Fonte: facebook Alfredo Morganti e Cinzia Dicorato
Solo un ingenuo poteva pensare che la Corsa al Quirinale non sarebbe ripartita da lì, dalla ferita aperta dai 101. Perché quello non fu un semplice ‘errore’ politico, fu di più. Fu la politica condotta con altri mezzi, fu una guerra contro il cosiddetto candidato ‘azzoppato’. Ci fu in quel momento chi pensò che bisognava sgomberare letteralmente il campo dalla leadership che aveva condotto sino a quel momento il PD e il centrosinistra. E pure chi, più furbescamente, ritenne quello un passaggio chiave per mettere le mani su un pezzo di apparato e intascare al volo qualche carica. Questo asse spinse il PD nel baratro della vergogna del voto segreto contro Prodi-Bersani. Tatticismo di tipo bellico, insomma, più di un classico tradimento. Non realismo politico, perché questo è un’altra cosa, ha un respiro strategico non è una specie di brutale ‘accalappia-poltrone’. E indica una visione forte delle compatibilità e delle chance effettivamente offerte dal contesto politico e istituzionale. La rivolta dei 101, invece, fu una specie di cospirazione bellica, che accorciò tempi e strada ai cospiratori e consentì il raggiungimento di alcuni obiettivi a breve, passando sopra il corpo politico del predecessore. L’Enrico stai sereno, in fondo, fu solo la replica di un metodo partito ben prima.
Ora, la storia è piena di regicidi, di cospirazioni e di tradimenti. E la cosa non ci scandalizza più di tanto. Quello che da fastidio è chiedere lealtà quando la regola è opposta. Lealtà nel senso di collaborazione, lealtà nel senso di “parliamone” (“ma prima però ne parlo con l’avversario politico”). Avviata la catena delle cospirazioni, quella si sussegue in totale autonomia, come una collana di perle. Per questo non chiedo certo a Bersani, uomo serio e leale come pochi, di mettersi a cospirare. Non lo farebbe mai. Piuttosto vorrei solo che lui, visto che Renzi lo interpella buon ultimo dopo Berlusconi, Letta, Verdini and so on, indicasse al premier un solo nome, semplice, di cinque lettere, il nome a cui ci eravamo fermati un po’ bruscamente due anni fa, ossia PRODI. Non che ami Prodi, non che provi per lui chissà quali amorosi sensi. Mi pare, tuttavia, che a lui si debbano delle scuse, e che se lì eravamo arrivati, non vedo perché da lì non si debba ripartire. Capisco che il Professore oggi si sia tirato fuori, ma lo ha fatto anche per non essere bruciato in anticipo, o di nuovo, e forse per rientrare in pista a tempo debito. Ecco il momento, allora. Bersani fai quel nome a Renzi. Se dice di no, se ne torni mogio mogio da Berlusconi. Se lo accetta abbiamo invece due possibilità: o Prodi viene eletto, e bon. Oppure non viene eletto, perché i 101 magari tornano a rimaterializzarsi. Be’, chi di Prodi ferisce di Prodi perisce, si direbbe in quest’ultimo caso. E i cocci sarebbero, invariabilmente, i suoi.
PS: Certo, poi qualcuno dovrebbe spiegarci perché quella volta Prodi no e oggi sì. A partire da Selim, il Turco in Italia, quello di “Bella Italia alfin ti miro”, che oggi fa la morale e se la canticchia beato dal Nazareno.
“Bella Italia, alfin ti miro.
Vi saluto, amiche sponde;
l’aria, il suolo, i fiori e l’onde,
tutto ride e parla al cor.
Ah! del cielo e della terra,
bella Italia, sei l’amor.”
“Il turco in Italia” di Gioachino Rossini


