Fonte: facebook
di Gianni Cuperlo – 28 agosto 2014
Non prendete questo post come una provocazione. Non lo è. Un po’ abbiamo imparato reciprocamente (voi e io) a prenderci le misure su questo spazio. Se vi va di arrivare al fondo (del post), magari risulterà più chiaro il senso.
Allora, non so voi ma a me questa idea che nel calcolo del Pil si andrebbero a integrare le attività illegali o criminose mi pare una follia, e a dirla meglio una vergogna. Da qualche giorno volevo tornarci su, poi le cose del mondo hanno avuto la meglio. Provo a farlo oggi usando lo schema di una lettura maturata qualche anno fa. L’autore è un economista (cattolico, se la cosa può avere un peso, ma in questo caso ce l’ha). Lui si chiama Luigino Bruni e il testo che mi faceva piacere offrirvi è dedicato al legame tra l’economia e la felicità. Scelgo questo perché l’abbinamento, mai come oggi, credo abbia un senso e perché nulla è più lontano da quel legame che il computo di contrabbando, traffico di droga o prostituzione dalla valutazione della nostra ricchezza. Ok, la parola a Luigino Bruni.
“La carestia di felicità, dovuta alla povertà delle relazioni, può diventare più disastrosa e disumanizzante della carestia di cibo.
L’economia ha creduto per lungo tempo di poter fare a meno di entrare nel territorio delle relazioni umane.
Amartya Sen e altri economisti “sociali” inglobano nel concetto di qualità della vita nuovi indicatori (democrazia, capitale sociale, salute, condizioni di lavoro, capacità fondamentali). Nasce così l’Indice sullo sviluppo umano dell’Onu, è il cosiddetto capabilities approach (misurare il benessere individuale sulla base di ciò che la gente è in grado di fare con i beni e con se stessa).
La scienza economica nel concentrarsi sulle sue variabili di fondo (reddito, ricchezza, consumo) trascura componenti essenziali della felicità o dello star bene (well being) delle persone. Salute, partecipazione alla vita democratica, stimoli sociali, le libertà, l’altruismo, il grado di diseguaglianza, le aspirazioni.
Veblen già alla fine degli anni ‘40 in un saggio (Teoria della classe agiata) spiegava perché nelle società contemporanee si assiste a un aumento del consumo “vistoso” con una perdita delle relazioni sociali, tipica delle società moderne. Nei villaggi o nelle comunità piccole, lo status si comunica in molti modi e i mezzi simbolici per rinsaldare la propria posizione sociale sono numerosi. Nelle anonime società odierne il consumo resta di fatto l’unico mezzo per dire ciò che siamo. Quindi l’acquisto di beni serve a comunicare anche la nostra identità. La competizione nelle società anonime è alimentata solo dai beni.
L’economia fatica a scorgere nella socialità in sé una forma di soddisfazione e felicità. Si può dire che la produzione teorica attuale è quasi interamente interessata a spiegare l’infelicità, non la felicità in rapporto alle scelte e alle variabile economiche.
La parola greca eudaimonia può essere tradotta con felicità non senza un impoverimento del concetto. Infatti l’espressione greca significava il sommo bene che l’uomo può realizzare, “il più alto dei beni raggiungibili mediante l’azione” (Aristotele, Etica Nicomachea).
La felicità non è quindi mai un mezzo ma solo fine, anzi l’unico fine costitutivamente non strumentale che l’essere umano persegue nella sua attività, Per questo essa e definita il “fine ultimo”, perché oltre essa non c’è nulla.
Perché Aristotele? Perché la sua eudaimonia segnerà le direttrici del dibattito sulla felicità in Occidente, modernità e contemporaneità comprese, anche in economia.
La felicità non è una realtà statica, è attività dinamica, arriva solo come effetto e premio delle virtù. E un vivere bene, una vita buona, un realizzarsi. In Aristotele la felicità è strettamente connessa all’etica e alle virtù , intese non tanto in senso moralistico , ma di azione.
In tutta la sua etica Aristotele cercò per questo di separare l’eudaimonia sia dalla fortuna che dal piacere. Voleva distinguere la sua teoria (chiamata anche eudamimonismo) dall’edonismo di Aristippo e della sua scuola. Per questo motivo nel mondo anglosassone i filosofi neo–aristotelici hanno preferito tradurre eudaimonia non con happiness ma con human flourishing (fioritura umana.).
“Il fine della politica è la felicità”, così recita Aristotele nel suo testo.
La felicità è il fine della politica poiché questa “pone la sua massima cura nel formare in un certo modo i cittadini, cioè nel renderli buoni e impegnati a compiere azioni belle”. (ecco, vaglielo a dire a quelli del Pil! Questa parentesi è mia, non di Bruni).
In origine i concetti di felicità e di fortuna erano identici. In tedesco gluck significa sia felicità che fortuna. Happiness viene da to happen, accadere, capitare. Con Socrate, e poi con Platone e Aristotele si afferma l’idea che l’uomo con le sue scelte può diventare felice anche contro la sorte. E la strada per raggiungere la felicità è una vita virtuosa: le virtù diventano la strada per la felicità.
Sempre Aristotele: “E’ assurdo fare dell’uomo felice un solitario: nessuno sceglierebbe di possedere tutti i beni al costo di goderne da solo. L’uomo felice ha bisogni di amici”.
La Scuola di Atene di Raffaello è una splendida icona per esprimere le due anime della filosofia greca: Platone, con il Timeo sotto il braccio, indica il cielo, la contemplazione della bellezza in sé ( il “Mito della Caverna” nella Repubblica di Platone afferma che quando colui che si è liberato dai ceppi, il filosofo, e ha contemplato la realtà sotto la luce della verità, torna dai suoi simili ancora in catene, i concittadini, ma non vi torna per costruire con loro la polis, ma per liberarli e condurli alla contemplazione della verità). Mentre nel quadro di Raffaello, Aristotele, abbracciando l’Etica Nicomachea, indica la terra, la vita civile e i suoi paradossi.
I tre principali beni relazionali per Aristotele sono l‘amicizia, l’amore, l’impegno politico.
Interessante è il rapporto che Agostino stabilisce tra infelicità, indigenza e paura. L’Infelicità non è legata alla indigenza o alla ricchezza (anche il povero può essere felice, se intimo a Dio) ma alla paura. Il Ricco sa che i suoi beni sono soggetti alla fortuna, e se ripone la sua felicità sui beni è infelice a causa della paura di perderli (discorso ancora di grande attualità).
Come per Aristotele e per Agostino, anche per Tommaso la felicità è il fine ultimo dell’uomo.
Il modo usuale di raccontare il passaggio dal Medioevo alla modernità è incentrato in quella età di passaggio formidabile che è l’Umanesimo.
La lettura storica più seria è quella che vede l’Umanesimo come il fiorire della semina medioevale, lettura che quindi supera la pure affascinante creazione dell’Umanesimo civile, per opera di Garin.
Basti pensare alla grande esperienza dei monasteri prima e dopo l’anno Mille, laboratori dove maturarono le prime categorie economiche moderne e anche le prime forme di contabilità. Oppure basti pensare alla riflessione francescana sui beni e sulla ricchezza, che portò i Minori osservanti a dar vita al fenomeno dei Monti di Pietà, un’esperienza di economia civile in pieno Umanesimo, originata non dalla reazione laica alla Scolastica, ma da una maturazione interna della Christianitas. Se dimentichiamo questo rischiamo il paradosso di non considerare “civili e umanisti” Dante, Petrarca, Boccaccio, Francesco.
E’ forte nell’Umanesimo l’esigenza di tornare a guardare a Roma e alla Grecia. Questo ritorno all’antico è importante perché sottolinea quanto i nuovi “umanisti del 400” considerassero le categorie del pensiero medioevale, tutte fondate sul Cristianesimo, incapaci di fornire radici profonde alla trasformazione civile ed economica. Ed è per questo che pensano di trovare quelle radici in un ritorno alla Grecia come paradigma per costruire nuove polis, per rifondare il civile.
All’Umanesimo sono normalmente associati due elementi di base: la riscoperta della cultura classica (greca e latina) e la necessità, per una vita pienamente umana, della vita civile. Il secondo elemento costituisce lo specifico dell’Umanesimo civile che va da Petrarca a Machiavelli.
La tesi di Garin si distanzia dalla tesi di Jacob Burckhardt che vedeva l’Umanesimo italiano come l’origine dell’individualismo moderno. Per Garin ci sono due umanesimi, civile il primo, individualistico il secondo.
L’Umanesimo presenta, dunque, due anime ben distinte che sono, a guardarle bene, le due anime che hanno accompagnato la parabola occidentale dalla sua alba greca: quella civile-attiva-aristotelica-cic
Non c’è felicità disgiunta dalla vita civile: questo è uno dei messaggi di fondo dell’Umanesimo. “Se è ottima cosa dare la felicità ad uno solo, quanto sarà più bello conquistarla a tutto uno Stato?”. Sono queste le radici della Pubblica Felicità, che diverrà il tema dominante della tradizione italiana nel Settecento.
La stagione dell’Umanesimo civile fu breve. L’esperienza della libertà e della Repubblica cedette il passo alle Signorie, ai Principati e alle Monarchie assolute che diedero vita a un epoca di autoritarismi.
Non è un caso quindi che con la fine del ‘400 la riflessione sulla vita civile subisca un arresto. Anche la felicità diventa ora una faccenda individuale ed epicurea, come i vari trattati di questo periodo sulla felicità stanno ad indicare (Marsilio Ficino, Lorenzo de’ Medici, Pico della Mirandola scrivono che la felicità va cercata nella fuga dalla città e che la vita in comune porta solo sofferenze).
L’ultimo Medioevo e l’Umanesimo avevano aperto prospettive e speranze di pace e di vita civile, ma il processo non maturò. Fu un’alba incompiuta. Da questa prospettiva va inquadrata anche la fioritura nel ‘500 e nel primo ‘600 della letteratura sulle “utopie” (Platone ispira soprattutto gli scritti di Thomas More, Campanella, Bacone).
Passata l’illusione, cara al primo Umanesimo, di una possibile coincidenza delle due città, reale e ideale, subentra la visione utopica di quella illusione.
Tra l’Umanesimo civile e la modernità si creò quindi una frattura. Un certo ruolo in questa frattura lo hanno svolto la Riforma e la Controriforma la quale reagì alla valorizzazione dell’impresa e della libertà individuale sottolineata dal protestantesimo. Dal cattolicesimo vennero nuove condanne dell’attività economica e dei commerci, che erano state in parte superate nella stagione umanista.
La riflessione antropologica rinascimentale ripartì dall’individuo. Ma l’individuo di Machiavelli e poi di Hobbes è tutto fuorché civile: malvagio, pauroso, scaltro, divennero gli aggettivi del moderno. Per cui non stupisce che nella filosofia moderna la socialità sia qualcosa di transitorio, accidentale.
Per la modernità l’uomo vive in società perché vi è spinto dalla necessità e dalla paura. La vita in comune è vista come il dato reale della condizione umana, ma è vissuto come un vincolo o un peso. L’uomo è un essere essenzialmente egoista e solo la morale e la vita in comune gli impongono obblighi sociali.
Si afferma un’antropologia che vede l’uomo guidato in ogni sua azione dall’amor proprio, dal self-interest che viene frenato solo dalla collisione con gli altri.
Hobbes, Locke, Hume, Kant, L’Illuminismo francese, Bentham, Nietzsche, Freud, Hayek, Pareto sono tutte tappe attraverso cui l’individualismo prende possesso delle nascenti scienze sociali. Non è una coincidenza che il 1776 segni la pubblicazione della Ricchezza delle nazioni di Smith e la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America, e che nel 1789 abbiano luogo la Rivoluzione francese e l’Introduzione ai principi della morale e della legislazione di Bentham.
La gratitudine che sollecita il dono non è più sostenibile dall’individuo moderno che assegna ad ogni presentazione il suo specifico prezzo.
Machiavelli, sconvolto dall’inciviltà del suo tempo, fondò la politica come ambito autonomo. Le virtù civili si erano mostrate incapaci di mantenere la pace e la coscienza nazionale. C’era bisogno di una diversa giustificazione e la possibilità di una convivenza pacifica. Ecco fare la comparsa la virtù politica (dove politico è opposto a civile). La rivoluzione di Machiavelli si fonda su un’idea di individuo molto distante da quella dei primi umanisti che vedevano la persona come naturalmente socievole. Al cuore della teoria di Machiavelli c’è un radicale pessimismo antropologico fondato sugli eventi storici.
Se l’essere umano è questo, allora la base della vita in comune non può essere l’amore ma il timore. Il Principe è colui che grazie alla sua virtù politica libera i propri sudditi, non più cittadini, dai conflitti distruttivi che gli individui incivili scatenano se lasciati liberi di agire nella città. Un principe che assomiglia molto al Leviathan di Hobbes. Le tesi di teoria politica di Machiavelli discendono dalla sua rivoluzione antropologica.
Anche per Hobbes il punto di partenza per scardinare la concezione classica del civile è una diversa antropologia molto simile a quella di Machiavelli.
Il conflitto, la competizione e la lotta per distruggere l’altro e conquistare il potere sono la condizione ordinaria degli uomini, mentre la pace e la concordia sono stati temporanei. Il fondamento della vita in comune è la paura. Siamo al polo opposto rispetto ad Aristotele e Tommaso.
Non una società-civile che nasce dalla dinamica di persone naturalmente socievoli, ma una società-stato che può esistere solo se un patto artificiale la crea e un Leviatano impersonale la mantiene con la forza.
Insomma per entrambi (Machiavelli e Hobbes) si consuma la scelta di rinunciare al civile per salvare il politico.
Hegel, interpretando in modo riduttivo Smith, fa coincidere la civil society con la commercial society. Il civile diventa sinonimo di economico, dove quest’ultimo è inteso come il luogo degli interessi degli individui e dei rapporti strumentali.
Il principio fondativo del civile/economico diventa pertanto “il fine egoistico”.
Un bellum omnium contra omnes spostato dallo stato di natura hobbesiano alla società civile. Per questa ragione la società civile non è, per Hegel, né la famiglia né lo Stato. La società civile che prima di lui (fino a Locke e Smith) era considerata sinonimo della società politica, finisce ridotta al regno dei soli rapporti economici.
Questa diventa nei fatti la direttrice culturale sulla quale si è mossa la dialettica società-Stato nel XIX e XX secolo. L’economia ha costantemente cercato di inglobare in sé il sociale, mentre lo Stato si è proposto come esclusivo luogo pubblico nel quale le azioni non egoistiche possono trovare posto.
L’idea che l’ordine sociale posa essere una causa importante dell’infelicità umana divenne comune soltanto nell’età moderna, in particolare nel ‘700. C’è una famosa frase di Saint Just: “l’idea di felicità è nuova in Europa”.
La pubblica felicità non fu un prodotto culturale dell’Illuminismo francese poi esportato in Italia e in tutto il mondo. L’espressione infatti compare per la prima volta in un libro del 1749 del modenese Ludovico Antonio Muratori.
Nella premessa di quel libro ritroviamo la tesi chiave dell’Umanesimo civile: l’interesse privato non si risolve naturalmente in pubblica felicità, essendo questa il frutto delle virtù civili.
Muratori scrive il suo libro qualche anno prima dell’esperienza dell’Encyclopédie e delle sue voci economiche che lanciano in Francia e poi in tutto il mondo (celebre l’incipit, “the pursuit of happiness” nella Costituzione Usa del 1776), il tema della felicità pubblica come il grande programma culturale e sociale dell’Illuminismo.
Si può quindi considerare il tema della pubblica felicità del Settecento come l’approdo di un processo iniziato nell’Umanesimo, passato attraverso la letteratura utopica e la crisi del civile, per poi sfociare nella metà del Settecento, grazie anche alle mutate condizioni politiche, nella pubblica felicità.
La Milano di Verri fu un luogo importante per la tradizione della pubblica felicità, che divenne il tema centrale della nascente scuola lombarda: Pietro Verri, Cesare Beccaria e poi Carlo Cattaneo (per citare gli economisti più celebri) fecero di Milano una culla dell’Illuminismo italiano e della tradizione dell’economia civile.
Scriveva Antonio Rosmini nel 1826, “E’ difetto degli economisti, i quali occupati tutti in questa scienza, tutta la felicità dello Stato riducono a lei (la ricchezza)”. Mentre il fine non può essere la ricchezza ma la felicità. (ecco, vaglielo a rispiegare a quelli del Pil!).
Per Pietro Verri la società civile occupa il posto centrale nella dinamica sociale ed economica. Per lui essa è il risultato di una “industriosa riunione di forze cospiranti” che fa sì che si raggiunga “il benessere di ciascuno – il che si risolve nella felicità pubblica, ossia la maggiore felicità possibile divisa colla maggiore uguaglianza possibile. Tale è lo scopo cui deve tendere ogni legge umana”. Verri è fondatore e leader della Scuola milanese di economia che meriterebbe ben più spazio.
Gli economisti della tradizione italiana attribuirono, dunque, alla felicità pubblica una centralità che possiamo considerare come la vera caratteristica di questa scuola.
In Gran Bretagna il tema della felicità non occupò, invece, un ruolo tanto centrale almeno fino all’Utilitarismo.
La scienza economica inglese, almeno nella impostazione datale da Smith, non ha scelto come principale oggetto di studio la pubblica felicità ma appunto la ricchezza delle nazioni.
Ci fu una vera differenza metodologica tra le due tradizioni (italiana e britannica) nella concezione della natura e dello scopo della nascente economia?
Giuseppe Pecchio (1832) lo sostiene dicendo che per gli inglesi l’economia è una scienza isolata, è la scienza d’arricchire le nazioni e questo è l’oggetto esclusivo delle loro ricerche. Gli italiani vedono l’economia come una scienza complessa, come la scienza dell’amministrazione, e la trattano in tutte le relazioni con la morale e con la felicità pubblica.
La scuola inglese ha forse una maggiore scientificità, ma a costo della scelta necessaria di concentrarsi su alcuni aspetti (la ricchezza e la sua distribuzione) tralasciandone altri, tra cui il rapporto della ricchezza con la morale e con la pubblica felicità.
La Napoli illuminista è un passaggio obbligato in una storia della felicità in economia. L’avvento di Carlo III di Borbone (1734-1759) fu un periodo di primavera per Napoli, che continuò anche sotto Ferdinando IV, durante il quale si crearono le speranze per una rinascita culturale e civile e per riforme economiche. In particolare fiorì la tradizione napoletana dell’economia civile. Il leader della Scuola napoletana è il salernitano Antonio Genovesi (1713-1769): l’economia civile di Genovesi è quella più adatta a rappresentare la visione dell’economia e della società della tradizione dell’Umanesimo civile.
Genovesi usa l’espressione “economia civile” nel suo principale trattato economico (Lezioni di economia civile, 1765). Fu allievo di Vico e si mosse sulla direttrice culturale dell’Umanesimo civile e cristiano.
In continuità con Montesquieu ( è sua la tesi del “dolce commercio”) la tradizione napoletana considera l’attività economica come un’espressione della vita civile, vede cioè il commercio come un fattore civilizzante. Come per gli umanisti la vita civile non solo non si contrappone alle virtù, ma è vista come il luogo in cui le virtù possono esprimersi in modo pieno. “In ogni forma di governo ci è un diverso principio motore: il timore negli stati politici, l’onore nelle monarchie, la virtù nella repubbliche” (Filangieri 1780).
Filangieri è quello che meglio mette in luce il nesso commercio-ricchezza.-felicità-
Sia in Genovesi che in Filangieri è forte la convinzione che incivilimento significa equa distribuzione della ricchezza: “le ricchezze esorbitanti di alcuni cittadini, e l’ozio di alcuni altri suppongono l’infelicità e la miseria della maggior parte. Questa parzialità civile è contraria al bene pubblico. Uno Stato non si può dire ricco e felice che in un solo caso, allorché ogni cittadino con un lavoro discreto di alcune ore può comodamente supplire ai suoi bisogni e a quelli della sua famiglia” (Filangeri 1789).
Vico sostiene che Dio, data la fragilità dell’uomo, lo aiuta disegnando nella natura umana e nella convivenza civile una dinamica sociale provvidenziale che orienta le nostre passioni verso il bene comune.
Pietro Verri nel suo Discorso sulla felicità affermava che “la virtù è la base della felicità”, una frase che avrebbe potuto tranquillamente aver preso in prestito da Genovesi (molto popolare e stimato nella Milano del “Caffè”).
Alla base della teoria economica e civile della Scuola napoletana c’è la concezione della socialità e della reciprocità.
Per Genovesi anche il mercato è un luogo dove esercitare la socialità: gli uomini sono stati creati per vivere insieme, per prestarsi reciproco aiuto. La socialità pero non basta, ciò che è tipico dell’essere umano è infatti l’assistenza reciproca, la reciprocità. Per Genovesi anche la vita economica, il mercato, è un luogo di socialità e reciprocità.
Siamo molto distanti dalla impostazione di Machiavelli e di Hobbes che spiegavano la vita in comune come effetto della dinamica di individui a-sociali, impauriti ed egoisti, fondando così il politico sulle macerie del civile.
Nessuno può essere felice se circondato da infelici. Scrive Doria, rivalutando la tradizione dell’Umanesimo civile, “Niuno può essere felice quando tutto il prossimo cioè la Repubblica è misera ed infelice”.
L’economia civile, la sua visione antropologica e sociale, fino ai primi decenni del ‘900 ha avuto un seguito anche in Gran Bretagna, e ancora oggi vive nell’opera di economisti come Amartya Sen.
La frase più celebre di Smith è: “non è dalla benevolenza del macellaio o del fornaio, che ci aspettiamo il nostro pranzo ma dalla considerazione del loro interesse; non ci rivolgiamo al loro senso di umanità ma al loro egoismo, e non parliamo loro delle nostre necessità ma dei loro vantaggi”.
Se collochiamo, però, questa frase nel suo contesto scopriamo una realtà quasi sorprendente. Infatti qualche riga prima di questo capitolo della Ricchezza delle Nazioni, Smith parla della “tendenza a trafficare, barattare e cambiare una cosa con un’altra” che egli considera uno dei principi originari della natura umana al punto che “nessuno ha veduto mai un cane fare un vero e deliberato scambio di un osso per un altro con un altro cane”.
La tendenza a scambiare con gli altri è dunque per Smith un’espressione della socievolezza della natura umana, che nella società civile si può esprimere nella sua pienezza grazie alla divisione del lavoro, che fa si che ciascuno abbia un costante bisogno degli altri, non potendo provvedere da solo o con la sua famiglia a tutti i suoi bisogni.
Smith riconosce che sarebbe più umano e bello ottenere i servizi dagli altri grazie all’amicizia o all’amore, ma “la durata di tuta la vita ci basta appena a guadagnarci l’amicizia di pochi”. E sebbene Smith affermi che per il funzionamento del mercato non è richiesta la virtù dell’amore, al tempo stesso nella sua Teoria dei Sentimenti Morali ci ricorda che anche al mercato occorrono, come elementi essenziali, altre virtù, quelle civili, come la prudenza o la giustizia.
Ovviamente in lui c’è la consapevolezza del ruolo essenziale dello Stato, pensiamo all’enfasi che pone sulla diffusione dell’istruzione. Lo Stato serve a creare le condizioni perchè l’uguaglianza tra gli attori del mercato sia effettiva, perché i “mendicanti” possano entrare nel mercato.
Ma c’è di più. Per Smith e per gli altri maestri dell’Illuminismo scozzese (Hume e Ferguson) l’esistenza del mercato è la condizione perché si possano sperimentare rapporti umani liberi e disinteressati. Grazie ai mercati è possibile superare la logica alleato-nemico, e liberarsi dai rapporti necessari e di status (come nel mondo feudale), ritrovandosi in quella condizione di uguaglianza senza la quale non c’è amicizia.
Nella stessa metafora della “mano invisibile” non è difficile individuare la presenza della provvidenza unitamente a quanto veniva affermato nella tradizione civile italiana.
Particolarmente bella e civile è la sua antropologia, la sua visione dell’essere umano fondata sul bisogno individuale di immedesimarsi con l’altro, e di trovare una corrispondenza di sentimenti con il prossimo.
Nella Teoria dei Sentimenti Morali scrive: “per quanto l’uomo possa essere considerato egoista nella sua natura ci sono chiaramente alcuni principi che lo fanno interessare alla sorte degli altri, e che gli rendono necessaria l’altrui felicità”. E ancora, “l’uomo desidera per sua natura non solo di essere amato ma di essere degno di amore. Teme non solo di essere odiato ma che di essere odioso”.
La fortuna e la sfortuna di una persona consistono, rispettivamente, nell’essere considerati dagli altri o nell’essere loro indifferenti. Tutto il rapporto tra noi e gli altri è mediato dallo sguardo: essere visti, considerati, ammirati, imitati…. Tutti verbi che rimandano all’uso degli occhi.
Anche la ricchezza o il potere per Smith sono i mezzi per attirare l’attenzione degli altri, per essere riconosciuti. In particolare l’idea base nella Teoria dei Sentimenti Morali è che la molla più potente della vita in società sia il desiderio di distinzione e di ottenere ammirazione da parte degli altri. La ricchezza diventa quindi un mezzo per ottenere quell’ammirazione da cui dipende la nostra felicità.
Le stesse posizioni di Genovesi e Smith appaiono, nella sostanza, molto simili: per entrambi il mercato è un momento importante della vita civile, che edifica, non distrugge, le virtù civili.
Stando così le cose dovremmo aspettarci da Smith una teoria della felicità molto vicina a quella “civile” tipica della tradizione italiana: invece la sua visione differisce molto da Genovesi. In Smith manca l’enfasi sulla natura relazionale della vita buona, la sua teoria della felicità è più stoica, o addirittura scettica, che aristotelico-tomista.
Da cosa dipende? Dalla sua cultura protestante scozzese, in primis, dove era forte il peso del calvinismo, l’influenza di Hume e la sua enfasi sul self-interest come passione dominante nelle faccende economiche.
La conseguenza per Smith fu una teoria economica non del tutto coerente e conseguente alla sua antropologia “relazionale” e al suo sentirsi in continuità con l’Umanesimo civile. L’effetto fu che la reciprocità, la pubblica felicità, le virtù civili rimasero molto, forse troppo, sullo sfondo della sua teoria economica. Ciò nonostante distingueva molto bene tra ricchezza e felicità: i beni sono un mezzo e non un fine.
Resta il fatto che dopo Smith, la tradizione dell’economia, tranne poche eccezioni, ha trascurato la complessità del rapporto ricchezza/felicità”. E oggi, forse, ne paghiamo le conseguenze.”
Riprendo io: solo per dirvi che da qui in avanti naturalmente la storia continua ma sarei folle a perseguitarvi oltre. Questo post farà inorridire alcuni, imbufalire altri, molti non lo leggeranno sino a questa riga, ma non fa nulla. Lo volevo fare solo perché non avevo un modo più serio per dire quanto sia sbagliato leggere sul giornale quella notizia sul Pil e non chiedersi cosa c’è dietro, quale mole di pensiero e ricerca e dubbi e propositi abbiano attraversato la cultura e la storia. E come sia assurdo ignorare anche sul piano culturale le implicazioni di questo nostro tempo. Tutto qui. Domani, se riesco, torniamo a parlare del presente. Che però non diverte granché.
Buone cose