Così la Milano degli eccessi è stata tradita dalla “fresca” – Tra eccessi, soldi facili e volgare ostentazione la città della borghesia, della finanza e dell’industria è diventata una macchietta. Ora viviamo come in una parodia che mette un po’ di tristezza

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alessandro Robecchi
Fonte: La stampa

«Fare ballare la fresca». Segnatevi questa frase, ci arriveremo. Per il momento si sappia che è un gergo milanese (ma nemmeno! La caricatura di un gergo milanese) che sta per: spendere soldi, molti, buttarli dalla finestra, ostentare lo spreco, l’equivalente di accendersi il sigaro con un biglietto da cento dollari. Il tutto ambientato nell’immediata periferia della Stazione Centrale di Milano, via Napo Torriani, location già leggendaria (leggi: instagrammabile) della Gintoneria, in questi giorni nota – notissima – alle cronache. Ultima fermata, insomma, per chi ama la fenomenologia dei ricchi scemi, il posto dove quel certo Davide Lacerenza con i suoi sodali, soci, amici, l’ex fidanzata promossa contabile Stefania Nobile, con Wanna Marchi annessa, metteva in scena la parodia aggiornata delle Mille e una Notte per poveracci con – appunto – tanta fresca in tasca. Clienti compresi, disposti a pagare diverse carte da mille (diversi k, dicono lì) per bottiglie rabboccate, champagne vintage, ragazze un po’ meno di lusso, cocaina bianca, cocaina rosa, e giù per li rami di un degrado post-borghese, più simile a un porno amatoriale che a un disegno di Grotz.

Ma andiamo con (dis)ordine.

La città di Milano, capitale morale, se riuscite a dirlo senza ridere, fu narrata in altri tempi con alta maestria letteraria. Da Testori a Bianciardi, per dire, fino a Jannacci, Dario Fo, Beppe Viola, Scerbanenco e mille altri (lasciamo stare Gadda: un altro campionato), che sapevano giostrare nei chiaroscuri, tra le luci abbaglianti del benessere e il buio fitto di quelli che non ce la fanno.

Vennero gli Anni Ottanta, il decennio lungo almeno quanto il Novecento fu il secolo breve, e quella narrazione si divise in due rette distinte ma convergenti. La prima: il racconto ideologico della Milano da bere, tutti ricchi, Silvio&Bettino, la réclame che diventava spot, cornucopia infinita di «dané» (ah, la fresca!), le pennette alla vodka, il «modello Milano». La seconda, più invisa agli intellô progressisti ma pesante assai sull’immaginario collettivo: il cinepanettone, dove il milanese è per convenzione «il pirla coi soldi», uno col Ferrarino, l’amante vistosa, l’accento da «cumenda», la vacanza a Cortina e infinite variazioni sul tema. I due rami convergevano, dannazione, e Milano – la mia Milano, quella che accoglie tutti, medaglia d’oro della Resistenza – diventava la macchietta di se stessa, una parodia volgare e prevedibile, foss’anche divertente, ma alla fine – il genius loci non scherza – triste.

Ed ecco che possiamo tornare in via Napo Torriani, alla Gintoneria, nipote di quell’impasto diabolico che vuole la grana, la fresca, i dané, come pilastro di una weltanschauung che non ne conosce più altri, di pilastri.

Non è la prima volta.

Si finse stupore quando alle cronache, invece del lupanare di Lacerenza & Co, balzò l’attico superlusso chiamato «Terrazza Sentimento», dove il milionario criminale Alberto Genovese offriva a tutti coca, feste, balli e tuffi in piscina, tenendo per sé (e filmandole) orrende violenze sessuali, sadismi vari, brutalità. Arrivò un’ondata di sdegno, a braccetto con la sociologia spicciola: i soldi facili, il senso di impunità, e la bella gioventù dell’upper class che ronzava intorno ai vassoi di cocaina in omaggio. Degrado, si disse, ed era il minimo sindacale. Ma anche il segnale di un cambiamento nella struttura sociale della città, un aggiornamento dei suoi miti.

La spina dorsale di Milano, la piccola e media borghesia produttiva, gli impiegati, i professori, i capifamiglia monoreddito, stritolati dalla crisi, dai salari fermi, se ne stavano acquattati, annichiliti, impauriti dallo scivolare verso la povertà; e in primo piano balzavano i maranza trap delle periferie, oppure i balordi festaioli col rotolo di contanti in tasca. Non più imprenditoria, industria e finanza, ma hype social e autopromozione, ostentazione burina e schiaffo alla miseria, volgarità scambiata per «colore locale» e folklore gossip da celebrare con un sorriso condiscendente. Una mutazione genetica.

Alla Gintoneria, forse, nessuno si è fatto male, a parte i clienti spennati e il povero cretino che ci ha lasciato in tre anni, tra coca, champagne e señoritas, 640.000 euro, peggio per lui. Eppure un dolore c’è: che quella roba, oggi, passi per «Milano», che confonda caricatura e realtà.

Davide Lacerenza che innaffia «il ferro» (la Ferrari a noleggio) con il Dom Pérignon, i racconti compiaciuti di quel «Filippo Champagne», un Cipollino senza risate, le registrazioni delle povere ragazze chiamate «cavalle» e affittate al miglior offerente, i resoconti di quanti k ha speso Tizio e quanti Caio. Tutto filmato e in bella vista su Istagram e Tik Tok, tutto «in chiaro», tutto documentato come a costruire una mitologia che di mitologico non ha niente: finita la fresca, chiuso il locale, prosciugata la grana, fine del mito, tutti a casa, qualcuno ai domiciliari.

Ma poi: mica tanto caricatura, in una città dove potevi tirar su un grattacielo fingendo una ristrutturazione, e poi lamentarti se si bloccava tutto leggi alla mano, «fermando lo sviluppo», cioè il giro della fresca. Un posto con salari italiani e prezzi newyorkesi, i meno abbienti espulsi verso l’hinterland e la riccanza che conquista terreno.

Forse una metafora, allora: Milano nello specchio deformante, con il video della ragazza, probabilmente di quelle a tassametro, che insulta i poveri («Poveri di merda… qui non li vogliamo, i poveri»), o Filippo Champagne che dice che lì non spacciava nessuno e che la droga la vendono «I neri della Stazione Centrale», tanto per confermare che l’immunità, qui e ora, la fornisce «la fresca che gira».

Perché le caricature, anche le più brutte, alla fine, qualcosa di vero lo contengono.

 

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