Cosa può fare la Politica, come si dovrebbe farla

per domenico argondizzo
Autore originale del testo: Domenico Argondizzo
Fonte: mondoperaio
Url fonte: http://www.mondoperaio.net/n-1-gennaio-2012/

di Domenico Argondizzo 26 gennaio 2015

Cosa c’entrano i mercati finanziari con la politica, con le politiche degli stati nazionali e sovranazionali (es. UE), con le politiche pubbliche?

Iniziamo da una esperienza di pratica microeconomia. Alcune persone che conosco, e che hanno investito i loro risparmi in borsa per almeno 15-20 anni, mi dicono che tale meccanismo non ha mai portato loro utili. La media delle valutazione dei titoli è, nel periodo di loro osservazione, sempre discesa rispetto ai valori iniziali[1].

Quali conclusioni se ne possono trarre per il risparmiatore-piccolo investitore: che il mercato borsistico funziona per le imprese come un canale di finanziamento alternativo rispetto a quello delle banche. Istituzionalmente sono le banche ad essere investite del compito della raccolta del risparmio per renderlo disponibile al credito. Ma, con il mercato finanziario, il risparmio affluisce direttamente alle imprese che – in maniera figurata – si parcellizzano e si vendono a pezzi (ed a tempo). Ed il denaro a loro così affluito, costa anche meno di quello chiesto alle banche. Addirittura possono restituire al piccolo investitore assai meno di quello che hanno preso in prestito da lui. Si potrebbe dire che il tasso di interesse è invertito ed è pagato dal creditore al debitore. Ciliegina sulla torta: tale tasso presenta una crescita pressoché costante (vi è cioè una crescita costante dell’interesse negativo per il creditore). Tutto ciò considerato, sono anche le banche stesse ad approfittare di questa liberalità dei piccoli investitori, che ne hanno in cambio l’ebbrezza, il sogno del facile e grande guadagno. Questa semplificazione sottace un aspetto non secondario, quello cioè che l’impresa che inizialmente si è messa in vendita a pezzi, anch’essa perde del denaro mano mano che le sue quotazioni scendono (sempre ipotizzando che le quotazioni iniziali siano veridiche e non gonfiate). Dove finiscono tutti questi soldi che i piccoli risparmiatori hanno investito? In mano a pochi (o molti, ma non moltissimi, gruppi economico-finanziari nazionali ed internazionali). Ma il mio intento non è quello di indagare le modalità del migliore finanziamento delle imprese, né gli errori nelle strategie finanziarie aziendali, né come investire oculatamente nel mercato borsistico, né come eliminare la speculazione finanziaria; parafrasando Rhett Butler, “Frankly, my dear, I don’t give a damn”. A me interessano le ricadute negative che si hanno quando anche le istituzioni pubbliche approfittano della truffa del mercato finanziario.

Perché gli stati e le entità pubbliche dovrebbero anch’essi prendere questi soldi facili (ma rischiosi)? La risposta è sconcertante nella sua banalità: perché preferiscono chiedere in prestito le risorse che potrebbero legittimamente riscuotere con le entrate tributarie. Si potrebbe osservare: bene, per lo meno non spendano i soldi che non hanno. Invece no: spendono ciò che non vogliono raccogliere con le imposizioni fiscali, e lo fanno chiedendo in prestito il denaro proprio ai ceti agiati, da cui dovrebbero averlo d’imperio (beninteso sempre secondo progressività, che è equità). La conferma di ciò è nelle considerazioni che seguono: in prima battuta, chi compra titoli di stato (e prodotti finanziari in genere) ha evidentemente una discreta disponibilità economico-patrimoniale (inclusi i risparmiatori-piccoli investitori di cui sopra). Ora, dai dati del gettito fiscale risulta che il ceto agiato di questo paese siano i lavoratori dipendenti (pubblici e privati) ed i pensionati. Ma questi, stranamente, fanno parte solo in sparuto numero degli stessi risparmiatori-piccoli investitori. Quindi, è ragionevole dedurne che in Italia chi compra titoli di stato e/o investe in borsa, lo fa con denaro nella quasi totalità sottratto alla tassazione, rientrante nell’economia sommersa. Vi è poi da dire che, in seconda battuta, lo stesso mercato finanziario-borsistico è comunque composto dai ceti agiati nazionali ed internazionali. Quindi, quand’anche fossero risorse non sommerse, sarebbero comunque sempre sottoponibili ad una tassazione più alta, se gli enti pubblici sovrani così decidessero.

Ma non dilunghiamoci su queste disfunzioni cerebrali che purtroppo sono anche criminali per i risvolti che hanno sulle comunità pubbliche, comunque complici esse stesse (perché la classe politica è sempre espressione della società, in democrazia). Quando i titoli di Stato sono emessi, affluendo con ciò stesso nel grande calderone dei mercati finanziari, il gioco è fatto. Anche gli stati, come le imprese, sono soggetti, via via, alle speculazioni intese come valutazioni approfondite e previsioni (sulle prospettive economiche reali dei soggetti indagati), ed alle speculazioni intese come operazioni finanziarie che scommettono sui conseguenti andamenti futuri dei titoli da loro emessi (con ciò stesso condizionandoli come previsione che si auto-avvera). Il parossismo si raggiunge quando anche gli enti pubblici subordinati agli stati, per gli stessi imbarazzi ad usare la leva fiscale, e per l’impoverimento dei trasferimenti dallo stato centrale, cercano finanziamenti, inseguendo il guadagno facile, comprando titoli di stato con tassi di interesse alti. Ed i tassi di interessi sono tanto più alti, quanto più gli stati si sono già indebitati, quanto più cioè c’è il rischio che essi si rivelino cattivi pagatori. E la stessa nuova crescita del debito pubblico è a sua volta causa del maggior costo per finanziare il deficit ulteriore e contemporaneamente del maggior costo per il pagamento degli interessi sul debito pregresso (perché nei disavanzi c’è anche la voce spese per interessi). Questa la spirale infernale.

Bisogna però sempre tenere fissa l’attenzione sulla constatazione circa la ragione genetica del debito pubblico: deficitaria tassazione.

Si deve osservare che gli stati e le altre entità pubbliche non dovrebbero affatto chiedere i soldi in prestito, soggiacendo alle speculazioni finanziarie; e che, subordinatamente, i loro titoli, una volta sottoscritti, non dovrebbero comunque essere negoziabili sui mercati valutari (un po’ come succede per i vecchi cari buoni postali).

Questo perché gli stati non sono soggetti privati. Sono pur sempre titolari di potere d’imperio e possono decidere se e quanto chiedere ai proprio membri come dovere di compartecipazione ai costi della comunità pubblica.

Vi è poi una seconda ragione fondamentale per cui i titoli di stato non dovrebbero essere negoziati. Anche se ho già detto che non mi interessa indagare chi sia ad arricchirsi con le speculazioni finanziarie, ciò che mi preme sottolineare è che questi gruppi economico-finanziari non devono essere messi nelle condizioni di lucrare sulla cattiva amministrazione degli enti politici pubblici:

  1. perché nessun ente privato deve essere sovraordinato agli enti pubblici;
  2. perché le stesse speculazioni finanziarie condizionano le scelte dell’operatore politico pubblico;
  3. perché tali operatori economici privati non fanno valutazioni seguendo criteri di buona amministrazione e/o di merito politico, bensì soltanto quelli microeconomici sulla capacità degli stati debitori di essere solvibili, e cioè su quanto poter lucrare ulteriormente dalle difficoltà via via crescenti di tali debitori.

I primi due punti mettono in gioco la categoria della sovranità delle istituzioni pubbliche e della loro libertà nella decisione politica.

Il terzo punto mette in gioco la questione centrale dell’essenza della politica e del suo rapporto con l’etica. Giudici della semplice buona amministrazione, ed a maggior ragione delle scelte politiche e delle conseguenti politiche economiche pubbliche, non devono essere enti privati, esterni al circuito rappresentativo istituzionale, e per di più mossi soltanto dalla legge del loro massimo profitto privato.

Se uniamo le varie osservazioni sin qui fatte, possiamo trarre queste ulteriori considerazioni.

I mercati sono guidati da gruppi che possono definirsi ristretti, se messi in paragone con la società di ogni stato (figuriamoci con quella mondiale): quindi, semplificando dai pochi ricchissimi. Ora, è immaginabile che questi gruppi abbiano interesse a che gli stati esercitino oculatamente la loro capacità impositiva e di spesa? Ovvero, è immaginabile che gli stessi gruppi si preoccupino di come vengono sperperati i pubblici denari? È immaginabile che abbiano a cuore i servizi dello stato sociale (istruzione, sanità, tutele del lavoro), le infrastrutture, la razionale gestione delle risorse naturali, energetiche, agricole, ecc.? È immaginabile che abbiano a cuore proprio la corretta funzionalità (anche dal mero punto di vista microeconomico) delle organizzazioni pubbliche collettive?

Io dico che se fossero intimamente razionali, dovrebbero avere a cuore tutte queste cose. Ma l’operatore privato è per sua natura accecato dal massimo profitto nel minor tempo. Figuriamoci se tale rapace privato avesse davanti a sé una comunità pubblica, che per intraprendere la virtuosa via della riduzione del debito, del disavanzo, scegliesse di imporre una reale tassazione progressiva sulla sua comunità! Pensate che le borse, i mercati, che sono i ricchi, festeggerebbero? Ovvero farebbero di tutto per impedire che si veda che il re è nudo? Per impedire che si capisca che vi è una via maestra per uscire da questo turbine infernale: chiedere a tutti il giusto secondo le possibilità di ognuno, con ciò stesso interrompendo la sopraffazione economica.

Siamo tornati alle ragioni della nascita dell’organizzazione sociale, della politica e dell’etica.

Parliamo ora quindi della Politica.

Secondo un’ottica liberaldemocratica, la funzione dello Stato, dell’ordinamento giuridico, e quindi della politica è, in fondo in fondo, quella di tutelare la libertà delle singole persone, che però è piena solo se vuol dire in primis affrancazione dai bisogni; ciò valendo soprattutto per le persone prive o povere di risorse proprie. La società senza ordinamento giuridico sarebbe un ritorno alla savana, alla giungla, dove regnano le leggi della sopravvivenza, del più forte e della creazione e perpetuazione del privilegio con la violenza. Una politica che ignori questa ancestrale origine della comunità umana tradisce sé stessa.

Il sistema economico ha bisogno dell’intervento dello Stato:

  1. di un intervento regolatore del mercato (con specifica attenzione a salari, prezzi, tariffe dei servizi, onorari delle professioni, remunerazioni del lavoro autonomo). Una recente prova sperimentale su tutte: basta vedere come i creditori (siano essi gli stati, le banche centrali, la BCE, le banche private, i gruppi economico-finanziari) debbano intervenire per salvare i debitori (siano essi gli stessi stati, le stesse banche, gli stessi gruppi economico-finanziari), curando i debiti con altri debiti[2], per capire come il sistema economico necessiti, per il mantenimento della sua fisiologia, dell’intervento anti-concentrazione di un ente esterno al sistema stesso, ai meccanismi che condizionano gli operatori presenti entro di esso.
  2. di un intervento per mezzo della leva fiscale e della connessa funzione redistributiva attraverso i servizi dello Stato sociale.
  3. di specifici investimenti pubblici finalizzati alla creazione di infrastrutture.

Senza i punti 1 e 2, il sistema economico si avvita su sé stesso per l’eccesso di concentrazione delle risorse economiche, che porta ad un calo della domanda di beni di consumo e, conseguentemente all’inceppamento della loro circolazione; in altri termini a crisi economiche di sovrapproduzione e quindi finanziarie. Ed i punti 1, 2 e 3 devono ovviamente essere coordinati con una rigorosa attenzione all’equilibrio finanziario e monetario, onde non innescare debito pubblico e dinamiche inflazionistiche.

Lo Stato sociale di diritto (istruzione, sanità, tutele del lavoro) ha un costo; anche il solo Stato di diritto (formalizzazione dei diritti nelle leggi, creazione del mercato concorrenziale in quanto regolamentato, garanzia di tutto ciò nei tribunali/authorities, sanzione ed espiazione delle violazioni) ha un costo.

Per risolvere i problemi bisogna affrontare dei costi. Una politica che ignori questo dogma è una cattiva politica.

Questo un elenco parziale dei problemi italiani:

a)    mafie, criminalità diffusa, corruzione e illegalità (di cui l’evasione fiscale e l’economia sommersa sono cospicue componenti). Il fattore mafie incide pesantemente, con i suoi taglieggiamenti, sullo sviluppo economico di più della metà del territorio italiano: basti semplicemente dire che una qualunque attività economica, quand’anche sia sommersa per il Fisco, è invece presa alla iugulare dagli esattori mafiosi.

b)   povertà infrastrutturale (ad esempio: condotte idriche, reti fognarie, linee ferroviarie e stradali, mezzi di trasporto pubblici su rotaia/strada, impianti per la produzione/sfruttamento delle fonti di energia, ecc.).

c)    assenza delle risorse pubbliche per garantire i cardini dello Stato sociale, i cardini dello stato di diritto (basti citare la esiguità del personale degli uffici giudiziari, dei magistrati, delle forze dell’ordine in generale, la povertà di mezzi e strutture per il loro lavoro, ecc.).

d)   presenza di numerose corporazioni, tante quasi quanto le tipologie delle professioni e delle occupazioni autonome. Con la loro sola presenza privilegiata, imbrigliano ingenti quote della ricchezza nazionale nella loro remunerazione e nei loro costi, remunerazioni alte ed immotivate che si riverberano sui costi di produzione e distribuzione, rendendo il nostro sistema economico non competitivo.

e)    diffusa povertà, ed in generale condizioni economiche che impediscono l’affermazione della dignità umana ed il pieno sviluppo – secondo le proprie capacità – di ogni singola persona, della sua gratificazione sociale e crescita culturale.

f)    mancanza di un serio e diffuso smaltimento differenziato dei rifiuti (che potrebbe esso stesso fornire risorse energetiche e fertilizzanti per l’agricoltura), di una seria politica di approvvigionamento energetico da fonti rinnovabili. L’ambiente è prioritario su tutto, e deve plasmare la politica economica ed industriale dell’Europa ed internazionale (in primis dei paesi più avanzati). L’obbiettivo della rivoluzione energetica è l’abbandono del petrolio e dei suoi derivati per la produzione di energia, con ciò dando una speranza al futuro dell’umanità su questo pianeta, e perseguendo il valore della pace nel mondo. Infatti, si toglierebbe l’attuale motivo principale delle guerre degli occidentali e si ridurrebbe la creazione di fortune economiche di molti clan. L’abbandono del petrolio si impone non tanto per l’impraticabilità (non dimostrabile) degli ultimi sistemi di lotta alla CO2 (ad esempio: CCS – Carbon capture and storage), quanto invece perché è una risorsa che si sta esaurendo. Bisogna investire nella ricerca sulla fusione nucleare e, per intanto, implementare la fissione; nonché, concertando con gli operatori economici (dei settori dell’energia, dell’industria, dell’agricoltura, dell’allevamento ed automobilistico), avviare un piano di diffusa applicazione e sviluppo sul territorio nazionale dell’idrogeno, delle biomasse, delle filiere corte di produzione agroenergetica, dell’autoproduzione (anche domestica). Per quanto riguarda le biomasse, bisogna puntare alla produzione bioenergetica nei settori che non danneggino la produzione per l’alimentazione umana ed animale (solo ad esempio, in Italia sarebbe ragionevole e proficuo riconvertire una grande fetta della industria saccarifera, largamente eccendentaria). Bisogna applicare a pieno tutte le politiche di razionalizzazione (che vuol dire riduzione) dei consumi energetici (dal cambiamento di mentalità, all’utilizzo di diversi materiali e tecniche di costruzione degli edifici, ecc.). Quanto il tema dello sfruttamento a scopi energetici delle risorse del pianeta sia connesso alla giusta distribuzione delle possibilità per tutti i popoli del pianeta, è inutile dire; ed egualmente inutile dire, che l’Occidente assumerà una responsabilità epocale (senza voler essere apocalittici) nell’indirizzare o meno le sue scelte (ed a catena le scelte dei paesi emergenti) su questo tema. Basti menzionare la necessità di scongiurare le prossime guerre per l’acqua.

I meno che possono molto pensano di non aver bisogno della politica, dello Stato e dei suoi costi. Sbagliano a pensare questo: chi più ha, più rischia di perdere, quando dovessero saltare tutte le garanzie dell’ordinamento giuridico, perché – in aperta savana – potrebbero trovarsi prima o poi davanti ad uno più potente e/o violento che li spoglierebbe di tutto.

Comunque lo scopo di una buona politica non è piegarsi a questi errori, ma prendersi cura dell’interesse generale, che è di gran lunga più vicino ai più che possono ben poco.

Una politica che si faccia irretire dalle sirene delle scuole economiche liberiste sposta le lancette del pensiero economico e politico ai primordi della rivoluzione industriale, dimentica l’esperienza del 1929. Va quindi bandita dal programma politico la tesi che sostiene che l’abbassamento della tassazione sia l’ottimo paretiano.

Questo cambiamento di pensiero ed azione vuole essere la riscoperta della matrice fondante della socialdemocrazia: infatti essa nasce per elevare i più alle stesse opportunità di piena affermazione personale dei meno. L’eguaglianza non è intesa in senso morale, ma va ancorata al dato economico di pari chances di affermazione, partendo da un minimo necessario alla soddisfazione dei bisogni primari. Infatti la democrazia, necessitando, come qualsiasi tipo di organizzazione istituzionalizzata della società, di una gerarchia e specializzazione dei ruoli, ha la particolarità, opposta alle autocrazie, di postulare che ogni singola generazione possa e debba svilupparsi e cimentarsi nella scalata sociale. Se è vero che in ogni organizzazione ci sono dei vertici che decidono, è pur vero che in democrazia questi vertici (orientati dalla comunanza ideologica con il loro elettorato, che è il collante e la garanzia della loro rappresentatività) debbono avere un ricambio (vorticoso se confrontato con le autocrazie), basato sul merito e sulle pari opportunità di accesso agli strumenti di crescita culturale, che vuole dire affrancazione dall’indigenza economica, tutela sanitaria, tutela scolastica, tutela del lavoro (anche nella realizzazione della massima e dinamica occupazione), normale soddisfazione dei bisogni (anche sofisticati) delle persone.

Tutto ciò ha un costo. La socialdemocrazia nasce per redistribuire indirettamente la ricchezza attraverso la fornitura di tutte queste tutele. E la socialdemocrazia è figlia del liberalismo, per cui la sua funzione coincide con lo sviluppo del sistema economico. È la sua valvola di sicurezza, riconducendo a razionalità la sua intima pulsione a collassare su sé stesso come fosse attratto e divorato da un buco nero al suo interno; garantisce la perpetuazione della circolazione dei beni e servizi (vera circolazione sanguigna del sistema) contro l’indomita pulsione di morte che, altrimenti creerebbe il buco nero attraverso i vari gradi delle concentrazioni. La vita del mercato è nella diffusa capacità di consumo di beni e servizi. La socialdemocrazia dovrebbe riappropriarsi dell’idea di chiedere alla collettività di contribuire con progressività ai costi di una società eticamente giusta perché economicamente razionale; questo perché una società giusta corrisponde alle necessità del mercato. Esso vive e si sviluppa per via di un alimento che non sta nella natura intima dell’operatore privato, ma che offre congenitamente solo lo Stato democratico ed il suo ordinamento giuridico: la concorrenza.

La socialdemocrazia non deve temere di contrastare il dogma dell’abbassamento della tassazione: questo è un falso culturale che i meno hanno escogitato da diversi decenni (in Italia tale tema era un refrain che deliziava la Camera dei deputati, grazie ad uno sparuto numero di deputati fascisti, nella primavera del 1921) per avere il consenso di grandi fette dei più. Infatti, è soprattutto con il democratico suffragio universale che si è acuita l’esigenza della conservazione di offrire falsi miti per creare un collante ideologico con i meno: un collante ideologico che ovviamente non può fondarsi su una visione realistica degli interessi materiali, economici, culturali, ma deve poggiare su una manipolazione della realtà. I moderni sistemi di comunicazione di massa offrono a questo proposito uno strumento formidabile.

La socialdemocrazia non deve nemmeno temere di contrastare il mendace dogma della crescita continua (impossibile sul solo pianeta che noi momentaneamente occupiamo). La crescita non deve essere vista come fattore determinante il miglioramento diffuso delle condizioni di vita e di piena realizzazione delle persone. La crescita può essere semplicemente un risultato, una spia, del funzionamento razionale del sistema economico di produzione e distribuzione di merci e servizi. Ma, in natura, e data la limitatezza delle risorse anche delle comunità umane, non può esservi sempre, né essere costante. Purtroppo viene usata come una escamotage per provare a posporre nel tempo il momento della redistribuzione delle risorse, nelle varie forme che abbiamo detto.

Una politica che si richiami ad ideali di popolarimo, socialismo, liberaldemocrazia, deve porre al centro della sua azione costante il binomio imposto dalla natura del sistema economico delle comunità umane, da quando l’uomo è divenuto un animale stanziale. Tale binomio è quello che lega la stabile efficienza del sistema economico alla costante azione redistributiva dell’ordinamento giuridico e dell’organizzazione pubblica. Quindi, la rigenerazione della domanda di beni e servizi, motore primo del processo economico, si ottiene attraverso la redistribuzione delle risorse, considerando un sistema integrato lo stato sociale, il fisco, i salari, i prezzi, le tariffe dei servizi, le remunerazioni professionali, ecc..

Il suddetto programma politico di allargamento ai più della possibilità di fruire di condizioni economiche che consentano una piena realizzazione della persona, del lavoratore, del consumatore, del genitore, del figlio[3], trova giocoforza l’opposizione dei gruppi ristretti che detengono la maggiore quantità delle risorse economiche. Bisogna, infatti, ricordare che le risorse e, soprattutto, i processi socioeconomici che le generano, sono delimitati per ragioni naturali[4] e per ragioni strutturali delle società[5]. Data la limitatezza delle risorse naturali e delle risorse sociali, consegue che il legame tra giustizia redistributiva ed efficienza economica ha due corollari diretti:

  1. La giustizia redistributiva è garanzia che il sistema economico non imploda soffocato dalla concentrazione delle risorse, che annulla la circolazione, con la connessa incapacità di assorbimento della produzione attraverso il consumo;
  2. La giustizia redistributiva è garanzia che il sistema economico non travalichi, oltre che i limiti delle risorse sociali, anche quelli delle risorse naturali disponibili nel pianeta, distruggendo gli ecosistemi, perturbando gli equilibri climatici, spogliando le generazioni future di analoghe possibilità di vita sulla Terra.

Una forza politica che si richiami a tale programma deve sempre mettere in conto un duro contrasto. Vi sono due condizioni storiche che rendono più aspro tale contrasto:

1)            La condizione di una società con sempre più grandi divaricazioni economiche tra i più ed i meno che detengono la gran parte delle risorse del paese. Infatti, la società non è più preda di esigue oligarchie economiche, ma la sempre più grande concentrazione delle risorse si è articolata in una meno ristretta platea di ceti professionali e del lavoro autonomo (i meno sono diventati molti). Questa tendenza è stata assai accentuata in Italia da una normativa fiscale di privilegio nei confronti del lavoro non dipendente, qualificato o meno.

2)            La presenza di mass-media, come fattori di creazione culturale, e quindi formazione di ideologia politica dei più. Anche da questo punto di vista la situazione del paese è assai particolare, data la concentrazione anche del sistema dei media in mano a pochi operatori privati, una sudditanza dell’esercente pubblico, ed il ruolo politico del principale operatore privato.

Dato il quadro, una forza politica che persegua quegli obiettivi, non potrebbe immaginare di sottrarsi da una – più o meno – lunga azione di analisi, studio, elaborazione, proposta di azioni coordinate per avviare quel programma. Non potrebbe pensare di ottenere sconti sul lungo cammino culturale che deve fare, e far fare al paese; non dovrebbe pensare che possa affidarsi ad una politica di alleanze che consenta di saltare le tappe, bruciare i tempi del percorso culturale suddetto: dato che gli altri partiti non possono condividere assolutamente quel programma. Una simile tentazione non sarebbe assai dissimile dall’abbaglio che portò il socialismo a lasciare la pratica del riformismo per inseguire l’ubriacatura dell’azione diretta, violenta, della rivoluzione, per accorciare i percorsi propri dell’evoluzione sociale.

Quindi, l’azione politica culturale deve puntare alla conquista del consenso maggioritario ottenuta con le proposte concrete – offerte agli elettori – sui vari temi. Dato quel programma, data la condizione delle società attuali, ed italiana in particolare, la conquista del consenso sarà, per forza di cose, graduale, e, come sempre, mai definitiva. Chiaramente ci si potrebbe augurare che quella data forza politica possa esprimere l’indirizzo politico di governo vincendo ad ogni successiva elezione, ma tale atteggiamento non sarebbe realistico. Vincere invece con alcune forze della conservazione, ovvero portatrici di interessi corporativi, servirebbe solo a far occupare incarichi e poltrone di governo ad esponenti di quella data forza politica, ma per fare nulla di quel programma. Andare al governo in coalizione con forze che non consentissero non dico la realizzazione completa di quegli obiettivi, ma neppure di andare gradatamente verso di essi, sarebbe il tradimento più grande.

Tradimento a sé stessa, agli elettori antichi, a quelli via via conquistati agli ideali della giustizia sociale come fattore primo dell’efficienza del sistema economico.

La conquista politica del consenso, voto per voto, è conquista lenta e graduale, perché è conquista sul piano culturale; ma perciò stesso è conquista duratura, che consente di mettere le mani sul paese e trasformarlo; togliergli la gobba, non continuare a vestirlo camuffandola.

vedi l’articolo pubblicato su Mondoperaio: Elogio-dello-Stato-fiscale


[1] Si spingono addirittura a sostenere che gli iniziali prezzi di vendita delle azioni delle società che fanno ingresso nel mercato borsistico siano ampiamente gonfiati. Senza arrivare ad ipotizzare accordi illeciti con le società di valutazione e le banche, tale risultato sarebbe prodotto anche solo dal semplice funzionamento della forchetta di oscillazione del prezzo, che viene dichiarata nel prospetto dell’offerta di vendita, e che, registrando le richieste di acquisto via via arrivate, fissa definitivamente il prezzo dell’azione, allo scadere del periodo della stessa offerta, puntualmente sull’estremo più alto.

[2] Magari anche solo per mantenere in vita un mercato (come quello italiano) che comunque assorbe una gran fetta di merci e servizi prodotti nei paesi finanziariamente sani (come la Germania).

[3] Uso il maschile, secondo la lingua italiana, come neutro, valido anche per il femminile. Evito la falsa contrapposizione tra le generazioni sulla questione delle tutele del lavoro.

[4] Si vedano le materie prime.

[5] Si consideri, per esempio, che non sarebbe economicamente possibile che la quasi totalità di una comunità esercitasse gli impieghi più qualificati e perciò più remunerativi, per la semplice ragione che essi non manterrebbero più tale caratteristica, dovendosene ridividere l’utilità marginale prodotta per la società, quindi il valore, il costo, entro una assai più ampia cerchia di esercenti.

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