Fonte: La Stampa
Quell’autorità morale fra le tribù dei partiti
Il discorso di Sergio Mattarella per il Primo Maggio ci ricorda alcune cose importanti, al di là dell’argomento specifico che ha affrontato, i salari insufficienti (non bassi: proprio «insufficienti» alla vita), la sicurezza sul lavoro e il rifiuto della cultura dello scarto, che fu anche una delle grandi lezioni di Bergoglio. La prima cosa è che il senso morale di una comunità, persino in questi tempi complicati, esiste e resiste anche nel perimetro della laicità. Il richiamo al valore della dignità, sul lavoro e ovunque, non è prerogativa dell’autorità religiosa ma è il fondamento dell’edificio democratico e di ogni dibattito politico che non sia pura propaganda. Il secondo dato è la nostra fortuna. Siamo fortunati ad avere una voce super partes che gli italiani possano ascoltare senza pensare che stia tirando la volata a questo o a quello. Mica era scontato. La tribalizzazione della politica da almeno tre lustri sta producendo quasi esclusivamente figure da trincea, colonnelli e generali amatissimi dalla loro parte e detestati dall’altra. La famosa categoria “riserve della Repubblica” non solo è ridotta al lumicino ma è costantemente delegittimata come élite di privilegiati senza voti e senza qualità, se non quella di tenersi nelle retrovie aspettando un’occasione.
Ci sono piaciuti i Beppe Grillo, e poi i Donald Trump, gli Javier Milei, i Nicolas Maduro, a molti piace persino Vladimir Putin, gli esagerati e i pirotecnici, insieme con le loro ricette ideologiche indifferenti alla vita concreta degli esseri umani. Ci piacciono quelli con i cappellini e con la motosega. Essere “divisivi” – cioè capaci di eccitare la propria parte e di indignare gli avversari – è diventato un plus competitivo e una credenziale di sicuro successo elettorale. Parlare a tutti non è più di moda e non rende. E tuttavia proprio in questi giorni la commozione italiana, europea e planetaria per la morte di un Papa ci ha rivelato che l’umanità ha ancora bisogno di messaggi universali e che una visione nitida dei valori essenziali è il solo rifugio immaginabile nella tempesta dei tempi. La domanda è: può la politica permettersi questo tipo di approccio, può coltivare un’idea condivisa di ciò che “viene prima” dello spirito di fazione, quei capisaldi morali che la Costituzione indica con chiarezza?
Sergio Mattarella ci dice che sì, è possibile, e invita chi lo ascolta – i partiti, le istituzioni, l’impresa e il sindacato, almeno si spera – ad agire di conseguenza. Nessuno, in una Repubblica fondata sul lavoro fin dall’incipit del primo articolo costituzionale, dovrebbe rassegnarsi alla realtà di tante famiglie che lavorano ma non riescono più a vivere del loro lavoro. Nessuno dovrebbe giudicare normale l’emigrazione di migliaia di giovani italiani, il caporalato, la mortificazione del lavoro immigrato con salari che sono inferiori di un quarto rispetto agli italiani, e figuriamoci il lavoro “che consegna alla morte”, magari per risparmiare su qualche voce di manutenzione o accelerare processi che i dispositivi di sicurezza rallentano. «Non venga mai meno il principio di umanità come cardine del nostro agire quotidiano», dice il Presidente citando uno degli ultimi appelli di Bergoglio, una frase del messaggio pasquale che il Papa solennizzò affacciandosi, allo stremo delle forze, dalla loggia di San Pietro poche ore prima di morire. La sintonia tra l’appello di un grande e amatissimo leader religioso e il custode dei valori laici della nostra Repubblica ci ricorda che l’essenza dell’agire pubblico non è stabilire chi è più forte o più applaudito o il più capace a schiantare gli avversari, ma chi è più capace di dare concretezza all’universo di valori a cui apparteniamo sia come credenti, per chi lo è, sia come cittadini, e lo siamo tutti.