Cacciari: “L’Europa si ripensi se non vuole sparire”

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Massimo Cacciari
Fonte: La stampa

Cacciari: “L’Europa si ripensi se non vuole sparire”

Partiti e coalizioni sfaldate se non sbriciolate si avviano alle elezioni europee. Le forze che si richiamano alle antiche sinistre tengono, bene o male, soltanto in Germania. La destra è ancora più profondamente divisa tra un Centro che vorrebbe aggregarsi a settori dei liberali e popolari-Cdu e, dall’altra parte, correnti nazionaliste-sovraniste il cui successo metterebbe oggettivamente in crisi gli equilibri che hanno retto finora il governo dell’Unione. Da questo punto di vista le difficoltà della destra hanno una valenza più strategica di quelle dei suoi avversari, ma è ben difficile che esse possano clamorosamente emergere fino a portare a una spaccatura prima del voto. Il “compromesso storico” socialdemocratico-liberale-popolare supererà, allora, la prova dei numeri? La realtà è che le ragioni a fondamento delle antiche “famiglie” politiche europee sono venute meno a causa dei traumi continui degli ultimi vent’anni. Si sono formate nuove “tribù” e i cittadini europei ritengono a grande maggioranza che nessuna di esse sia in grado di risolvere le stesse crisi che le hanno generate: panico pandemico, crollo di fiducia nel futuro, immigrazione e ora le guerre.

Un salto d’epoca s’impone, e nessuno sembra volerlo affrontare ponendosi la domanda decisiva. Quale ruolo potrà giocare l’Europa sul piano globale? Può ancora presumere di averne? È sul significato geo-politico del continente che ha senso decidere e magari dividersi, non intorno a categorie politiche eredi delle “guerre civili” del XX secolo. Come ridare peso politico all’Unione, sulla base della più realistica coscienza dei suoi limiti economici, strategici e militari? L’Europa, in tutti i suoi Stati, ha vitale interesse a contrastare ogni velleità egemonica, a un equilibrio globale policentrico, a costituire il tavolo della mediazione e del dialogo, a cercare di “lavorare” anche i contrasti dalle radici storico-culturali più profonde. Non mi appello a correnti pur proprie della nostra cultura, che hanno sempre lottato per evitare il clash tra le civiltà.

Mi appello alla semplice “ragione calcolante”: l’Europa non può difendere il proprio “Stato sociale” che in condizioni di libero scambio, di interconnessione a 360° tra i grandi spazi del pianeta. Ciò non significa affatto mettere in discussione alleanze storiche, ma anzi volerle assicurare, agire per il loro rafforzamento nell’età nuova che si apre. Un Dio ci vuol perdere se non vediamo che l’Occidente oggi, dopo essersi “globalizzato” dal punto di vista del sistema economico, non può in alcun modo pretendere a una egemonia politica. L’Occidente europeo, Gran Bretagna in testa, è stato egemone fino alla prima Grande Guerra; l’Occidente americano è emerso da allora in tale funzione e con il crollo dell’Urss sembrava giunto alla sua piena affermazione. Da quel momento il ciclo è invece radicalmente mutato. E potrebbe invertirsi. Il “grande spazio” dell’Occidente deve comprenderlo se vuole non solo difendersi, ma essere di nuovo veramente attrattivo per altri popoli e culture (attrazione che non ha nulla a che fare con quella che esercitano le nostre economie nei confronti dei poveri del mondo).

Alla crescita di questi soggetti, Cina e India in primis, fanno riscontro le grandi, evidenti difficoltà, culturali e istituzionali, dell’America, dove se le cose non cambieranno per via giudiziaria (ma problemi giudiziari gravano anche su Biden) vincerà Trump e comunque si andrà a un confronto tra due maschi in età senile, quale mai si è visto in una competizione democratica. Se questo non è simbolo di decadenza, difficile immaginarne un altro. Un contraccolpo va prodotto, ed è l’Europa che dovrebbe volerlo con tutte le sue forze.

Un contraccolpo andrebbe prodotto anche a casa nostra. Se non si riformano i meccanismi amministrativo-istituzionali che bloccano da decenni le nostre possibilità di sviluppo, se non si riducono drasticamente i costi della stessa inefficienza del nostro sistema, non potremo nei prossimi anni stare nei binari del patto di stabilità, se non tagliando ulteriormente sulla spesa sociale. Nessuna forza politica ci indica dove e come ottenere le risorse necessarie per non aumentare il debito (che giungerà quest’anno al 143% del Pil) mantenendo tuttavia un Welfare decente. E per forza, dal momento che nessuna osa parlare di politiche fiscali, se non ripetendo le une il mantra della lotta all’evasione e le altre, assai peggio, addirittura il demagogico inganno di una possibile riduzione delle imposte. Così come nessuna indica con chiarezza dove tagliare le spese per gli apparati e organismi statali e para-statali, e nessuna denuncia il dramma delle nostre politiche industriali, tanto lungimiranti da giungere a vendere un pezzo di Eni per operazioni di salvataggio a brevissimo periodo, anzi: a scadenza elettorale.

Tra elezioni europee e elezioni americane (e anche le vicende patrie dipenderanno in grande misura dal loro esito) è un bivio che si apre: o le democrazie dell’Occidente si mostreranno capaci di guidare a nuovi patti tra i grandi spazi politici del globo e operare concretamente per la soluzione delle guerre in atto, oppure potranno alla fine reggere alla propria crisi e alle proprie interne contraddizioni soltanto istituzionalizzando politiche di emergenza. Soltanto un regime di perenne emergenza, fondato sui decreti dell’Esecutivo, può far passare nei nostri sistemi sociali il progressivo svuotamento delle politiche di Welfare, l’impoverimento di interi settori di ceto medio, il mix di aumento di spesa militare e riduzione di spesa sanitaria. Esistono ancora nella cultura politica europea gli anticorpi necessari per contrastare e rovesciare questo processo? Non dovremo attendere i posteri per saperlo, basteranno le prossime elezioni.

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