Apologia della frittata

per Gian Franco Ferraris

da Fondazione Pintor   di Sandro Medici 15 giugno 2014

Quel che si profila per la sinistra italiana è l’avvio di un cammino, di un nuovo cammino: forse lungo forse no, di certo non agevole ma neanche impossibile. C’è da attraversare un vero e proprio deserto, contrappuntato da ruderi e macerie. Quell’insieme di sconfitte politiche e malintesi culturali, revisionismi non solo teorici ma anche maledettamente pratici, derive elitarie, narcisismi e feticismi vari, riflussi identitari e perfino tentazioni populiste, quel groviglio di errori oggettivi e soggettivi che hanno insomma malinconicamente connotato gli ultimi anni della nostra esperienza. Senza voler attenuare le diverse responsabilità, il loro peso e il loro spessore, un po’ tutti siamo e ci sentiamo partecipi di questo tormentato dissesto e un po’ tutti siamo qui a lamentarcene.

Ma che si potesse tornare a sperare in un “nuovo inizio”, che si potesse avere un’alternativa tra un infelice abbandono o la rassegnazione a un realismo opaco e meschino, non era per nulla scontato. Dopo il voto europeo di fine maggio è di nuovo possibile sentirsi abbastanza apocalittici da rifiutare un destino da integrati. E’ poco più di una manifestazione di esistenza in vita, quel quattrozerotre ottenuto dalla lista Tsipras. Ma per il modo con cui è stato raggiunto, per le condizioni in cui si è svolta la campagna elettorale e, soprattutto, per il voluminoso risucchio di cui ha beneficiato il Pd di Matteo Renzi, che avrebbe potuto inghiottirci o anche solo stordirci, è un risultato politico molto promettente e potenzialmente espansivo. Si tratta ora di capitalizzare politicamente questo (inaspettato?) successo. E se appare facile convenire su tale necessità, più difficile, molto più difficile diventa immaginare, prefigurare come realizzarla.

A un primo sguardo, quel milione e passa di voti che si sono riversati sulla nostra lista rappresenta la quota minima di consapevolezza politica verso cui la sinistra, pur tra incertezze ed esitazioni, continua a suscitare un sentimento di fiducia. Ma è solo una porzione, peraltro esigua, di una vastissima platea sociale sempre più incline a esprimersi e porsi criticamente sullo stato delle cose, sulle politiche antipopolari, sul dominio finanziario, sulla negazione dei diritti, sull’inarrestabile corruzione pubblica, sugli intenti autoritari e sull’intero armamentario neoliberista. Una platea che non si rivolge verso di noi, non più, non ancora, ma chiede e a volte sceglie altri approdi. Ciò succede per tante ragioni: buone o cattive che siano, depositano in ogni caso un amarissimo esito. Cioè, non risultiamo (non siamo) credibili.

Non tanto nel merito dei nostri argomenti e delle nostre proposte, quanto nella nostra rappresentazione (anche fisica: gli esausti gruppi dirigenti), nella conformazione estenuata e anche un po’ trista, nel linguaggio ripetitivo, ormai di maniera, in quell’offrirsi come depositari di verità, perfino presuntuosi e irritanti. C’è in noi un attardarsi in vecchi e ormai inefficaci stili di comportamento, che ci fanno apparire estranei al sentire comune: a volte anche apprezzati ma sicuramente scollegati dalla relazione sentimentale con le persone. Si vuol per caso sostenere che il nostro problema è dunque solo d’immagine, di comunicazione, di apparenza, di visibilità? Certo che no. E’ che il nostro appesantimento culturale è insieme causa ed effetto della difficoltà a connetterci con l’area sociale vasta. Se le parole che usiamo parlano a noi stessi e poco più, se non intercettano nuove attenzioni e curiosità, è perché noi per primi ci sentiamo un ridotto politico: nobilissimo ma pur sempre un ridotto. Se il nostro metodo di rappresentanza politica continua e replicare vecchie formule sfiorite, diplomatismi oligarchici, malintesi egemonismi, cooptazioni e logiche tribali appariremo sempre come un cenacolo di politici intellettuali o intellettuali politici, peraltro litigiosi e dispettosi gli uni verso gli altri.

Non credo sia necessario, al di là dell’esito finale, ricordare come sia stata maldestramente gestita la girandola dei seggi nel parlamento europeo. Dovremmo dunque indebolire la nostra impronta, il nostro messaggio, per meglio raggiungere le coscienze inquiete che potenzialmente sono alla nostra portata, le tante persone di sinistra e le tantissime che non sanno di esserlo? Dovremmo scivolare lungo il crinale minimalista e scarnificato con cui oggi si declinano i temi politici, limitandoci a sillabare qualche frammento semplificato per non sovraccaricare la nostra comunicazione? Dovremmo rapidamente scegliere tra noi l’incarnazione unica e assoluta di un leader, a cui affidarsi e in cui riconoscersi, e poi buttarlo al centro dell’agone politico affinché si misuri con duelli e certami? Direi proprio di no. Non solo non ne saremmo capaci (non più di tanto), ma soprattutto contraddiremmo quei principi fondanti della nostra diversità. Al contrario di tutti gli altri, per noi la dimensione collettiva, partecipata e condivisa resta centrale nella gestione politica e istintivamente diffidiamo di ogni forma di patriarcato.

E poi abbiamo bisogno di raccontare, descrivere, analizzare questo squallido reale, di spingere la critica e costruire consapevolezza, di orecchie che ascoltino e occhi che vedano. Soprattutto in un contesto sociale e culturale regressivo e disattento, com’è attualmente ridotto il nostro paese. Pasolini diceva che la sinistra era un mondo colto in un mondo ignorante. Quando all’alba degli anni venti gli operai della Fiat andarono nella redazione dell’Ordine nuovo, per lamentarsi dell’eccessiva difficoltà che incontravano nel leggere gli articoli, Gramsci li ascoltò a lungo e infine rispose: “Compagni, dovete studiare”. Forse oggi non risponderemmo allo stesso modo, ma quel bisogno di spiegare la complessità è lo stesso di allora. Né, com’era un secolo fa, ci può soccorrere quel formidabile ma ingannevole strumento della grammatica ideologica, dell’indiscutibilità del dogma, che per lungo tempo hanno agito come collante identitario e cementato le relazioni politiche.

Come dunque procedere? E’ una domanda troppo secca per ricevere una risposta altrettanto secca. Più in là, forse, saremmo in grado di approssimarcene. Ma c’è tuttavia un intanto che va percorso e vissuto: dal quale, peraltro, dipenderanno anche i futuri destini del nostro progetto. Allora, siamo tutti persuasi (e d’accordo) che si debba transitare lungo un processo di aggregazione politica, in cui sperimentare e collaudare nuove forme, nuove pratiche e (non ultimo) nuovi linguaggi. Per prima cosa, pertanto, ci sarebbe da superare, anzi esaurire quelle vecchi. Non nell’immediato, s’intende: sarebbe troppo traumatico e si andrebbe incontro a resistenze forse insormontabili. Ma in un tempo necessario e con l’adeguata convinzione, così dovrà avvenire, lungo una transizione che va aiutata senza rimpianti né settarismi, senza nostalgie né recriminazioni. In parallelo si svilupperà un altro ambito di confronto e attivismo politico, in cui si misceleranno le varie sensibilità, che via via s’impegneranno in quel che insieme si deciderà di fare. Riguarda il consolidamento dell’ambito orizzontale del progetto: e cioè la costruzione nel vivo di questa nuova soggettività. Da realizzare certo a partire da quel che finora è stato parte del progetto, garanti, candidati e comitati locali, al di là dei loro profili e consistenze, ma soprattutto aprendo porte e finestre nell’intento di diventare accoglienti e inclusivi, attraenti e magnetici.

Se insomma questa embrionale soggettività si arricchisce della presenza e del conforto di nuove realtà, di chi guarda (ha guardato) con interesse e simpatia quest’avventura, considerandola uno spazio politico “garantista”, in cui potrebbe essere utile (e piacevole) partecipare, nei modi e nei tempi che ciascuno o ciascuna riterrà. E dove soprattutto sia possibile contribuire a migliorarla, connotarla, definirla e farlo crescere. Non sfugge a nessuno, per il futuro prosieguo, quanto sarà importante poter presto (subito) contare su chi finora non si è sentito né coinvolto né partecipe della nostra proposta. Tutta questa felice densità di esperienze, sensibilità, profili, questo gran meticciato politico, dovranno poi depositarsi con attenzione ed equilibrio. Di sicuro troveranno accoglienza in quelle preesistenze territoriali che sono i comitati elettorali (ex).

Comitati che via via sempre più arricchiti e frequentati non devono e non possono restare in attesa di quanto si prospetterà, ma, al contrario, devono agire “come se”. Come se già fossero le articolazioni locali di quel che poi verrà avviato sul piano generale. Si devono insomma prendere sul serio e proporsi come matrice, come modello del futuro movimento. Allungando lo sguardo e allargando il respiro. Assumere cioè una propria soggettività attraverso la pratica politica, collaudandosi come un vero e proprio laboratorio, sperimentando nuove forme di comunicazione e dialogo sociale e cercando di produrre un rinnovato immaginario culturale e politico. Organizzando iniziative, promuovendo battaglie, partecipando a campagne e vertenze: ricostruendo insomma senso e ragioni; e dunque inventandosi nuove attività, liberando la creatività, trasmettendo suggestioni positive, suscitando speranze, alimentando tensioni ideali. E, dove possibile, conseguendo risultati. Con l’obiettivo di trasformarsi nel concreto in quel che poi sarà: e così costringendo anche le componenti più restie all’integrazione e più inclini ai tradizionali metodi negoziali a misurarsi con qualcosa che già vive e procede. Anche lasciandosi attraversare senza reticenze o pudori da discussioni e confronti, scontando inevitabilmente contrasti e contraddizioni. Ma misurandosi soprattutto nella conduzione fisica del progetto, che per sua natura, per l’assillo che comporta il dover fare, il dover agire, aiuta a stemperare attriti e incomprensioni, favorisce l’incontro e nutre le relazioni, lima gli spigoli e spolvera i cassetti. Una nuova soggettività si costruisce costruendola, tuffandosi nel gorgo, non restando in attesa che qualcuno (e poi chi mai oggi possiede tanta autorevolezza?) spieghi il come e il perché, e indichi la via. Con tutta l’energia della volontà politica e tutto il trasporto dell’eccitazione sentimentale. E’ una costruzione “che spezza le vene delle mani e mescola il sangue col sudore”, direbbe il poeta (Ivano Fossati, in questo caso). E’ come se fossimo tanti elementi, tante sostanze che si ritrovano in un laboratorio, alcuni più ossidati, altri in purezza, altri ancora radioattivi. Per trovare il combinato disposto stabile ed efficace si deve provare e riprovare, aggiungendo qua, sottraendo là, depurando dove necessario, decontaminando se possibile. Fino a raggiungere un equilibrio, magari provvisorio e temporaneo, per poi ricominciare a cercare nuove stabilizzazioni, nuovi consolidati. E così via, così via, così via.

Non per riferirsi a modelli di altre latitudini e altre dimensioni, ma è esattamente come stanno cercando di fare le sinistre sudamericane con le loro coalizioni sociali, in Grecia i compagni e le compagne con Syriza, in Messico il movimento zapatista e perfino i movimenti hezbollah in Medio Oriente. Uscendo da vecchie configurazioni e modalità, per rinnovarsi in nuovi contesti più promettenti e suggestivi. E soprattutto scavalcando quelle paratie che tradizionalmente separano il politico dal sociale, la teoria dalla prassi, il pensare dall’agire, il dire dal fare. A questo punto è inutile e lezioso girarci intorno. Dobbiamo rinunciare a quelle parti di sé in via di deperimento e rischiare altri sé, incerti ma affascinanti. Lasciando chiusa in un armadio, come ricorda un altro poeta, Paolo Conte, la propria “valigia di perplessità”. Non c’è da abbandonare bandiere né da incrinare identità. Ognuno, se ritiene, se le può portare dietro (o dentro). Ma c’è da lasciarle sull’uscio o custodirle nel proprio angolo dei ricordi. Cambiare pelle, insomma: come fanno i rettili; cosa che per noi mammiferi non è così immediata, e che pertanto ci costringerà a una stravolgente e benefica trasfigurazione.  

Ps. Immagino abbiate presente la frittata. Quella pietanza assai gustosa, che tuttavia non sempre si riesce a prepararla bene, poiché corre permanentemente il rischio di non garantire tutta la potenzialità estetica e gustativa che potrebbe esprimere. Ecco, il problema di questo nuovo progetto politico è quello di cucinare una buona frittata. Mi scuso per l’irriverente analogia, ma credo sia innegabile che questa buona frittata dipenda da come viene realizzata, dall’attenzione e la cura che si applicano durante il ciclo manifatturiero. Ma ancor di più dagli ingredienti, dalla materia prima che vengono usati per assemblarla, dall’equilibrio e dall’armonia con cui vengono dosati. Non conosco modo migliore per cucinare frittate. Né per avviare la fase costituente di un nuovo soggetto politico.    

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