coraggioso «che aveva scolpito nelle mani e nel volto il ferro che lavorava con forza e fatica ogni giorno»; Pietro, «un hombre vertical, nelle difficili scelte della sua esistenza»; e Bill, «vent’anni e fegato da vendere»: le loro voci, come attorno al tavolo di un’osteria o in un casolare di montagna, guidano il lettore nel dipanarsi della tragedia di Neri e Gianna: ma anche, nel rivoltare il tappeto dell’immediato dopoguerra per scoprirne, nel risvolto, i primi nodi del fascismo che sarebbe ritornato (non a caso la ricostruzione del fascista Pisanò della Resistenza come movimento criminale fu presentata in sintesi a quel convegno dell’Istituto Pollio che, nel 1965, diede l’avvio alla strategia della tensione): perché quello dei voltagabbana (dei quali Mussolini è stato il principe) è «il logo più amato dagli italiani»; perché «il fascismo, in sonno ma mai estirpato, giace nel ventre molle della gente», in attesa dell’apprendista stregone di turno; e perché quello italiano è «un Paese senza dignità e senza memoria», incapace di rielaborare colpe ed errori.

E qui, sul tema delle colpe e delle amnesie di questo paese indegno, il recensore si prende la responsabilità di leggere, nella filigrana della trama di Bellosi, un’altra storia di torture ed efferatezze: quella dell’uso sistematico della tortura nelle carceri e nelle caserme, in modo sistematico e non episodico, negli anni ’70 e ’80, col consenso esplicito o tacito ieri, e con la sistematica negazione fino ad oggi, dei tanti difensori dello “Stato democratico”; e, con parallela ferocia, le mani sporche dei tribunali e dei boia delle carceri che, nel divenire-Caino di una parte – per fortuna minoritaria – dei detenuti politici, sostituivano la teoria con il laccetto al collo, confermando per altre vie l’appartenenza a quell’album di famiglia di cui aveva scritto Rossana Rossanda nel 1978.

Ma ciascuno ha il proprio album, e la propria famiglia. E dunque, attorno alle figure partigiane del lago di Como, il partigiano Bellosi individua dei tipi umani, degli stili di vita che richiamano alla memoria la rivolta di Camus e la guerra partigiana di Fenoglio:

Pedro e Bill non erano partigiani politici, ma esistenziali: passionali di temperamento e narcisi innocenti della breve stagione di maggio. I comunisti possedevano la saldezza dell’acciaio; loro invece vivevano la coriacea fragilità del cristallo. Difficile dire chi sia stato più grande. Anche perché gli uni e gli altri sono stati dimenticati da un Paese senza memoria. Trasformati in peccati smarriti in confessionale.

Per tutti loro, e per noi che non dimentichiamo, scrive Cecco.

 

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recensione di Gian Paolo Serino, da La Provincia del 7 ottobre 2018

Il fascismo è tornato. Se non come dittatura visibile, certamente tra i romanzi che in questi mesi dominano le classifiche e i premi letterari.
Si pensi a “Le assaggiatrici”, romanzo vincitore del Premio Campiello, scritto da Rosella Postorino (per Feltrinelli), che racconta la storia di una donna che come compito aveva quello di assaggiare ogni pietanza destinata a Hitler per “assicurarsi” che non fosse avvelenata (questa settimana al quarto posto in classifica); o a “La ragazza con la Leika” di Helena Janeczek (Guanda editore, all’ottavo posto, con oltre centomila copie vendute) che ha vinto il Premio Strega ricordando Gerda Taro, la prima fotografa caduta su un campo di battaglia, lei compagna di Robert Capa e militante antifascista durante la Guerra Civile di Spagna nel 1937 o a “M. Il figlio del Secolo”, capolavoro assoluto assolutamente da leggere firmato da Antonio Scurati che ricostruisce in un romanzo-documentario la vita di Mussolini dal 1919 al 1925 (edito da Bompiani e da tre settimane in vetta alle classifiche di vendita).

Tre romanzi di altissimo valore letterario e civile che ci raccontano anche il nostro presente: certo oggi non esiste un dittatore, almeno alle nostre coordinate geografiche, che ci imponga la propria volontà con la forza, ma si respira sicuramento un clima, non solo politico, molto vicino ai tempi che assecondarono fascismo e nazismo. Certo oggi il pericolo è maggiore perché il rischio non è quello di un grande dittatore, ma è certo possibile un dittatore con un sorriso sulle labbra, che ci domini non attraverso le punizioni, ma attraverso i piaceri e i divertimenti. E’ una realtà per certi versi kafkiana quella che stiamo vivendo: la stessa che descrive metaforicamente Cecco Bellosi nel romanzo verità “Sotto l’ombra di un bel fiore” (pubblicato da Edizioni Milieu).

Cecco Bellosi ci fa comprendere come non esiste il pericolo del ritorno del fascismo perchè il fascismo non è mai andato via. Al di là della trama – che vede protagonisti partigiani e esuli, anche di prima grandezza in quella che è stata la Resistenza sull’Alto Lago e in Valtellina – è un romanzo che diventa spesso uno specchio d’inchiostro. E’ forse il primo romanzo sulla Resistenza che racconta i partigiani non come vinti, ma come sconfitti. Sconfitti dalle macerie morali di un’Italia del Dopoguerra che nel segno della ripresa economica, di un neorealismo che sembra confinato soltanto nei film, ha dimenticato cosa significa “resistere”.
Bellosi non scrive da solito “reduce” di un comunismo ideologico che ha cercato di combattere incarnandolo e non professandolo, vivendo sempre la passione di un’utopia di un mondo migliore che per lui era una lotta armata che facesse rivivere quei resistenti che da ragazzino accompagnava per i paesi della Valtellina.
Bellosi è un “pettirosso da combattimento”, è un uomo così grande da far ombra spesso a ciò che scrive. Se solo Bellosi, per una volta, venisse a patti con se stesso diventerebbe uno dei grandi scrittori italiani. Perché la Storia non l’ha raccontata, l’ha vissuta tatuata dentro come un amore, come un dolore, come qualcosa che non ha mai smesso di battere nel suo cuore perchè un cuore come il nostro, ridotto a calci nell’oblio, non è un cuore: è un muscolo involontario. Bellosi è ancora oggi un guerriero che in punta di penna affronta il mondo.

Da solo, tra le feritoie della sua scrittura, dove s’intravede sempre quella che Pasolini chiamò, in uno scritto inedito del 1955 che ho pubblicato su “la Repubblica”, “La luce della Resistenza”. Così scriveva Pasolini: “Viviamo in uno strano periodo, in cui l’urgenza dell’agire non esclude, anzi, richiede assolutamente l’urgenza del capire”. Ed è proprio “l’urgenza del capire” che si agita, anche sotto la cenere, in tutto il libro di Bellosi. Non c’è nulla di ideologico in Bellosi, se per ideologia non intendiamo l’essere (umano). Bellosi è un essere umano. Anche dentro e fuori la carta di questo romanzo che alla fine raccontando un uomo e una donna, sconfitti dall’esistenza, racconta di noi. La differenza è che i protagonisti si sono accorti di essere torturati, seviziati, imprigionati, esiliati. Noi no, perché il fascismo è in questa nuova dittatura democratica che si può sintetizzare in una frase: prima c’era un muro di gomma contro cui sbattere, adesso c’è solo un muro in cui svaniamo dentro.

“Sotto l’ombra di un bel fiore” è da leggere per capire che era tremendo trovarsi di fronte ad un nemico tota(e)litario, ma era anche spaventosamente vitale. Almeno sapevi chi ti torturava e a chi sparavi. Oggi chi lo sa se sono buoni o cattivi gli indiani. E se anche Bellosi scrive che “La Resistenza avevo vinto il presente e perso il futuro” è necessario leggere questo romanzo, soprrattutto è da regalare e da far leggere alle nuove generazioni che troppo spesso si ribellano dalla parte del silenzio: nelle droghe, nell’alcool, nei social network. Prendono le armi contro se stessi perché questo mondo presente è davvero assurdo. Ma è così. E’ questo. E se non faremo la storia, almeno facciamo la nostra storia senza che nessuno invisibilmente ci manipoli. In fondo è questo che ci vuole dire Bellosi. E non è poco. Certe volte non basta essere primi in classifica o vincere premi letterari. Certe volte è obbligatorio, cioè umano, donare se stessi: ad ogni riga, ad ogni parola, ad ogni punto, non solo per estetica di scrittura ma per diventare il magma di una nuova azione popolare e, in fondo, profondamente cristiana.



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