CONTRO LA MISERIA – DI GIOVANNI PERAZZOLI – ed. LATERZA
Viaggio nell’Europa del nuovo welfare
da www.laterza.it 04 giugno 2014
Tutti i disoccupati avranno l’alloggio pagato e un assegno minimo vitale a condizione di frequentare dei corsi di formazione e di accettare il lavoro proposto dal centro dell’impiego. Se sui giornali leggessimo di una proposta del genere fatta dal governo italiano, rimarremmo sbalorditi. Eppure, per un tassista di Parigi, per un operaio di Berlino o per un giovane di Londra il reddito garantito è una realtà di tutti i giorni. Da decenni, la disoccupazione in Europa viene affrontata con potenti strumenti di welfare che prevedono, oltre a un sussidio vitale, assegni per le coppie, per i figli, per chi avvia un’impresa, corsi di formazione, trasporti, riscaldamento e molto altro. In Italia tutto questo non esiste. Siamo una gigantesca anomalia e neppure ce ne rendiamo conto.
Ecco da dove comincia Contro la miseria, il viaggio di Giovanni Perazzoli nell’Europa del welfare.
Bristol, Gran Bretagna, 1984. Partiamo da una storia vera. Antonio arriva in Inghilterra dalla provincia italiana, ha 28 anni, un tentativo di laurea in Lettere finito fuori corso, una certa frustrazione compensata solo dall’ironia. La decisione di partire per la Gran Bretagna nasce da un programma tutt’altro che ambizioso. Vuole imparare l’inglese per poi tornare in Italia e cercare un lavoro qualsiasi. Farfuglia che vorrebbe provare a trovare un impiego come steward negli aerei.
Non ha una famiglia alle spalle che possa aiutarlo. Per chi ha le giuste conoscenze in Italia, si sa, è diverso; ma lui vive in provincia con la madre. Per «farsi una posizione», o meglio, per trovare un lavoro, un «posto», non ha assi nella manica. A 28 anni quante esperienze si dovrebbero già avere nel curriculum! Ma l’esperienza dei coetanei già laureati non lo ha incoraggiato a finire in fretta. Gli raccontano infatti dei curricula spediti come un ex voto alle aziende, o dove capitava, sempre e solo per ottemperare a una sorta di rituale scaramantico. Naturalmente, neanche una risposta.
In Gran Bretagna, Antonio inizia a lavare i piatti nella cucina di un ristorante italiano. La sera torna molto tardi. La signora inglese che gli affitta una stanza nella propria casa fa qualche domanda. Lui le racconta che lavora; e lei gli dice che, senza un contratto, è illegale. Lui alza le spalle. Lei gli ripete che è illegale. Lui la guarda interrogativo. Se non hai un lavoro, dice la sua landlady, devi andare al Jobcentre. Antonio traduce mentalmente in italiano «Jobcentre» con «ufficio di collocamento», e si dice, allora, che non serve a niente. La signora inglese insiste e lo squadra con rimprovero; gli dice anche di chiedere un sussidio di disoccupazione all’Unemployment Benefits Office, e di andare a chiedere un sussidio per l’alloggio in un altro ufficio. Antonio adesso proprio non la capisce, non sa come tradure quello che ascolta in italiano.
Lavora per due settimane. E alla fine non lo pagano. Lavorava in nero, per cui semplicemente gli dicono che non lo avrebbero pagato. Così si fa accompagnare all’Unemployment Benefits Office dalla sua landlady. Mette una firma su un foglio. Quindici giorni dopo, senza aver mai lavorato un solo giorno legalmente in Gran Bretagna, senza neanche conoscere bene l’inglese, e, soprattutto, senza essere inglese, inizia a percepire un sussidio di disoccupazione settimanale che include anche il pagamento per la sua stanza in uno dei quartieri più belli di Bristol. Si stupisce per alcuni dettagli, come le due sterline settimanali per la lavanderia. Ad un certo punto arriva in casa il visitor inviato dall’ufficio che si occupa dell’Housing Benefit. Non deve sottoporre lui a un controllo, ma deve verificare che la casa sia in ordine: fa gli interessi dell’assistito. Deve accertarsi che gli spazi e i servizi siano corrispondenti alla legge, che non ci siano speculazioni o furbizie.
Antonio ha diritto a una serie di sconti: al cinema, nei centri sportivi, nei centri culturali. Ma soprattutto, pagando una minima percentuale delle fees, può frequentare un corso di inglese full time in uno dei migliori college della città. Il corso dura diversi mesi; per frequentarlo arrivano studenti da diverse parti del mondo: arabi dei paesi ricchi del Golfo, tedeschi, francesi, italiani… Devono pagare molti soldi, ma lui no, non li deve pagare perché è disoccupato.
Antonio mi racconta la sua sorpresa. Nessuno gli avrebbe creduto in Italia. Il figlio della sua landlady ha lasciato la casa appena compiuti i 18 anni. Si era reso autonomo grazie ai sussidi. Aspettava di decidere della sua vita e intanto alternava qualche lavoretto al sussidio. Finché un giorno non è partito per frequentare un corso universitario nel Nord del paese. Tutt’altra vita quella di Antonio, che fino a 28 anni ha vissuto a casa con la madre. Il suo primo momento di indipendenza lo trova nel Regno Unito. La ribellione di un bamboccione ante litteram.
Anche il Jobcentre è una sorpresa. Non è l’ufficio di collocamento buio, pieno di scartoffie e faldoni impolverati che Antonio aveva visto nel suo paese. Si capisce che il Jobcentre è un punto di riferimento importante nel sistema (e nel tempo lo diventerà sempre di più): almeno all’apparenza sembra proprio che facciano del loro meglio per trovarti un lavoro. Chissà perché in Italia – la Repubblica fondata sul lavoro – nessuno ha mai preso sul serio l’ufficio di collocamento. Chi cerca un lavoro in Italia non sa da che parte cominciare, ma l’ultima cosa a cui pensa è di entrare in un ufficio di collocamento. Quando si cerca un lavoro la prima cosa a cui si pensa, invece, è a qualcuno che possa cooptarti o raccomandarti. Per il «cane sciolto» è dura. Eurostat ci informa che solo il 3% delle persone che cercano un lavoro lo trovano attraverso un centro per l’impiego.
Arriva l’inverno e Antonio decide di restare in Gran Bretagna.
Non se lo nasconde. Ventotto anni sembrano (ma non lo sono affatto) già troppi per imparare una nuova lingua e iniziare una nuova vita. Tutto è in salita, potrebbe commettere l’errore di considerarsi un fallito. Le famiglie benestanti italiane mandano i figli nei mesi estivi a Cambridge o a Oxford a seguire i corsi d’inglese, ovviamente costosissimi. Non è il caso di Antonio. Al quale non sfugge che sta seguendo un corso di quelli a cui accedono in Italia solo i privilegiati, ma da disoccupato, e per di più straniero.
Lo lascio seduto davanti a una grammatica aperta: l’ausiliare, i pronomi, le frasi idiomatiche. Passano quindici anni. Intorno a me, in Italia, vedo intanto maturare molti fallimenti. Quindici anni sono sufficienti per veder spegnersi una generazione. Per chi studia, la fortuna si rovescia appena dopo la laurea. Il primo allarme suona quando i compagni di studio che si ammiravano per la loro bravura, si perdono; non tutti, ma quasi tutti. Qualcuno lascia il paese, altri cercano di sfondare invano il muro di gomma. Non va meglio per chi cerca subito un’occupazione, e che si trova a passare da un lavoro all’altro, spesso in nero. La scelta del lavoro è determinata dal caso, anzi non c’è neanche una scelta in senso proprio, le persone che possono scegliere un lavoro sono già nel privilegio. Il lavoro è quello che c’è intorno, quello che può procurare la famiglia. L’iniziativa è poca e rischiosa: il contesto la scoraggia.
Rapidamente si arriva al precariato di massa. Si crea un esercito di giovani precari che non di rado finisce, ironia della sorte, a rendere produttiva la schiera degli assunti non si sa come. Il precario non ha nessuno strumento per dire «no». Se vede che qualcosa non funziona, deve tacere perché qualsiasi critica o conflitto nell’ambiente di lavoro potrebbe essergli fatale e catapultarlo di nuovo nel deserto dei «cani sciolti». E lì, non c’è niente, nessun reddito minimo garantito, nessun’altra certezza che non sia la dipendenza da altri.
Il «sistema» di precarietà alimenta l’illusione del precario che, se tiene duro, verrà «stabilizzato». E ci deve credere, perché se esce è finito. Inoltre, questa è la regola non scritta che per molto tempo ha fatto da idea regolativa: il fatto crea il diritto. Mettersi in fila e aspettare che venga il proprio momento e intanto dimostrare fedeltà e rispetto. Il merito non c’entra, anzi può essere pericoloso, può generare invidie, competizioni, risentimenti. Il «privato» dovrebbe essere più a contatto con il «mercato»; ma in realtà non sempre vivrebbe senza connessioni e favori «contestuali». Nel «pubblico» la gavetta infinita è indirizzata, invece, a conseguire il (paradossale) diritto a un privilegio: essere il «candidato interno» al prossimo concorso, abbastanza bravo da essere utile, abbastanza modesto e addomesticato da non mettere in ombra gli altri. Non dovrebbe accadere, non sarebbe giusto: tuttavia, molti non solo accettano la situazione ma la interiorizzano, pensano proprio che sia giusto. Ritengono di aver maturato un diritto. La scorciatoia diventa così la via maestra, e la via maestra non porta da nessuna parte. Nel fatto-che-crea-il-diritto si annida una grande ingiustizia. Ma bisogna saperla riconoscere, e non molti sono disposti a farlo.
Un grande mutamento è avvenuto sul finire degli anni Ottanta: piano piano è tramontata proprio quella legge non scritta del fatto che crea il diritto che era stata la stella polare delle generazioni che hanno preceduto il grande precariato di massa. «Metterci il cappello» era uno dei più funzionali ascensori sociali, ma poiché era una regola non scritta, non c’è stato un momento nel quale essa ha cessato pubblicamente di esistere: una regola non scritta, del resto, non può essere abrogata. Così in molti si sono illusi che fosse ancora in vigore, e quando si sono accorti dell’errore, era ormai troppo tardi. Molti genitori ci contavano. Vedrai, tu entra, poi ti stabilizzi. Era la loro certezza; era successo nella loro generazione infinite volte. Certo, si era gridato allo scandalo ogni volta, ma poi tutto si era risolto nella complicità generale. I grandi sindacati amministravano – e ancora amministrano – montagne di situazioni di questo genere; un bel bacino di anime al purgatorio che attendevano il loro turno in lunghe graduatorie. Intanto intorno dilagava il lavoro nero e l’imbroglio.
E Antonio? Ha conseguito tutti i diplomi d’inglese che gli servivano, ora sono un lontano ricordo degli inizi. Ha fatto vari lavori. La grande sfida è stata quella dell’università, in Inghilterra, con dieci anni di ritardo. E nonostante avesse passato i trenta, ce la fa; non solo si laurea, ma inizia a tenere dei corsi all’università. Poi lascia l’Inghilterra per intraprendere un’importante carriera a Bruxelles.
Una storia emblematica che, se non fosse vera, apparirebbe fin troppo didascalica. Il caso di Antonio, va da sé, non può essere generalizzato. È però evidente che, senza the dole, senza il reddito minimo garantito, non sarebbe stato possibile per lui cambiare vita.
da Micromega 08 luglio 2014
Per gentile concessione dell’editore proponiamo un estratto da “Contro la miseria. Viaggio nell’Europa del nuovo welfare” di Giovanni Perazzoli (Laterza).
1. Utopia e alibi
Già nel 2000, dunque ben prima della crisi economica di questi anni, il 56% dei giovani adulti italiani viveva con i propri genitori, mentre in Francia erano solo il 20% e nei paesi del Nord Europa il 10% [1]. Esiste dunque un’antropologia specificamente italica di «bamboccioni»? Forse no; la realtà è che i giovani nordeuropei hanno certamente più opportunità di lavoro, ma sono anche tutelati, oltre che dalla famiglia, anche dal welfare, ovvero dal reddito minimo garantito. Più lavoro e vero welfare sono correlati. Il welfare ha una grossa parte nell’accrescere le opportunità di lavoro nonostante il margine di disoccupazione volontaria che produce.
Il quotidiano britannico «The Guardian» (19 settembre 2012) scopre con sorpresa che, come suona il titolo dell’articolo, Un terzo degli italiani adulti vive con i genitori. L’articolo riporta il «bamboccioni» imprudentemente riferito dal ministro Tommaso Padoa-Schioppa ai giovani adulti italiani. Dallo stupore del giornale britannico emerge però, involontariamente, l’altro paradigma. Dal punto di vista britannico c’è infatti solo una spiegazione al fenomeno dei «bamboccioni», e il sottotitolo lo dice chiaramente: i tagli al welfare (benefit cuts). Gli adulti, ovvero i giovani, tornerebbero a casa dai genitori perché, improvvisa «The Guardian», «non hanno altra scelta, data l’alta disoccupazione e i tagli al welfare per i disoccupati» [2].
Tagli al welfare per i disoccupati? Attenzione, cari amici inglesi, rileggete il filosofo David Hume. Che fine ha fatto la vostra tradizione empirista? Bertrand Russell non aveva spiegato che se su 100 abitanti di un villaggio 99 si chiamano Smith non è detto che tutti si chiamino Smith? È proprio questo il caso: il fatto che in molti paesi europei esista il welfare per i disoccupati non implica che esista in tutti. «The Guardian» evidentemente non può neanche immaginare che in Italia i giovani non possano lasciare la casa dei genitori grazie al welfare, e che non ci sono mai stati tagli al welfare per i disoccupati, per la semplice ragione che non c’è mai stato un welfare per i disoccupati, e quello che non c’è non può essere tagliato. Anzi, è vero addirittura il contrario: recentemente è stata estesa a più lavoratori una rudimentale indennità di disoccupazione. Ma i benefit a cui si riferisce «The Guardian» non sono l’indennità di disoccupazione, bensì le misure di reddito minimo garantito che in tutta Europa sono una cosa molto seria.
Più empiristi, a sorpresa, i tedeschi. Il giornale liberale e conservatore «Frankfurter Allgemeine Zeitung» è più in sintonia con la realtà del Belpaese; e con l’aria di voler sorprendere i lettori scrive (3 marzo 2010): Keine Sozialhilfe in Italien [3]. Potremmo tradurre così: «In Italia non c’è un welfare per i disoccupati». Secondo l’autore dell’articolo, «dal punto di vista italiano» la Germania è «il paese della cuccagna» (das Schlaraffenland): infatti «in Italia non c’è mai stata alcuna forma di welfare per i disoccupati (Sozialhilfe)». Ci sono dei sussidi per i disoccupati (Arbeitslosengeld), ma, scrive l’editorialista, «solo in una forma rudimentale». E dunque? «Poiché manca il welfare, deve supplire la famiglia». In Italia, scrive il giornale tedesco, si preferiva andare in pensione a 50 anni. Inoltre, i «sussidi di disoccupazione per tutti» (Arbeitslosengeld für alle) sono «indesiderati dal punto di vista politico».
Si giudica per paragoni e confronti. Ma l’Italia si confronta con difficoltà con gli altri paesi europei. In generale, i paesi europei si confrontano poco tra loro: manca un’opinione pubblica europea. D’altra parte, la letteratura scientifica parla agli specialisti, il suo compito non è quello di permettere a tutti di farsi un’idea concreta delle forme di reddito minimo garantito europee, della loro diffusione e quotidianità. Inoltre, espressioni come «esclusione sociale», «reddito di sussistenza», «lotta alla povertà» fanno pensare, senza un adeguato contesto, a sussidi marginali per i casi di «povertà assoluta». Pensiamo a strumenti per l’eccezione, non per la normalità. Non pensiamo, in altre parole, che un diciottenne di famiglia medioborghese possa andare a vivere da solo grazie al welfare. Ma è questo che invece accade nell’altra Europa. Osservare questi strumenti di welfare non solo nei libri, ma anche direttamente all’opera nei paesi che li adottano, è davvero un’esperienza impressionante. Vista la potenza e l’estensione del welfare, di quello vero, ci si chiede subito perché non se ne sappia niente da noi. Per dirla senza perifrasi: in Italia non ci si rende conto della colossale importanza che ha il vero welfare.
Prima di procedere vediamo che cosa si deve intendere con l’espressione «reddito minimo garantito». Dal 1992 l’«Europa ci chiede», come riportato testualmente dalla raccomandazione 92/441 Cee pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale», «l’introduzione […] di un reddito minimo garantito», universale e illimitato [4]. Per questo, o anche per questo, useremo l’espressione «reddito minimo garantito», e non, ad esempio, «reddito di cittadinanza», o «reddito di inserimento», «minimo vitale», «reddito di ultima istanza». Un’espressione vale l’altra purché si definisca di che cosa si parla.
L’espressione «reddito minimo garantito», oltre ad essere più utilizzata, ha il vantaggio di essere ideologicamente neutra e quindi più utile a un confronto con le misure di tutela del reddito adottate in Europa. Indica semplicemente una serie di misure che garantiscono a chi cerca un lavoro di non cadere al di sotto di un minimo vitale. Trattandosi di misure che non esistono in Italia (vedremo perché non si possono confondere con la cassa integrazione o con gli altri sussidi che sono estremamente limitati nella durata, riservati a una platea ristrettissima, discrezionali e corporativi) evidentemente non c’è neanche un nome che le possa rappresentare. Ad esempio, «sussidio di disoccupazione» ferma alcuni aspetti, ma è equivoco e parziale. D’altro canto, «reddito di cittadinanza» indica un reddito per tutti e incondizionato. In Italia di solito, quando non si confonde il reddito minimo garantito con i sussidi di disoccupazione (limitati e corporativi), lo si confonde con il reddito di cittadinanza: o si sbaglia per difetto oppure per eccesso.
Gli aspetti essenziali del reddito minimo garantito sono: a) il carattere illimitato nella durata del sussidio (dura tanto quanto dura la ricerca di un lavoro, anche diversi anni); b) la sua universalità condizionata solo dalla disponibilità a cercare un lavoro e dall’accertamento dei mezzi (non bisogna essere ricchi per averne diritto, ma neanche essere «poveri» e non è necessario fare riferimento a intermediari politici o sindacali).
Per queste misure di tutela del reddito ogni paese ha la sua denominazione: Jobseeker’s Allowance nel Regno Unito, Revenue solidarité active in Francia, Arbeitlosengeld II in Germania, ecc. Le denominazioni colloquiali sono: the dole nel Regno Unito, Hartz IV in Germania, chômage in Francia. Molto diffuso nella stampa di lingua inglese è riferirsi a queste misure di tutela del reddito con la parola «benefits», al plurale, benefici. Qui useremo «reddito minimo garantito» soprattutto nel senso generale di benefit, intendendo quindi anche gli assegni per l’alloggio, per i figli, ecc. Non bisogna pensare dunque al reddito minimo garantito semplicemente come a un assegno mensile. Sarebbe fuorviante limitarsi a dire, ad esempio, che in Germania il «reddito minimo garantito» è di 380 euro al mese, senza aggiungere che con questi soldi il disoccupato non ci deve pagare l’affitto per l’alloggio (perché per l’affitto c’è un altro sussidio), oppure senza spiegare che la cifra si riferisce al disoccupato single, e non ad una famiglia (più è grande, più aumenta il sussidio). Bisogna notare, inoltre, che mentre in Italia con «welfare» s’intende soprattutto riferirsi alle pensioni e alla sanità, nei paesi nordeuropei ci si riferisce più spesso proprio ai benefit contro la disoccupazione. Per questo si può sentir dire, ad esempio, che quella tale persona «vive solo di welfare» (come scrive «The Guardian», i giovani adulti tornerebbero a casa in conseguenza dei «tagli al welfare»). In Italia «welfare» significa in determinati contesti «piena occupazione»; ma la piena occupazione nasce con il complemento dei benefit: il fatto che in Italia questo aspetto manchi è molto indicativo.
Quando dunque parliamo di «disoccupazione europea» dobbiamo capire che stiamo mettendo in un’unica pentola realtà diversissime. Sotto lo stesso titolo vengono catalogate, da una parte, la disoccupazione che lascia qualche soldo sicuro in tasca ogni mese, la sicurezza dell’alloggio e degli assegni per i figli, e, dall’altra, la disoccupazione di chi finisce sotto al ponte, o, nella migliore delle ipotesi, di nuovo a casa con mamma e papà. Ma alla luce di quello che vedremo (e che sorprenderà), i dati sulla disoccupazione dei diversi paesi europei dovrebbero essere letti in modo diverso, e, per l’Italia, in modo più drammatico. Se si confrontano le economie di due paesi a partire dai dati della disoccupazione, ma non si mette nel conto che in uno c’è il reddito minimo garantito, o, come dicono gli inglesi, i benefit, e nell’altro no, il confronto risulterà evidentemente falsato. In Italia il problema della disoccupazione è quello brutale dell’Inghilterra, ma di quella ottocentesca, la disoccupazione che non porta il pane in tavola.
Come non può non «interrogarci» il fatto che in Italia si consideri un’utopia quello che in Gran Bretagna, Francia, Germania, Olanda, Belgio e in altri paesi è realtà da decenni? Il reddito minimo garantito è una realtà così ovvia in Europa che, come abbiamo visto, nella stampa britannica si attribuisce, come si dice oggi, «di default». L’utopia, al contrario, è una forma politica e sociale irrealizzabile, che, come dice l’etimologia, non esiste in nessun luogo. Ma il reddito minimo garantito esiste dietro l’angolo di casa, nel nostro stesso contesto politico europeo. Un tempo c’era l’«utopia socialista», che riguardava il mondo comunista, il quale non solo era diverso dal modello economico e politico occidentale, ma era anche nemico di questo. Nel caso del reddito minimo garantito l’«utopia» appartiene, invece, al cuore dell’Occidente, alla vecchia Europa. È l’Italia l’eccezione, non il contrario. Non si può utilizzare l’alibi (secondo l’etimologia: alius ibi, l’«altro da qui», l’«essere altrove») che è qualcosa che non ci riguarda nella misura in cui «non accade da noi ma da un’altra parte»: infatti, rispetto al reddito minimo garantito non ci troviamo in un «altrove» ma, al contrario, più che mai dentro il modello sociale occidentale europeo. Ad essere «altrove» in questo caso è l’Italia.
Anche l’obiezione più immediata al reddito minimo garantito, quella che riguarda i costi, dovrebbe tener conto di questo dato di realtà. Non si tratta di un’utopia, evidentemente, perché quello che è reale è anche possibile. Ma interessante è notare che la quasi totalità dei paesi che adottano forme di reddito minimo garantito – la Francia, la Germania, il Regno Unito, il Belgio, l’Olanda, la Danimarca, l’Austria, il Lussemburgo, la Svezia, la Finlandia, la Norvegia… – non solo non sono schiacciati da un debito pubblico enorme e insostenibile, ma è vero proprio il contrario: ad essere in crisi è il nostro debito pubblico. Se poi, sempre seguendo la linea dei confronti, considerassimo che l’altro paese in Europa che non ha il reddito minimo garantito è la Grecia, e se ricordassimo che anch’essa ha un enorme debito pubblico, saremmo persino tentati di stabilire una connessione – forse un po’ unilaterale, ma non priva di ragioni – tra l’alto debito pubblico e l’inesistenza di un reddito minimo garantito. Il Portogallo e la Spagna, che restano sotto il tacco della crisi di questi anni, hanno una forma di reddito minimo garantito molto modesta; in Spagna è frammentata, differente da regione a regione. L’Irlanda, che invece sta uscendo dalla crisi, ha un reddito minimo garantito sconcertantemente generoso, anche se con una tassazione molto bassa. L’Irlanda spende meno, ma meglio.
In Italia c’è più assistenzialismo che redistribuzione. Il welfare moderno, quello vero, è universalistico: è redistributivo più che assistenzialista; non individua infatti categorie, ceti, gruppi, territori, amici, famiglie, zie e nipoti, ma determina un diritto. Non prevede intermediari che accrescono il loro potere distribuendo favori. Non è pensato come una rendita, proprio perché non è clientelare o corporativo.
Un sistema universale di welfare crea più autonomia, maggiore disponibilità al rischio d’impresa [5]. Inoltre, fatto questo essenziale, poiché limita il clientelismo, aiuta la trasparenza democratica. La democrazia implica un welfare universale. Che, peraltro, fa anche risparmiare. Se, infatti, l’universalità del welfare regolata per legge è una grandezza finita, lo stesso non può dirsi per il bisogno di consenso ottenuto attraverso il clientelismo.
Il confronto con gli altri paesi lascia emergere allora una realtà del tutto capovolta rispetto all’utopia. Ciò non toglie però che dobbiamo fare i conti con un contesto politico e culturale che associa all’impossibile, all’assurdo, all’astrazione di filosofi utopisti, quello che invece qualsiasi tassista di Parigi, qualsiasi operaio di Bochum, qualsiasi giovane di Londra conosce come realtà di tutti i giorni.
L’opinione pubblica italiana vede, se non altro attraverso le inchieste giornalistiche, le conseguenze ovvie dell’assenza di un reddito minimo garantito: povertà drammatiche, con famiglie che dovranno lasciare la casa dove hanno abitato e non ne hanno un’altra in cui andare, padri che scoppiano in lacrime perché non sanno come far quadrare i conti mentre i loro figli, nei quali avevano rimesso le loro speranze, non possono continuare gli studi. Si prova un senso di impotenza. Eppure qualcosa manca al quadro, qualcosa che un’indagine giornalistica, invece, dovrebbe richiamare nel modo dovuto. C’è una domanda banale che non è stata mai davvero posta: come affrontano la disoccupazione gli altri paesi europei? Ci sono storie, conflitti, parole, idee che da noi non sono mai state raccontate. La storia della giovane Cait Reilly, ad esempio, che racconteremo più avanti, la quale, con un ricorso all’Alta Corte di Giustizia britannica, ha mandato (momentaneamente) al tappeto il programma Work for your benefits del primo ministro inglese David Cameron. Oppure la storia della scrittrice tedesca Undine Zimmer.
Negli altri paesi europei la disoccupazione è affrontata con potenti strumenti di welfare: garanzia del reddito, dell’alloggio, assegni per i giovani e per i bambini, sussidi per pagare la bolletta del telefono, per i quaderni e i libri, per la lavanderia, per i corsi di formazione, trasferimenti per chi inizia una professione, per ristrutturare la casa.
«Adeguarci all’Europa» vien inteso di solito, in Italia, nel senso dell’esigenza di ridurre il welfare. Secondo il noto adagio dovremmo svestire l’atteggiamento delle cicale per diventare formiche – come in Europa. Ma la realtà è molto diversa. I tagli ci sono nell’altra Europa: ma il contesto è diverso e il punto di partenza è molto più alto. La potatura del welfare avviene nell’altra Europa a partire da un albero enorme, al cui confronto in Italia abbiamo una misera pianticella (e sproporzionatamente costosa). Ma non si tratta solo di una differenza quantitativa. Le ragioni stesse dei tagli sono, come vedremo, impensabili in Italia. Il «taglio del welfare», senza ulteriori specificazioni, fa pensare alla comparabilità dei sistemi di welfare. Mentre sono incomparabili. Viene allora da pensare che il problema non è solo sociale, ma anche in qualche modo «cognitivo», o, se si preferisce, ideologico. Viene in mente l’interpretazione delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn: guardiamo all’altra Europa da un paradigma interpretativo nel quale troppe cose sono sottosopra e confuse.
NOTE
[1] 1 C. O’Donoghue, F. Utili, Micro-level Impacts of Low-wage Policies in Europe, in W. Salverda, C. Lucifora, B. Nolan (a cura di), Policy Measures for Low Wege Employment in Europe, Edward Elgar, Cheltenham 2000, pp. 17-42, citato in T. Boeri, R. Perotti, Meno pensioni, più welfare, il Mulino, Bologna 2002, p. 60.
[2] 2 http://www.theguardian.com/world/2012/sep/19/third-italianslive-with-parents.
[3] 3 http://www.faz.net/aktuell/wirtschaft/arbeitsmarkt-und-hartziv/arbeitsmarktpolitik-nicht-nur-der-lohnabstand-ist-entscheidend-1950872.html.
[4] 4 http://eurlex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:31992H0441:IT:HTML.
[5] 5 Cfr. S. Sacchi, Che fine ha fatto il reddito minimo di inserimento?, in «il Mulino», 5, 2006, pp. 870-880. Sacchi riprende la tesi del noto saggio di H.-W. Sinn, A Theory of the Welfare State, in «Scandinavian Journal of Economics», 97, 4, pp. 495-526, che connette redistribuzione, efficienza sociale e welfare.
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Giovanni Perazzoli, oltre a numerosi articoli e testi per riviste accademiche, “MicroMega” e Rai Educational, è autore di Benedetto Croce e il diritto positivo. Sulla «realtà» del diritto (il Mulino 2011) e Filosofia e laicità (con G. Miligi, Mimesis 2010). Cura “Filosofia.it”. Vive e lavora tra l’Italia e l’Olanda.