Come affondare l’economia pubblica per salvare la finanza privata

per Gabriella
Autore originale del testo: Andrea Baranes
Fonte: Zeroviolenza
Url fonte: http://www.zeroviolenza.it/component/k2/item/67234-la-tempesta-europea-come-affondare-leconomia-pubblica-per-salvare-la-finanza-privata

di Andrea Baranes, da Zeroviolenza, 6 ottobre 2014

L’Europa si trova in una crisi che sembra non avere fine: anni di recessione, aumento della disoccupazione e delle diseguaglianze, il rischio concreto di un collasso dell’euro e dello stesso progetto di Unione Europea. I problemi maggiori sono nei Paesi del Sud, che secondo le istituzioni eruopee avrebbero vissuto al di sopra delle loro possibilità, in particolare per quanto riguarda la spesa pubblica.

Oggi non c’è alternativa ai piani di austerità: tagliare la spesa pubblica per rimettere a posto i bilanci e diminuire debito e deficit.
Nella stessa direzione, le imprese devono diventare più competitive, in modo da esportare di più e contribuire così a un miglioramento dei conti pubblici.

Tagli alle spese pubbliche, piani di austerità, competitività per rilanciare l’export, privatizzazioni. E’ questa la ricetta proposta, o meglio imposta dalla cosiddetta Troika (Commissione Europea, Banca Centrale Europea e FMI) che guida le decisioni di politica economica in Europa.

Se però guardiamo i dati, le cose sono decisamente differenti. La colpa della crisi non è dello “Stato spendaccione” o del fatto che “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità”. In Italia, dalla metà degli anni ’90 al 2007 il rapporto debito/PIL è costantemente sceso. E’ solo dopo lo scoppio della bolla dei mutui subprime negli USA che, in Italia come nella quasi totalità degli altri Paesi occidentali, i conti pubblici sono rapidamente peggiorati. In altre parole è il disastro combinato dalla finanza privata, non certo da quella pubblica, ad averci trascinato nella situazione attuale.

Anche dimenticandosi che la crisi è stata causata da una gigantesca finanza privata fuori controllo, e non certo dalla finanza pubblica, i piani di austerità funzionano per diminuire il rapporto debito/PIL? Se si taglia la spesa pubblica tendono a migliorare deficit e debito pubblico, ma nello stesso tempo si hanno meno investimenti, meno denaro per i dipendenti pubblici, meno servizi, ovvero una diminuzione del PIL.

Nel rapporto debito/PIL, quindi, i piani di austerità fanno calare sia il numeratore sia il denominatore. Secondo gli studi più recenti, nella gran parte dei casi tagliando la spesa pubblica il PIL diminuisce più rapidamente del debito. Il rapporto continua a peggiorare. I piani di austerità non solo sono devastanti dal punto di vista sociale, della disoccupazione e delle diseguaglianze, ma sono nocivi anche da quello macroeconomico.

Riassumendo, la diagnosi è completamente sbagliata: il problema non è nella finanza pubblica ma in quella privata. Se anche la diagnosi fosse giusta, la cura sarebbe comunque sbagliata: l’austerità non funziona. Ma allora è possibile che i decisori europei siano tanto miopi? Il problema non è nell’analisi, ma nella visione liberista e mercantilista che domina il pensiero economico europeo: il problema non sarebbe una domanda insufficiente, è l’offerta.

Tagliamo la spesa pubblica, le tasse, i salari e i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, in modo da rendere le imprese europee più competitive. Questo porterà ad attrarre più investimenti ed esportare di più, il che successivamente porterà a crescita del PIL e infine dell’occupazione. Competitività significa vincere la concorrenza internazionale e uscire così dall’attuale stagnazione.

Se tutti adottano la stessa teoria per cui chi esporta di più vince, essendo la Terra di dimensioni finite, o qualcuno trova il modo di esportare su Marte o evidentemente abbiamo un problema. L’elemento più preoccupante è una competizione che si traduce in una corsa verso il fondo per ridurre i costi di produzione, smantellando i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, abbassando le leggi a tutela dell’ambiente, diminuendo le tasse, e via discorrendo. Una corsa verso il fondo in materia sociale, ambientale, fiscale, monetaria su scala internazionale e continentale, dove sarebbe più corretto parlare di “competizione” europea che non di “Unione euroepa”.

Soprattutto, l’intero peso di una crisi causata dal collasso del gigantesco casinò finanziario privato è scaricato su lavoratrici e lavoratori e sulle classi sociali più deboli. I primi pagano sia in termini di smantellamento dei diritti e tutele sia in termini di minori stipendi, entrambi sacrificati al dio della competitività. Le fasce più deboli della popolazione subiscono i tagli ai servizi essenziali, ovvero una diminuzione netta del proprio reddito indiretto.

Esistono due visioni economiche e sociali incompatibili. La prima fondata sull’austerità, le privatizzazioni e la precarietà, il tutto nel nome della competitività. La seconda che vede al contrario la necessità di premere l’acceleratore verso un’Europa sociale, fiscale e dei diritti che sappia bilanciare l’Europa dei capitali e finanziaria. Oggi è la prima visione ad essere egemone, non solo nelle forze apertamente liberiste, ma ancora prima in buona parte dei governi e dei partiti che si definiscono progressisti o di centro-sinistra.

Ribaltare tale rapporto di forze significa dovere ricostruire l’immaginario della crisi e il linguaggio costruiti in questi anni e oggi dominanti. Occorre mostrare la follia di un tale percorso, e la necessità e l’urgenza di ridisegnare alla base l’architettura e le politiche europee. Un lavoro lungo, ma l’unico possibile per salvare l’Unione Europea dal vicolo cieco in cui si essa stessa si è infilata.

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