Fonte: Novecento.org
stralcio dell’intervista di Maria Luciana Granzotto allo storico Mario Isnenghi – luglio 2015
Il 4 novembre e Vittorio Veneto sono le grandi dimenticate del rapporto degli italiani con la prima guerra mondiale: assurdo, come se gli italiani avessero vinto tante altre guerre. Solo l’apocalittico religioso, sedicente contrario a ogni violenza e a ogni guerra, può disprezzare la vittoria, e qui non c’è niente da dire; chiunque altro non vedo in base a quali argomentazioni serie lo faccia, anche se sappiamo quali sono le argomentazioni. Di mezzo c’è la cultura nazionalfascista che ha fatto terra bruciata, anche se l’Italia ha vinto e ha vinto contro il grande impero asburgico. Il 4 novembre è una festa nazionale ma nessuno capisce bene che razza di festa sia, lo so perché di solito in vista di ogni 4 novembre mi telefona questo o quel giornalista, ma si capisce benissimo che l’ultima cosa che gli viene in mente è la vittoria, tutt’al più gli viene in mente la fine della guerra e dunque la pace, e ci risiamo. La guerra serve solamente ad esaltare la pace, va bene in chiave di valore per l’oggi, però in questo caso non hai bisogno dello storico. Andiamo ai fatti: Vittorio Veneto è una grande particolarissima battaglia intrisa di elementi politici oltreché militari, ma non dobbiamo sorprenderci di questo perché quella fu la prima guerra totale. E la guerra è totale perché c’entrano anche i civili, oltre ai militari, e le donne e gli uomini, e tutti sono in una maniera o nell’altra coinvolti per portarla a buon fine. Ma la vittoria è un buon fine o siamo talmente ideologizzati nel nome e nel valore della pace che non si può portare a buon fine una guerra e preferire vincerla invece di perderla? Se torniamo al 1914-15, gli eredi del no alla guerra possono dolersi che i neutralisti, che erano maggioranza, abbiano perduto lo scontro con gli interventisti, che erano di meno. Se ne diano una ragione, studino perché e per come, ma è andata così, una volta che sei entrato in una guerra penso che il singolo possa sentirsi, dichiararsi e comportarsi come un obiettore totale e dunque opporre il suo no alla guerra in modo assoluto. Ma il singolo impegna se stesso, non può impegnare una collettività. Se la collettività si è impegnata in una grande guerra totale basata sulla coscrizione obbligatoria, o riesci a fermarla prima che cominci o, se comincia, non vedo forme, nella storia, di obiezione di coscienza a carattere collettivo plebiscitario. O meglio, se stiamo parlando di rivoluzione, è un no alla guerra talmente sicuro di sé, talmente forte da concretizzarsi nel rovesciamento tra le classi, tra le forze politiche e tra i paesi. Allora parliamo della Russia e del fare come in Russia ed è un’immagine che serpeggia nell’Europa in guerra nel corso del 1917-18, e anche in Italia. Quindi fare la rivoluzione al posto della guerra, ma la rivoluzione è un’operazione politica in positivo, è avere tanta forza da poter rovesciare la direzione in cui sparano le mitragliatrici e i fucili. Avere la forza, la volontà politica di farlo e non individualmente ma socialmente. Non ci sono in Italia nel 1917-18 le forze politiche che abbiano la forza di pensare e di fare la rivoluzione. Il partito socialista era neutralista, mentre chi era più a sinistra aveva già scelto l’intervento in guerra, come i sindacalisti rivoluzionari, metà degli anarchici, una parte dei massimalisti e il direttore di ”l’Avanti!”. Dentro al gruppo socialista c’è il gruppo parlamentare egemonizzato da Turati, Treves e i riformisti, che non hanno mai pensato alla rivoluzione, meno che meno ci pensano dopo l’ottobre – novembre del 1917. I massimalisti prevalgono nella direzione del partito socialista, ma la parola d’ordine per tenere insieme il partito socialista l’aveva escogitata il segretario del partito Costantino Lazzari ed è “né aderire né sabotare”. Cosa c’entra la rivoluzione con “né aderire né sabotare”? A Torino c’è stato lo sciopero generale nel 1915 e nell’agosto del ’17 quando, a partire dalle code delle donne davanti ai fornai, si è ampliata la parola d’ordine da, più o meno, “viva il pane” a “viva la pace”, ma neanche Milano si è accodata a Torino, come il fronte non si è accodato ai civili. Torino rappresenta un grave sintomo di malcontento, di malessere ma non un sintomo di volontà politica e di capacità e forza di fare qualcosa di simile alla rivoluzione. Al contrario nell’ultimo anno di guerra, dopo Caporetto, i deputati leaders del riformismo socialista, Turati e Treves, si riscoprono anche loro patrioti, come avevano fatto capire fin da principio nel caso di una guerra difensiva, e nel ’17 lo diventa. Ebbene, centinaia e migliaia di soldati che avevano votato per i socialisti o erano d’area, devono averlo pensato, a giudicare da come si sono comportati, altrimenti non ci si spiega la resistenza al Piave, al Grappa, al Montello. Una guerra difensiva è più comprensibile di una guerra offensiva e si muore meno. Dopo Caporetto ci sono oltre 200 chilometri in meno da presidiare, per cui anche se il milione di uomini della II armata non c’è più, ci sono anche meno chilometri da presidiare. E’ meno difficile spiegarla al contadino – soldato una guerra di difesa. Salandra, il primo Presidente del Consiglio dei tre governi di guerra ha parlato di “sacro egoismo” della nazione, al contadino – soldato si può ora vendere meglio il “sacro egoismo” a livello di campi o di orto, di micro proprietà privata. Nell’esercito di Diaz si capisce sul morale più di quanto non si fosse capito o voluto capire con Cadorna, quindi un po’ Diaz capisce e un po’ lascia fare a quelli che capiscono, uomini di scuola, pedagogisti, storici, giornalisti, i quali non solo organizzano la propaganda ma parlano anche di licenze, di pensioni, di assicurazioni sociali. E ancora più efficace: “la terra ai contadini”, non sarà vero ma si vive di promesse e di speranze. La speranza può essere la rivoluzione, oppure può essere lo Stato che ti darà la terra. Questo è, in senso lato, il quadro psicologico e politico del dopo Caporetto e dell’ultimo anno di guerra, e Vittorio Veneto cresce su questo terreno.
Dopo la rotta la guerra italiana è difensiva fino alla metà del giugno 1918 e alla battaglia del solstizio, probabilmente la più grande battaglia e la più grande vittoria degli italiani sugli austro-ungarici, che si trovano in una situazione difficilissima, non avevano più da mangiare per l’esercito, per cui dovevano assolutamente conquistare il nuovo raccolto in Veneto. Tutte le forze austro-ungariche vengono gettate nella fornace della guerra di metà giugno, ma l’Italia riesce a non farli passare, se non in modeste enclave del Piave. Questa è la vittoria, l’Austria non avrà mai più la forza che era riuscita a mettere in campo a metà giugno. Nei mesi successivi a giugno, Diaz e tutta la società italiana militare e civile entrano in tensione in vista di una ripresa dell’offensiva. Diaz, che non vuole fare il passo più lungo della gamba, sarebbe propenso a dilazionare nel tempo spostando l’offensiva ai primi del ’19 ma a questo punto i politici si impongono ai militari, perché c’è il rischio che la guerra finisca senza che l’Italia sia riuscita a ‘vendicare Caporetto’, ovverosia a riprendersi le terre invase e possibilmente quelle “irredente” che avevano motivato l’entrata in guerra. Non si può, perché si riprodurrebbe la situazione della III guerra di indipendenza: da cinquant’anni sull’Italia pesano la sconfitta di Lissa e di Custoza. Sarebbe orrendo dal punto di vista dell’immagine se la guerra finisse con tutto il Friuli e metà del Veneto occupati, sarebbe una carta formidabile nelle mani dell’impero austro-ungarico e sarebbe una ragione in più per gli alleati di umiliare l’Italia, e lo faranno comunque. Immaginarsi cosa sarebbe accaduto se non ci fosse stato Vittorio Veneto. Dicevamo prima che il no all’epica nazionalfascista ha reso per molti naturale in tutto il lungo dopoguerra, che dovremmo considerare finito per tornare a una visione più concreta e realistica delle cose, volersi svincolare dagli orgogli nazionali fascisti. Questo ci ha portato a essere reticenti rispetto alla vittoria, come se vittoria fosse sempre sentita con la v maiuscola, come se fosse stato una fanfaluca inventata dalla propaganda e riperpetuata dal fascismo. Paradossalmente nel raccontarci le cose così, per un malinteso antifascismo, si finiva per venire incontro alla visione austro-ungarica, e più in generale tedesca, che li ha portati a lungo a pensare di non avere mai perso la guerra, di avere perso per ragioni economiche e politiche – il blocco economico, la fame – ma la questione è più complicata. Facciamo l’analogia con Caporetto, non è vero ma a lungo Caporetto è stata considerato come un fenomeno più di ordine politico-sociale che militare. L’interpretazione è stata: l’Italia perde a Caporetto perché è uno stato giovane e non ben amalgamato, in cui il rapporto tra governanti e governati non è soddisfacente. Appena hanno potuto i governati o addirittura si sono ribellati – qualcheduno poteva anche pensare questo – o comunque non hanno più avuto voglia di combattere per i governanti. Questa visione è destituita di fondamento ma fu la prima cosa pensata da una buona parte degli interventisti che non si capacitavano di quello che accadeva in quelle settimane a cavallo tra ottobre e novembre 1917. E’ il popolo che non combatte, sono i disfattisti, gli ex neutralisti che non si sono mai capacitati di aver perduto politicamente nel ‘14-’15 e che hanno soffiato sul fuoco finché non si è arrivati a questo punto. Non era vero, però in una guerra totale non conta solo ciò che è vero ma anche ciò che viene percepito come verosimile. D’altro canto il 28 ottobre è il generale Cadorna che firma il comunicato ufficiale dove dice “tali e tali reparti hanno buttato le armi volutamente” e fa i nomi; nessun altro generale si sogna di farlo. Il governo interviene e riesce a bloccare la circolazione in Italia ma non la blocca all’estero e sembra fatto apposta per far pensare dell’Italia ancora peggio di quanto già non fosse, sulla base di precedenti quali Adua, Lissa, Custoza. Ho richiamato Caporetto perché anche Vittorio Veneto per gli austro-ungarici non è semplicemente una sconfitta militare, ma è un complesso di circostanze in cui rientra la politica nell’immaginario dei combattenti. In questo caso non una frattura più immaginata che reale nei rapporti tra le classi sociali, ma una frattura e immaginata e reale a livello di nazionalità. L’analogia è possibile: per generazioni hanno ripetuto che l’elemento tedesco ha combattuto valorosamente, è vero ma significa confermare che, viceversa, gli slavi, gli italiani, le altre nazionalità a quel punto hanno preferito tirarsi fuori e risvegliarsi vincenti come parte dello Stato di riferimento di una nazionalità oppressa. Risale al 1848 la linea politica delle nazionalità oppresse all’interno dell’impero sovranazionale e l’Italia fa scuola. Mazzini è la bandiera dei risorgimenti non solo di Trento e Trieste ma degli sloveni, dei croati, dei ruteni, dei rumeni, dei polacchi. Ciascuna di queste nazionalità soggette all’interno dell’impero si era scavata una sua nicchia più o meno confortevole, gli ungheresi erano i secondi rispetto ai primi, quelli che parlano tedesco e ricoprono i ruoli fondamentali all’interno dello Stato. Hanno combattuto poco valorosamente i trentini e i triestini fin da principio, seppure allontanati dal fronte italiano, molto facilmente si davano prigionieri ai russi e poi nascono accordi politici che li restituiscono all’Italia. Noi isoliamo la questione di Trento e Trieste ma il discorso si può moltiplicare per le altre nazionalità. La battaglia di Vittorio Veneto è questo fenomeno disgregante di carattere etnico-nazionale che fa sì che nei territori in cui gli eserciti si toccano, i soldati provenienti da una certa matrice etnica combattano di più e altri di meno. Stiamo parlando degli ultimi giorni, ma stiamo parlando anche di un punto di arrivo di quattro anni di guerra, quindi di un logoramento delle volontà e delle convinzioni di stare insieme all’interno dell’impero, quello che era sin qui apparso a molti come il baluardo dell’ordine e della tradizione. E allora la nuova lettura è “perché devo affondare con la nave?” Affondino come è d’uso i comandanti della nave. La patria di un marinaio dalmata può essere o l’Italia o la Croazia ma non è l’impero, moltiplichiamo questo per centinaia e migliaia di volte. E’ almeno dal principio dell’ottobre del ’18 che sanno di perdere e l’elaborazione della sconfitta sarà diversa a seconda dei soggetti: se sei un austro-tedesco e fai parte della classe dirigente elabori la sconfitta in una diversa maniera di un italiano del Trentino, un triestino o un polacco. Il tentativo del governo imperiale è quello di non arrendersi all’Italia ma agli Stati Uniti. L’idea di arrendersi all’Italia è un rospo terribile, ovvio che l’Italia voglia esattamente questo, e poiché questo è il fronte italo-austriaco a questo si arriva. E naturalmente, come succede in tutti gli armistizi che non sono più atti militari ma sono atti politici che seguono i tempi e i modi della politica, gli italiani hanno tutto l’interesse di tirare per le lunghe. Il luogo d’incontro sarà nella villa Giusti alle porte di Padova, così gli austro-ungarici dovranno difficoltosamente attraversare un’ampia porzione di territorio. Naturalmente tutto è politica da una parte e dall’altra, allora gli italiani hanno cura di far partecipare alle trattative e mettere per traduttore il cognato di Battisti. Gli austriaci sono attenti a mettere in delegazione qualcuno con il cognome italiano, così da dimostrare quel che era, non tutti quelli che avevano il cognome italiano si sentivano portati a far la scelta di Cesare Battisti e di altri. Le scelte erano differenziate, il giudice migliore di cui poteva disporre l’Austria al tempo del Risorgimento era un trentino di Mori, vicino a Rovereto, il giudice Salvotti che è quello che inquisisce Silvio Pellico e gli altri carbonari. E’ bravissimo giuridicamente, ma tiene per l’Austria, la vita però è complicata e suo figlio si chiama Scipio ed è di sentimenti italiani. Finirà sotto processo ed è la nemesi. Ci sono delle linee di frattura che riguardano anche le famiglie, figuriamoci quando riguardano un esercito. A questo punto l’armistizio funziona rispetto agli scopi politici impliciti che aveva: è l’Italia che concede l’armistizio all’Austria-Ungheria ma alle sue condizioni, in sostanza si tratta di una resa. Dal punto di vista delle politiche della memoria è un po’ paradossale e fa parte delle malattie del noi italiani, che da generazioni siamo lì a ricordarci le centinaia e migliaia di prigionieri o di sbandati a Caporetto, mentre i più ignorano quante centinaia di migliaia di sbandati o di prigionieri hanno, analogamente, gli austro-ungarici a Vittorio Veneto. Come se non fosse un fenomeno analogo provocato da motivazioni differenti. D’Annunzio ha parlato di vittoria mutilata e lo faceva per sue ragioni ma c’è una visione ulteriore della vittoria mutilata, che è la reticenza, se non la negazione rispetto ai fatti. E i fatti sono che l’Italia ha vinto. Vergognarsi di essere entrati in guerra si può, discutiamone, ma vergognarsi dopo esserci entrati e avere vinto è una cosa che francamente non riesco a capire.
Per restare sull’argomento del rapporto degli italiani e la guerra, come spiega il misconoscimento di Vittorio Veneto, mentre il 25 aprile è vissuto come una festa?
Forse abbiamo qualche problema con gli armistizi. Nel 1918 fatichiamo a riconoscere la vittoria; nel 1943 fatichiamo a riconoscere la sconfitta. L’una e l’altra volta la cosa che sembra contare di più è che arrivi non la vittoria e non la sconfitta, ma la pace. Umanamente comprensibile, certo; ma in questo modo i bisogni e le propensioni dei soggetti sovrastano sulle sorti e il senso dell’insieme. (Ci può anche andar bene, e oggi, per molti – in tempi di crisi della politica e addirittura “fine della storia” – è certamente così.) Già alla fine del ’18 e per tutto il ’19 e ’20, le sinistre hanno sviluppato contro la guerra una battaglia d’arresto che avrebbero dovuto più opportunamente sviluppare nel ‘14-’15, prima che la guerra fosse cominciata. Invece fin dal principio c’è sostanzialmente un uso politico della guerra che, per una parte dei cittadini porterà a ciò che Mussolini avrebbe detto al re, quando lo aveva incaricato di formare il suo primo governo, e cioè “Maestà vi porto l’Italia di Vittorio Veneto”. Ma non stava scritto da nessuna parte che lo dicesse solo il capo del fascismo, che aveva molte buone ragioni visto che era stato uno dei capi dell’interventismo. Però c’era stato l’interventismo democratico, altri modi per dire sì alla guerra: Battisti, che non poteva più parlare, Salvemini o i giovani nuovi leader di quello che sarà tra poco Giustizia e Libertà e poi il Partito d’Azione. C’era chi proveniva dall’interventismo democratico, Bonomi, il luogotenente di Bissolati, diventa Presidente del Consiglio, è una pallida eco di Cesare Battisti ma ha la forza di diventare Presidente del Consiglio. Prima di dirne troppo male quando pensiamo alla sua Presidenza del Consiglio nel primo dopoguerra, ricordiamoci che quello stesso pallido Bonomi diventa il presidente del CLN nazionale e Presidente del Consiglio anche nella seconda guerra. Quindi vuol dire che il bigoncio delle sinistre, con tutte le mediazioni del caso, alla fin fine arrivava a spingersi verso il centro fino al punto di sperare di poter essere interpretato da un leader così pallido, come effettivamente era Bonomi. L’operazione del Milite Ignoto si svolge con Bonomi presidente del Consiglio, cioè un socialdemocratico, una specie di Bissolati meno pugnace e dalla storia sin qui meno importante, però lo diventa Bonomi, mai Bissolati e il suo ministro della guerra che è Gasparotto, altro interventista democratico. Ma torniamo ai complessi rapporti con la guerra e la vittoria. La cosa più facile è gettare la colpa sul fascismo, siccome il fascismo si è impadronito della guerra e della vittoria il post-fascismo e l’antifascismo hanno pensato bene di dover pensare male della guerra e anche della vittoria, pur di pensar male del fascismo. Un po’ paradossale perché contemporaneamente il fascismo veniva messo tra parentesi. E anche la guerra e la vittoria? Non del tutto, perché nella scuola l’unica presentazione legittima tornava ad essere la guerra di liberazione e Trento e Trieste, la quarta guerra di indipendenza nazionale, che non era tutto ma certamente era stata una parte. Questa parte diventa la chiave esclusiva di interpretazione fino agli anni ’40, ’50, ’60, fino a quando arriva la mia generazione di storici che pensa la guerra in altra maniera. Ma se le cose stanno così perché mettere la sordina alla vittoria? Si trattava di separarla dagli abusi interpretativi della cultura nazionalfascista e tornare a districare l’interventismo democratico alla Trento-Trieste dall’interventismo nazionalista e poi fascista, perché i fasci interventisti non sono mica fascisti, è una cosa più complicata. Non dimentichiamoci che “Il Popolo d’Italia” si dichiara quotidiano socialista fino al ’18 e questa è la bandiera sotto cui riparavano gli interventisti di sinistra. La redazione de “Il Popolo d’Italia” veniva da “l’Avanti”, o dal sindacalismo rivoluzionario o dall’anarchia, o dall’emancipazionalismo femminile, tipo Margherita Sarfatti, e non solo per ragioni d’amore. La domanda presuppone un’analogia con la festa nazionale del 25 aprile, ma questa in quale misura è sentita come tale? Diciamo da una parte della società politica che si richiama all’antifascismo e può riconoscersi nel 25 aprile come festa della Liberazione attiva, violenta. Ed ecco la violenza. Ma allora come si fa a mettere tra parentesi la violenza della Grande guerra, se il Risorgimento va bene e la Resistenza va bene? Sono stati fatti senza violenza o c’è una contraddizione? La contraddizione sta nel non voler rendersi conto che una buona parte della società italiana quella guerra l’ha voluta, avrà sbagliato ma mettiamola su di un altro piano. I neutralisti erano di più e fino all’ultimo anche in Parlamento. La sanatoria del voto del 20 maggio 1915 può convincere fino a un certo punto, però la votazione c’è stata. I neutralisti giolittiani e i cattolici si sono dissolti, i socialisti sono rimasti soli, sono una sessantina di voti, nel contesto del “maggio radioso”, cioè con la piazza sovversiva. La piazza è sovversiva nel nome della patria e della nazione, ma perché, il ’48 non era stato sovversivo? A Milano erano arrivati alle barricate e i Mille agli occhi dei moderati, dei conservatori e dei reazionari erano sovversivi. Si potrebbe dire “i contenuti specifici di questa sovversione, quella del ‘14-’15 non mi piacciono, anzi mi richiamano il ‘20-‘21-’22”. Ma c’erano anche i figli e i nipoti di Garibaldi e c’erano metà degli anarchici e una parte dei massimalisti. Nel contesto internazionale, le condizioni oggettive perché la pace vincesse in Italia nel ‘14-’15 chissà se c’erano davvero, forse c’erano nel contesto parlamentare, ma non so se c’erano nel contesto della piazza.
Cinque consigli di lettura per sfuggire agli stereotipi.
Non posso parlare della letteratura neutralista che non c’è stata, salvo ricordare Palazzeschi che ha scritto Due imperi … mancati subito dopo la guerra, ma non aveva avuto il coraggio di scriverlo prima. Nel ‘14-’15 Palazzeschi ha fatto il possibile per dissociarsi da Papini, Soffici, però alla fine non se l’è sentita di restare solo e si è avvicinato amicalmente agli interventisti. Due imperi … mancati è brutto letterariamente ma molto importante ideologicamente, non è facilissimo trovarlo ma si trova. Questo è il primo consiglio. E poi Viva Caporetto!, che è il titolo originario de La rivolta dei santi maledetti di Curzio Malaparte, ho curato io l’edizione nei tascabili trent’anni fa, ripristinando questo titolo scioccante che Malaparte aveva detto di aver dovuto togliere, altrimenti nel primo dopoguerra rompevano la vetrina ai librai. Se sia successo o meno non so, è sempre difficile capire quando Malaparte racconta frottole. Una cosa che può colpire i ragazzi, sin dal titolo ammiccante, è Diario di un imboscato di Attilio Frescura. Egli è un giornalista veneto, non un grande scrittore, che pubblica nel ’19, quindi subito dopo la fine della guerra. Frescura rispetto alla sua età non è un imboscato, era un territoriale, ha fatto anche di più di quello che avrebbe dovuto fare, ma all’epoca tutti erano l’imboscato di qualche altro rispetto a chi stava a combattere in trincea. E allora, giocando furbescamente sulla parola imboscato, si è messo un titolo che poi è diventato pesante da portare negli anni successivi. Quando il libro ha avuto fortuna è passato dalla libreria Galla di Vicenza – che è una libreria editrice di matrice cattolica ancora attiva – a Cappelli di Bologna, il quale è diventato il suo editore nella terza edizione del ’28. E’ stato tagliuzzato, mutilato, autore e editore hanno messo prefazioni, avvertenze per l’uso. Purtroppo nel secondo dopoguerra avanzato questi libri sono stati ripubblicati senza badare che stampavano l’edizione amputata. E questo è successo per Frescura, Malaparte e Carlo Salsa che nel ’24 aveva pubblicato Trincee. Salsa è cugino di Comisso ed è un famigliare del generale Tommaso Salsa. All’epoca era un tipo potente, per cui essere cugini di Salsa era comodo per Comisso, che era un grande opportunista. Salsa diventa il presidente della Siae, quindi è un intellettuale dell’organizzazione culturale che fa carriera nel regime fascista. Nel ’24 pubblica questo libro molto crudo, che in parte è ambientato in Altopiano, in parte nel Carso, e abbiamo finalmente la fanteria e non, come succede molto spesso, gli alpini, che ti raccontano una guerra magari dura però sempre meno anonima della guerra nel Carso o sul fronte occidentale. Il fatto che tanti dei libri di guerra sia nella prima che nella seconda siano stati scritti da alpini probabilmente ha a che fare con una maggiore tenuta dei vincoli umani all’interno della guerra degli alpini. Oltretutto i reparti alpini vengono dagli stessi paesi, dalle stesse valli, si conoscono, parlano lo stesso dialetto. Questo non succede altrove, se non nella brigata Sassari, perché altrove il reclutamento è nazionale. Forse per questo è più dicibile, più narrabile la guerra degli alpini, pensa a Scarpe al sole di Monelli. A scuola avranno già letto Un anno sull’altipiano e Il sergente nella neve, per la seconda guerra mondiale. I libri che ho suggerito prescindono da questi, supponendo che si conoscano e si leggano già. Dal punto di vista del valore letterario non c’è di meglio di Gadda. Gadda è il massimo con Lussu, e con Guerra del ’15 di Giani Stuparich, però con lui sono solo i primi due mesi di guerra, curioso che l’irredento, l’irredentista, il volontario di guerra, medaglia d’oro Giani Stuparich non ci abbia in maniera compiuta raccontato tutto il resto. Il diario non va oltre, sono solo i primi due mesi e ci pensa su fino al ’31, prima di stamparlo e lo aveva fatto precedere nel ’24 da Colloqui con mio fratello, che non suggerisco ai ragazzini. Lui si sente così solo che parla con un morto, il fratello si è ammazzato per non essere preso, perché come triestino se veniva riconosciuto veniva impiccato. Giani rischia, si fa due anni di campo di prigionia e non lo individuano. Nel ’41 ci sarà il romanzo Ritorneranno, bello e alle soglie della seconda guerra, per cui funziona un po’ da cerniera. C’è un terzetto di fratelli in una famiglia triestina, dove realisticamente il padre combatte con la divisa austro-ungarica, pur avendo tre figli volontari italiani. C’è una madre, una figlia e sorella e c’è un terzo personaggio femminile che è la domestica – la serva – non ricordo se è slovena o croata, comunque slava, affezionatissima. Però anche lei in tempo di guerra comincia a capire qualche cosa del rapporto tra i popoli, oltre che tra le classi sociali, per cui morde il freno. Il libro non è bellissimo però è molto importante, traguarda il primo dopoguerra. Due su tre dei ragazzi muoiono, il terzo diventa cieco e ha un attendente anarchico, questo è il rapporto tipico attraverso cui gli ufficialetti borghesi conoscono il popolo, l’attendente. Stuparich l’ha voluto addirittura anarchico per farla più difficile, questo non gli impedisce di essere affezionatissimo, se lo passano, man mano che muoiono diventa l’attendente di chi sopravvive. Per i ragazzi più attrezzati e le ragazze suggerisco due cose: una fascistona, Carmela Timeus, che era la sorella di Ruggero, il nazionalista che fa all’ultimo momento la pace con Scipio Slataper. Carmela è proprio la “ragazza di Trieste” tipica, infatti il suo diario si chiama Attendiamo le navi, cioè i triestini, gli uomini che da tutte e due le parti sono alla guerra. Le triestine vanno sulle rive ad aspettare la flotta italiana, i liberatori, finché arrivano sul molo Audace, dal nome del cacciatorpediniere. Carmela da irredentista nazionalista è rabbiosissima che ci fosse un unico giornale in italiano che può uscire e naturalmente è “Il lavoratore”, cioè il giornale socialista e per lei è la riprova che i socialisti aiutano gli austriaci. Dopo di che il suo diario diventa un libro. Anche questo è un libro Cappelli. L’altra donna, lo dico per le insegnanti e per le studentesse interessate alle dinamiche del femminile, è Elody o Elodì, se vogliamo pronunciarla alla tedesca o alla francese, è una delle tre “morose” di Slataper, una si suicida per lui, una la sposa e sarà la madre di Scipio II che muore nella seconda guerra. E cosa può fare una Elody, morto Scipio? Sposare Giani. Giani per tutta la vita fa il secondo, da tutti i punti di vista, pubblica tutti i libri di Scipio, è lui il superstite. Il matrimonio con Giani è andato a rotoli. Raggiunti i settant’anni Elody ha un’ultima amica, una albergatrice di Grado, Carmen Bernt – di nuovo i cognomi poco italiani per questi italianissimi d’elezione – e c’è questa amicizia telefonica e scrittoria tra due donne anziane che parlano del passato, soprattutto Elody parla del passato, delle tre ragazze e dei tre ragazzi. La città di Trieste come invenzione letteraria, cose su cui Magris ha scritto pagine memorabili. Trovo queste lettere bellissime e prendo contatto con Gabriella Ziani, che ne aveva curate alcune per la rivista “Belfagor”, e decidiamo di fare un libro che è stato pubblicato con il titolo L’ultima amica, con la mia introduzione.


