Che fare? Frammenti di pensiero politico

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti

Che fare. La politica come prassi. Qualche frammento.

Ricordate ‘Fontamara’ di Ignazio Silone? A un certo punto si dice: hanno ammazzato Berardo Viola, che fare? Ci han tolta l’acqua, che fare? Il prete si rifiuta di seppellire i nostri morti, che fare?

‘Che fare’ qui segnala un’urgenza, una necessità pratica, l’impossibilità di restare fermi, immobili, l’impossibilità di rinviare sine die senza tentare una riscossa a partire proprio dal fatto presente. ‘Che fare’ divenne anche la testata del “giornale dei cafoni”, ossia uno strumento di conoscenza, un fatto culturale, ma non astrattamente considerato, anzi orientato alla prassi, alla sintesi, alla risposta. Alla riscossa. Al riscatto. Al riconoscimento ora.

Questa è la politica, non altro. ‘Conoscere’ per essere d’aiuto verso chi subisce ingiustizie, anche se costoro non ne fossero consapevoli, anzi tanto più se si sentissero soltanto sudditi. Conoscere nel vivo della prassi, intrecciando conoscenza e direzione politica, studio e azione. Studio che è azione (e viceversa). Sennò non è politica. È altro.

Provo frustrazione quando la critica corrosiva produce solo se stessa e rinvia a chissà quando e a chissà dove la possibile, incerta soluzione. Questa politica dei due tempi è la cesura, la pausa, la spezzatura che i padroni predicano: il sapere di qua, la vita di là; le élite in un convegno, i lavoratori in officina; qui il bene, là il male. ‘Che fare’ è il tentativo di sanare la scissione, perché unisce, congiunge, intreccia quello che dovrebbe essere separato. Contamina il pensiero, arricchisce la prassi di una carburazione ideale. Si mette a servizio oggi della causa. Si rimbocca le maniche, non indossa la giacca di chi parte per un lungo viaggio solitario.

Non esisterà mai una situazione ideale in cui al massimo di pensiero possa corrispondere il massimo di effettualità. Si vive e si arranca tra idee e fatti, concetti e azioni. Il rischio è l’immaginazione della realtà, come direbbe Machiavelli. Il presente sdegnato – l’utopia futura.

‘Effettuale’ (sempre Machiavelli) non è la realtà reale presa in sé (staticamente), ma la capacità di incidervi e di lasciare un segno. E perciò di cambiarla progressivamente. ‘Effettuale’ è la presenza qui e ora della realtà, che è normalmente intrisa di male, di sofferenza, di disagio, di subalternità, di pece, e non mai già ‘rivoluzionata’ semmai da rivoluzionare (sennò la politica sarebbe inutile, così come la politica è del tutto inutile in paradiso, ossia in assenza di storia e di umanità ‘umana’).

La traversata nel deserto è una pessima metafora. Predica l’immaginazione della realtà, non la sua effettualità, e non nutre il sentimento caldo e avvincente della sua presenza urgente e devastante al nostro fianco. La risposta a ‘che fare’ non è tentare il vuoto incontaminato, ma gettarsi a capofitto nel male, nel disagio, nella sofferenza. A colpi di errori magari. Ma è meglio un pensiero-azione che sbaglia, che una critica corrosiva che preannuncia come salvezza il ritrarsi del pensiero dal fango attuale chiamato vita.

L’umanità è assieme speranza e disperazione. Più la seconda, direi. La prima dipende dalla capacità di tenere il pensiero dentro le cose, quasi senza elevazioni, senza spiritualità. Senza deserti curativi. È meglio, per paradosso, un corpo senza anima, che un’anima senza corpo.

(Sono solo frammenti di pensiero. Oggi i frammenti funzionano meglio dei sistemi. Le singolarità emergono nella loro insolubilità. Col frammento si può leggere il frammento – in altro modo no).

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