Amazon, lo sfruttamento con il sorriso

per Gabriella

da www.ilmanifesto.it 13 dicembre 2013

  Intervista. «En Amazonie. Un infiltrato nel migliore dei mondi»: il giornalista e scrittore Jean-Baptiste Malet racconta le tremende condizioni lavorative del gigante del commercio online che ha provato sulla sua stessa pelle. «Percorrevo oltre 20km a notte tra gli enormi scaffali».

La logi­stica è dive­nuto il set­tore pro­dut­tivo più stra­te­gico per il pro­fitto delle grandi mul­ti­na­zio­nali. La mobi­lità del capi­tale, non solo nella sua acce­zione finan­zia­ria ma nei ter­mini di tra­sporto su gomma, è il campo in cui si sta gio­cando la nuova par­tita degli imperi eco­no­mici. Rispetto alle forme clas­si­che del lavoro, così come le abbiamo cono­sciute nella seconda metà del secolo scorso, oggi la pro­du­zione viene costan­te­mente delo­ca­liz­zata: infrange con­fini e assolda nuovi schiavi del mer­cato, caval­cando ine­so­ra­bile verso est. Ato­mizza, aliena e sfrutta. Nono­stante i sor­risi dei mana­ger, le favole sull’economia buona ma malata e l’accattivante sim­pa­tia di cui sem­brano godere oggi alcune nuove potenze com­mer­ciali.

Come Ama­zon. «Il sor­riso sulle sca­tole di Ama­zon non è certo quello di chi ci lavora, nono­stante uno dei must dell’azienda sia pro­prio quello di inse­rire i suoi dipen­denti in una socia­lità arti­fi­ciale, fatta di regole, codici e senso di appar­te­nenza: la solita lita­nia dell’essere una “grande fami­glia”».

Ama­zon non è però solo un’azienda: «è un sistema di pro­du­zione unico», afferma Jean-Baptiste Malet, gio­vane repor­ter fran­cese in Ita­lia per pre­sen­tare il suo libro En Ama­zo­nie. Un infil­trato nel “migliore dei mondi” (Kogoi Edi­zioni).

L’incontro è avve­nuto durante la fiera della pic­cola edi­toria a Roma. Oggetto dell’intervista è stato l’universo cono­sciuto durante la sua inchie­sta: una pre­ziosa testi­mo­nianza rico­struita dopo essersi fatto assu­mere (tra­mite agen­zia inte­ri­nale) dal colosso dell’«e-commerce» durante le festi­vità nata­li­zie dello scorso anno.

«Sono stati 3 mesi molto intensi. Facevo il pic­ker nel turno di notte, 8 ore con due pause da 20 minuti; per­cor­revo oltre 20km a notte tra gli enormi scaf­fali dell’han­gar di Mon­té­li­mar, nel dipar­ti­mento della Drôme. Ma il pro­blema reale non era solo la stan­chezza. Era riu­scire a man­te­nere i livelli di pro­dut­ti­vità richiesti».

Inu­tile dire che il libro di Malet, iro­nia della sorte, si trova anche su Ama­zon. Nulla di strano a pen­sarci bene: l’economia glo­bale inghiotte ogni pro­dotto, anche quelli che la cri­ti­cano. Para­fra­sando Hum­ph­rey Bogart nella cele­bre pel­li­cola di Richard Brooks L’ultima minac­cia, «è il capi­ta­li­smo, bel­lezza. Il capi­ta­li­smo! E tu non puoi farci niente. Niente».

Ama­zon si com­piace di offrire la pos­si­bi­lità ai suoi utenti di acqui­stare como­da­mente con pochi click. Cosa c’è die­tro lo schermo? Un’organizzazione del lavoro altret­tanto digitalizzata?

Il sito di Ama­zon è il fiore all’occhiello del pro­getto. Quello che è dif­fi­cile com­pren­dere dall’interfaccia è che quella è l’unica com­po­nente infor­ma­tiz­zata. Lo stoc­cag­gio, il carico e l’imballaggio di ogni pro­dotto è affi­dato alla fatica di chi ci lavora: mani che spo­stano, brac­cia che alzano e gambe che tra­spor­tano. Nes­suna crea­zione robo­tica.

Nei suoi sta­bi­li­menti il mas­simo dell’informatica pre­sente sono i tor­nelli dove si tim­bra il pro­prio badge, i car­relli e i ripe­ti­tori wifi che ci fis­sano dalle alte scaf­fa­la­ture su cui viene sti­pata la merce. Cam­mi­nando in un han­gar di Ama­zon ci si accorge che l’unica mac­china com­plessa che ci lavora è l’uomo.

Ama­zon viene pre­sen­tato come un nuovo modello pro­dut­tivo. È così?

Ama­zon uti­lizza in modo nuovo vec­chi modelli di gestione della pro­du­zione, tipici del XX secolo. Ma i poli indu­striali del Nove­cento, sep­pur legati a un’idea di mas­si­miz­za­zione del pro­fitto, per­met­te­vano ai dipen­denti un’autonomia rela­zio­nale, un’autogestione dei rap­porti per­so­nali. In Ama­zon que­sto non accade, anzi; c’è un forte con­trollo, inva­sivo, sia rispetto ai rap­porti per­so­nali che alla per­for­mance lavo­ra­tiva dei dipen­denti. Per­sino ai mana­ger non è richie­sta la loro effet­tiva pro­fes­sio­na­lità, la loro spe­ci­fica com­pe­tenza, ma uno sforzo con­giunto per con­trol­lare i livelli di pro­dut­ti­vità dei lavo­ra­tori subor­di­nati. Il lavoro e le intel­li­genze delle per­sone ven­gono sacri­fi­cati sull’altare della pro­dut­ti­vità e del con­trollo di que­sta pro­dut­ti­vità. Da que­sto punto di vista Ama­zon ha cam­biato la tra­di­zio­nale forma del lavoro.

Ma il punto forte di Ama­zon è la pre­ca­rietà dif­fusa. Inol­tre, apre i suoi sta­bi­li­menti in zone logi­sti­ca­mente ben ser­vite, ovvero è neces­sa­rio essere in pros­si­mità di una rete stra­dale efficiente. La zona indi­vi­duata deve inol­tre regi­strare un alto tasso di disoc­cu­pa­zione. Mag­giore è il tasso di disoc­cu­pa­zione, mag­giore è la con­cor­renza tra i lavo­ra­tori e minore il sala­rio di base. Infine, come le altre grandi mul­ti­na­zio­nali, sfrutta la bolla finan­zia­ria che ha ter­re­mo­tato l’economia glo­bale. Nei primi anni Ama­zon non gene­rava pro­fitti di rilievo, poi­ché si carat­te­riz­zava come inter­me­dia­rio di com­mer­cio e non come pro­dut­tore. Nono­stante ciò gli squali della finanza scel­sero di inve­stire sulle sue azioni.

Per­ché?

Il motivo è che anno dopo anno, spe­di­zione dopo spe­di­zione, il sistema Ama­zon stava distrug­gendo il pic­colo com­mer­cio indipendente.

Un esem­pio, dun­que, della «distru­zione crea­trice» cara a Schumpeter?

Sì. Chi inve­stiva sulle azioni di Ama­zon sapeva che una nuova eco­no­mia come quella avrebbe fago­ci­tato le reti com­mer­ciali di pros­si­mità nel giro di pochi anni, il che avrebbe per­messo all’impresa di Jeff Bezos di ope­rare, in un futuro molto pros­simo, in con­di­zione di asso­luto mono­po­lio.

Senza la Borsa, senza Wall Street, senza gli spe­cu­la­tori finan­ziari, Ama­zon sarebbe fal­lita nel giro di pochi anni.

Nella tua inchie­sta parli di un accu­rato mec­ca­ni­smo di con­trollo (che arriva a disporre anche di nume­rosi vigi­lan­tes) teso a svi­lup­pare nei lavo­ra­tori la con­vin­zione di essere ele­menti inter pares della fami­glia Amazon.…

È così. Il sistema di inte­gra­zione stu­diato da Ama­zon, e rias­sunto nel motto «work hard, have fun, make history» (lavora duro, sarai pre­miato, stai facendo la sto­ria), si muove lungo un dop­pio bina­rio. Da un lato il cosid­detto have fun, ovvero la pos­si­bi­lità per l’azienda di orga­niz­zare gra­tui­ta­mente la vita sociale dei dipen­denti den­tro lo sta­bi­li­mento, ren­dendo vana, inu­tile e costosa la pos­si­bi­lità di autor­ga­niz­zarla fuori dall’han­gar. Non tutti i lavo­ra­tori ne sono amma­liati, ma tutti usu­frui­scono di que­ste tro­vate: regali durante le festi­vità, spet­ta­coli, ini­zia­tive a sor­presa all’uscita dal turno, con­corsi interni e rico­no­sci­menti pub­blici per la bra­vura lavo­ra­tiva. Tutti orpelli che devono sal­dare la fedeltà del lavo­ra­tore all’azienda, spin­gen­dolo a dare il mas­simo in ter­mini di pro­dut­ti­vità. D‘altro canto, se non dovesse bastare la sud­di­tanza psi­co­lo­gica a «pla­smare» il lavo­ra­tore, la pre­senza del con­trollo diviene tan­gi­bile, mate­ria­liz­zan­dosi nelle per­qui­si­zioni cam­pio­na­rie ai lavo­ra­tori (per pos­si­bile tac­cheg­gio!), nell’essere trat­tato con sprez­zante fred­dezza dalla vigi­lanza, nel sen­tirsi pen­dere sul capo la spada di Damo­cle del con­trollo aziendale.

Quale com­po­si­zione sociale lavora tra gli scaffali?

In Fran­cia, dove ci sono 4 sta­bi­li­menti, ho avuto modo di cono­scere solo quanto avve­niva in quello di Mon­té­li­mar. In gene­rale posso dire che la situa­zione fran­cese è assai dif­fe­rente ad esem­pio da quella tede­sca, per­ché non c’è un cri­te­rio d’assunzione iden­tico per i diversi paesi. Men­tre in Ger­ma­nia lavo­rano in mag­gio­ranza gio­vani di diverse nazio­na­lità (per lo più greci, spa­gnoli, por­to­ghesi e tur­chi) e c’è una forte richie­sta di mano­do­pera (9 sta­bi­li­menti), in Fran­cia la mag­gior parte dei lavo­ra­tori sono gio­vani fran­cesi che hanno tra i 25 e i 30 anni. In par­ti­co­lare, per ciò che con­cerne lo sta­bi­li­mento di Mon­té­li­mar, i migranti sono pochi (e per lo più magh­re­bini); forse anche per­ché la zona della Drôme non ha un’economia così fio­rente e, tro­van­dosi nel cuore della Fran­cia, non è un pas­sag­gio tran­si­to­rio dei flussi migratori.

Samir Hassan

Fonte: www.ilmanifesto.it

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