di Alfredo Morganti 26 ottobre 2016
Ci sono i vincenti e ci sono i perdenti della globalizzazione. Ci sono quelli che dalla crisi ci hanno guadagnato e quelli che ci hanno perso, se è vero che le disuguaglianze sono cresciute. Ci sono aree mondiale (e del nostro Paese) che hanno tenuto e aree che sono state colpite dalla crisi in modo profondo, devastante, ultimativo. La globalizzazione, le politiche neoliberali, la crisi economica non hanno generato solo cenere e deserto, ma hanno diviso il mondo in due, più di prima, con effetti pesanti sulla ridistribuzione delle ricchezze. Anche per questo crescono i fenomeni migratori. I poveri, i profughi seguono sempre le risorse nelle loro diaspore. La disuguaglianza che cresce produce una crescita della povertà. Anche per questo la rabbia sociale si scatena contro altri poveri, in una guerra miserevole. La Brexit è stata sostenuta anche dai perdenti, da chi la crisi l’ha sofferta, dai disoccupati, dai giovani senza prospettive, da chi sta ai margini, da chi del cosmopolitismo non sa che farsene, visto che vive in spazi localizzati e sempre più circoscritti. Il sociale, come al solito, manda dei messaggi che si tratta di capire profondamente, senza pregiudizi. Tanto più in tempi di crisi della politica, della sua capacità egemonica, di mediazione, nel vuoto della coesione sociale che si frantuma. Crisi della politica che diventa, sotto il maglio delle economie stagnanti, anche crisi della democrazia. Terreno fertile per chiunque voglia strozzare il nodo della rappresentanza, verticalizzare il comando, preparare qualche avventura.
Dinanzi ai fatti di Gorino, mi chiedo perciò: quelli che hanno fatto le barricate contro donne e bambini sono dei vincenti o dei perdenti? Sono quelli che ci guadagnano dalla crisi o quelli che ci rimettono? È protervia razzista, è boria dei benestanti contro i poveri che vogliono disturbare la loro vita nel borgo, oppure è rabbia sociale mal espressa, di chi vede arretrare le proprie speranze, e che in tempi di vuoto individualistico si trasforma in guerra dei meno poveri contro i più poveri? Piuttosto che dei poveri verso i ricchi? Questa domanda, se si tratti di vincenti o perdenti, se il fenomeno possa circoscriversi almeno potenzialmente al progresso o alla reazione, alla politica o al razzismo, è decisiva per capire il da farsi. Senza rispondervi non ha nemmeno senso indicare ‘che fare’. E ancor meno dire ‘come’. Ai tempi dei grandi partiti sarebbe stato più chiaro subito. In tempi dove l’azione politica non era solo consenso mediale, i cervelli funzionavano meglio e con più efficacia. Quello era il tempo dei partiti e dei leader, e non di outsider alla meno peggio, che hanno scalato partiti alla meno peggio. Oggi no. Oggi, anche per questo, le domande spesso restano domande, e le risposte sono il più delle volte sbagliate. E manca un partito, o meglio un sistema dei partiti e della rappresentanza, che con quelle persone ci parli, sappia indirizzare altrove la protesta, produca interlocuzione e dialogo sociale. E distolga l’attenzione dal vincere, dal perdere, dalle percentuali, dagli schemi. Alzando, finalmente, la testa dai tabulati dei sondaggi.