Ad memoriam – Flavio Bucci (1947-2020)

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: David Nieri
Fonte: Minima Cardiniana

di Franco Cardini

IN MEMORIAM
Flavio Bucci lo ricordiamo tutti. È stato un indimenticabile Ligabue, un formidabile prete-brigante della Campagna Romana nel Marchese del Grillo, accanto ad Alberto Sordi e non meno grande di lui. Certo, in un modo o nell’altro interpretava e qualche volta perfino satireggiava solo se stesso. Ma questo pare sia caratteristico di tutti gli artisti di cinema e di teatro: lo facevano anche Totò, Gassman e Tognazzi, per non parlar dei Mostri Sacri quali Sir Lawrence Olivier e Sir Alec Guinness. E poi dall’autobiografia non si scappa, qualunque cosa si faccia e qualunque mestiere si eserciti.
Flavio Bucci era tutto Genio e Sregolatezza, tutto Istinto e Immoralità. Immenso Istinto, sublime Immoralità. In questo basso mondo fatto di minima immoralia e di piccoli immoralisti che non vanno al di là del furto di galline e dell’onanismo esercitato in fretta quando mamma non vede, Flavio Bucci ci manca.

DAVID NIERI
FLAVIO BUCCI (1947-2020)
A suo modo, è stato un gigante. E quando i “grandi” se ne vanno – soprattutto in un’epoca, quella attuale, dove manca il cosiddetto “ricambio” – ci sentiamo un po’ più soli.
Flavio Bucci il mestiere di attore se l’era guadagnato a suon di sudore e gavetta; la sua scuola, il Teatro Stabile di Torino, dov’era nato da genitori di origini molisano-pugliesi, emigrati al nord in cerca di una vita migliore. All’inizio degli anni Settanta Elio Petri lo notò e, senza esitare, lo mise sotto contratto: La classe operaia va in paradiso (1971) e La proprietà non è più un furto (1973) diventeranno, nel corso degli anni, due pietre miliari nella storia del nostro cinema. Genio e sregolatezza, carattere difficile, Bucci compì il grande passo grazie alla televisione e alla straordinaria stagione degli sceneggiati. Fu Salvatore Nocita a offrigli la grande occasione cucendogli addosso i panni (scomodi) di Antonio Ligabue: un’interpretazione magistrale che, nel 1977, lo consacrò definitivamente. Ligabue, ovviamente con le dovute differenze, somiglia un po’ al Pinocchio di Luigi Comencini: un’alchimia perfetta di regia, fotografia, sceneggiatura, musica – nel caso in questione, di Armando Trovajoli – e interpreti contribuì a rendere queste due opere immortali e inarrivabili. Certo, Bucci doveva condividere intimamente più di qualcosa con il “Toni” pittore; quel tratto un po’ naïf e ingenuo unito, al tempo stesso, a un’incredibile capacità di rappresentare l’ignoto, la forza e la violenza della natura che spesso riusciva a placare il suo turbinìo interiore. Fu perfetto, in tutti i sensi: i panni scomodi gli calzarono a pennello.
Quando si pensa a Bucci, è proprio quella meravigliosa interpretazione a contraddistinguerne – più delle altre – lo spessore, anche se il grande Flavio non è stato solo Ligabue, né tantomeno un “semplice” attore, ma anche un grandissimo interprete di teatro e un doppiatore eccelso. In pochi probabilmente sanno che è sua la voce del Tony Manero (John Travolta) de La febbre del sabato sera (e quella del Travolta di Grease nel suo primo doppiaggio); oppure la voce di Anson Williams (“Potsie”) nelle prime due stagioni di Happy Days. E come dimenticare il prete ribelle e brigante – Don Bastiano – ne Il marchese del Grillo di Mario Monicelli: la scena del patibolo è uno dei momenti più alti della commedia italiana.
La sua vita privata, decisamente burrascosa, può essere perfettamente riassunta in due frasi tratte da una recente intervista al “Corriere della Sera”: “In teatro sono arrivato a guadagnare anche due milioni di lire al giorno. Ho speso tutto in vodka e cocaina, solo di polvere avrò bruciato 7 miliardi, mi sparavo 5 grammi al giorno. Poi scarpe e cravatte che non mettevo mai. E le donne, anche se per loro non così tanto, me la davano gratis […] Io non mi pento di niente, ho amato, ho riso, ho vissuto. Mi chiedono spesso se l’alcol mi ha distrutto. Ubriacarsi è bellissimo, al di là dei discorsi di morale, che io non ho. E poi cos’è che fa bene? Lavorare dalla mattina alla sera per arricchire qualcun altro?”.
Gli ultimi anni della sua vita, Flavio li ha trascorsi in una casa famiglia a Passoscuro, a due passi da Fregene, ridotto in povertà. Strano destino, il suo, seppur “condiviso” da molti altri artisti dotati di una luce particolare, che impedisce di scendere a compromessi con la quotidianità.
Personalmente, mi sento di annoverarlo tra i grandi, anche se forse non basta. Il suo è un posto riservato ai maestri di un’epoca forse irripetibile, quando nell’arte riluceva una forza magica che le consentiva di rappresentare l’universale nel particolare; quando la cultura popolare era ancora degna di chiamarsi tale e chi la proponeva non esitava a farsi beffe del potere e del perbenismo ipocrita di una società ormai diventata “del benessere”.
Oggi la “cultura di massa” col potere sembra andare d’accordissimo. E il politicamente corretto ne traccia quasi sempre i contorni. Anche per questo, la vita spericolata di Flavio Bucci ci mancherà molto.

Pubblicato in MC
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