Fonte: Il Fatto Quotidiano
Guevara, l’ultimo Don Chisciotte
Il “Che”, uomo libero – Fu un paradosso che sia divenuto un mito del ’68, di quei cortei che inneggiavano a Stalin, a Berija e alla polizia politica. Lui che mollò pure Castro e il suo autoritarismo per un’altra rivoluzione
L’anniversario della morte di Ernesto Che Guevara, ucciso in Bolivia il 9 ottobre 1967, è passato inosservato e del resto dello stesso Che, oggi, si ha solo una conoscenza molto vaga.
La prima volta che seppi di Guevara fu nel ’57. A quell’epoca Guevara non era ancora un mito della sinistra tanto che il mio “incontro” con il Che avvenne sulle pagine di Gente, il settimanale diretto da Edilio Rusconi che di tutto poteva essere sospettato tranne che di pruriti rivoluzionari. Si trattava di un servizio fotografico. Mi ricordo in particolare un’immagine di Guevara a torso nudo sdraiato mollemente su un fianco sopra un lettino da campo. La mia fantasia di adolescente fu colpita dalla straordinaria bellezza dell’uomo. Nelle didascalie si raccontava di questo giovane medico argentino che, con altri ribelli, era sbarcato nella Cuba di Batista a combattere per la libertà di un Paese non suo. Il settimanale di Rusconi gli dimostrava simpatia. Lo interpretava infatti come un eroe romantico, un “cavaliere dell’ideale” in fondo innocuo. In quegli anni il mondo non era ancora così integrato, “globale”, come oggi. E quello che avveniva nella lontana Cuba poteva essere considerato con un certo distacco dai conservatori di casa nostra.
Il giorno che si seppe della morte di Guevara, Tommaso Giglio, il mitico direttore dell’Europeo, mandò Franco Pierini, il nostro miglior inviato, a La Higuera col compito di intervistare l’uomo che aveva ucciso il Che. Impresa che pareva impossibile. Dopo nove ore di volo per Bogotà e poi lo spostamento a La Higuera Pierini si trovò di fronte un’impenetrabile cortina di guardie del corpo che proteggevano l’assassino. Aveva pochissimo tempo. Due giorni. Era lunedì e il giornale doveva essere pronto per il giorno d’uscita, mercoledì, altrimenti avrebbe perso lo scoop. Pierini telefonò allora a Giglio dicendo che la cosa era impossibile. Giglio rispose: “Farai bene a trovarlo perché ho già fatto la copertina che dice: ‘Abbiamo intervistato l’uomo che ha ucciso Che Guevara’” e sotto l’adrenalina che il terribile Giglio ti metteva riuscì nell’impresa. Questo dice, non solo e non tanto del modo di fare giornalismo di quei tempi, ma soprattutto dell’importanza che aveva Guevara allora.
I sessantottini fecero di Guevara un loro mito. Del tutto arbitrariamente. Se proprio si vuole si può ritenerlo un’espressione del movimento hippie per certe azioni un po’ goliardiche che aveva avuto nella prima giovinezza: medico, dopo aver vivisezionato un corpo all’obitorio, ne portò, come se nulla fosse, l’intera gamba su un autobus.
Espressione dell’atmosfera sessantottesca che si respirava negli anni Sessanta? Non diciamo cazzate. È sotto le mura della Statale che ho sentito scandire il rabbrividente slogan: “Viva Stalin, viva Berija, viva la GPU” ed era la prima, e spero l’ultima, volta che si inneggiava a una polizia politica e al suo capo. E non ce lo vedo proprio il Che inneggiare non dico a una polizia politica e più generalmente al Potere che ha sempre disprezzato tanto da abbandonarlo quando, divenuto ministro dell’Industria con Castro, se ne andò ritenendo che il castrismo avesse preso una deriva autoritaria. C’è una bella e affettuosa lettera a Fidel dove, non rinnegando nulla del passato, pensa di poter portare gli ideali della Rivoluzione cubana in un altro Paese, la Bolivia. Un’altra causa non sua e persa in partenza, che gli costerà la vita.
Sulla dittatura di Castro c’è però da dire qualche altra cosa. Ci si dimentica che prima di lui a Cuba comandava Batista che aveva fatto di quell’isola un casinò per i ricchi americani. Del resto Cuba, inserita come da regola nell’“asse del Male” se è diventata comunista non ha perso però i suoi connotati socialisti: la sanità e l’istruzione sono gratuite. Poi le infrastrutture sono allo sfascio come in tutti i regimi comunisti, ma questo senso di solidarietà sociale i cubani lo hanno conservato, tanto che durante il Covid mandarono in Italia cinquanta medici per darci una mano (naturalmente per i media italiani, da sempre sudditi degli yankee, erano spie come spie erano i medici militari russi che furono inviati da Putin nel nostro Paese).
Nei primi tempi della Revolución, ministro, si dava da fare anche partecipando al lavoro sui campi.
Il Che era un uomo dolcissimo. Sia durante l’apprendistato rivoluzionario, cioè l’avvicinamento all’Avana, sia dopo, quando ebbe il potere, trovava il tempo di scrivere ai familiari, in particolare alla madre e alla nonna. Il padre di Guevara, Rafael Guevara Lynch, che apparteneva alla medio alta borghesia argentina si meravigliava che “questo mio figliolo così affettuoso sia potuto diventare un rivoluzionario”. Affettuoso sì, ma intransigente. Quando i familiari del Che andarono all’Avana per incontrare il figlio furono trattati con affetto, ma messi nella condizione di tutti gli altri.
I comunisti italiani, a loro modo, furono più coerenti nei confronti di Guevara. Mi ricordo di sprezzanti giudizi di Giorgio Amendola che gli rimproverava, forse non a torto dal suo punto di vista, una certa vaghezza ideologica, di essere un byroniano, un esteta, un Oscar Wilde delle armi, un dandy della Rivoluzione. Inoltre non sta nel Dna positivista dei comunisti che uno che ha preso il Potere lo abbandoni. Lo consideravano un segno di debolezza. Ma il Che non era un uomo ideologico, era un uomo d’azione.
Guevara soffriva da sempre di asma, per rimediare in qualche modo, quando era ancora in Argentina si mise giocare a Rugby. Ma una volta, sulla Sierra, fu colpito da un tremendo attacco e dovette stendersi a terra con la sola speranza che i nemici non arrivassero. Si salvò, anche grazie all’aiuto di un compagno.
Tutti gli uomini di potere, anche quelli non spregevoli, hanno un’arma decisiva per offendere e difendersi: il cinismo. Il Che ne mancava completamente, era un Don Chisciotte trasportato dalla Spagna al Sud America.
Nel frattempo i fasulli sostenitori di Guevara, a sinistra come a destra, sono diventati manager e imprenditori che esercitano il loro potere con un cinismo che farebbe invidia a quei “padroni delle ferriere” che fingevano di contestare.
Fosse di sinistra o di destra, o tutte due le cose, o nessuna, Guevara rimane un esempio, pressoché unico nel mondo moderno, dominato dal realismo e dalla forza del denaro sempre più prepotenti (“In un mondo dove il male è di casa e ha vinto sempre, dove regna il capitale, oggi più spietatamente” Guccini, Don Chisciotte, 2000).
Il Che quindi è dimenticato. Ma per noi, che fummo anarchici e libertari nella nostra adolescenza e lo rimaniamo, Ernesto Guevara de la Serna è un mito che non rinneghiamo.
“Hasta la vista, hasta siempre, comandante Che Guevara”.