Che buono il cuscussù

per Luca Billi
Autore originale del testo: Luca Billi
Fonte: i pensieri di Protagora...
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di Luca Billi, 15 ottobre 2018
Mi perdonerà il Manzoni se considero un po’ sopravvalutato il suo contributo alla formazione dell’identità linguistica italiana. Se c’è un libro che è entrato davvero in tutte le case, che è stato letto e riletto dalle donne che stavano facendo l’Italia e gli italiani, non è l’edificante romanzo del nostro “gran lombardo”, una storia d’amore in cui i protagonisti non si baciano mai – figurarsi far altro – ma il ben più utile manuale scritto dal romagnolo Pellegrino Artusi. “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” con in appendice – invece della Colonna infame – “La cucina per gli stomachi deboli” è il vero testo dell’unità italiana.
Sono, come ben sapete, settecentonovanta ricette, che rappresentano la summa della nostra cucina. Tra queste – è la ricetta n° 46, controllate pure nell’edizione di vostra madre o di vostra nonna, che certamente hanno avuto questo libro – c’è il cuscussù. A onor del vero Artusi dice che “non è piatto da fargli grandi feste”, che quindi lui non amava molto – il nostro è pur sempre un sanguigno figlio della Romagna e i suoi gusti lo tradiscono. Eppure ha voluto provare nella sua cucina – con l’aiuto della fedele e immancabile Marietta, suppongo – “questo piatto di origine araba che i discendenti di Mosè e di Giacobbe hanno, nelle loro peregrinazioni, portato in giro pel mondo, ma chi sa quante e quali modificazioni avrà subite dal tempo e dal lungo cammino percorso.”
Non sarebbe male se a scuola i nostri figli imparassero a mangiare anche il cuscussù – anche se credo che non verrà seguita in maniera scrupolosa la ricetta n° 46 dell’Artusi, che richiede tempo, tanto tempo, molto più di quello che hanno a disposizione le persone incaricate di cucinare a scuola, strette in contratti di servizio sempre più rigidi. Anche se viene preparato come lo prepariamo noi a casa, come scappatoia per quando abbiamo fretta e non sappiamo cosa fare.
Sarebbe bene che lo imparassero a mangiare non solo perché è quello che spesso mangiano a casa alcuni loro compagni – e certamente quello che Ahmed e Fatima mangiano a casa loro è migliore di quello che mangiano a scuola – ma perché è qualcosa che fa parte anche della nostra tradizione, perché è un piatto che – come tanti altri della nostra cucina – racconta di peregrinazioni e di modificazioni, come dice il gastronomo di Forlimpopoli, che pure amava di un amore viscerale le sue tagliatelle. Anzi sono certo che Ahmed e Fatima, proprio come Giorgio e Maria – per non parlare di Sueellen – non vorrebbero mangiare il cuscussù anche a scuola, tanto più loro, visto che lo mangiano già a casa. Se lo chiedete a Giorgio e a Fatima, ad Ahmed e a Maria – per non parlare di Sueellen – loro vi chiederebbero, tutte e tutti, le patatine fritte. Tutti i giorni.
Ma la mensa a scuola serve anche a insegnare che non si possono mangiare tutti i giorni patatine fritte e che ci sono regole da rispettare anche quando si sta tutti insieme a tavola, così come ci sono regole in ogni momento della vita, quando stiamo con gli altri. E’ un bell’esercizio democratico la mensa: si mangia tutti insieme, tutti la stessa cosa e tutti con le stesse stoviglie. Mi pare che ci sia qualcuno che non ama molto le mense, che vorrebbe ci fossero quelle per i ricchi e quelle per i poveri. Credo che sia perché non amano neppure molto la democrazia.
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