Fonte: La stampa
Finanziamento pubblico e retorica anti-partiti
Nel 2013, quando gli onorevoli avevano smesso di dichiararsi tali pure al telefono, prenotando i ristoranti ( “Ci sputano nel piatto”), l’abolizione del finanziamento pubblico sembrò scelta obbligata per tentare la redenzione della Casta. La cavalcarono i Cinque Stelle nella fase Scatoletta di Tonno, Matteo Renzi nel suo momento Rottamatore, poi la rese operativa Enrico Letta, con largo consenso: dire No significava rischiare il rogo. Votarono contro solo i grillini, ma in nome di un giro di vite ancor più rigoroso: non gli piaceva l’accesso al 2×1000 concesso ai partiti, li volevano ancor più francescani, col cilicio. Dieci anni dopo possiamo guardare a quella stagione con maggiore lucidità. Molte sue scelte hanno contribuito a valorizzare gli affaristi del voto di scambio, quelli che sul piatto delle candidature possono mettere consensi facili pagati cash. I partiti morti di fame non finanziano più nulla, anzi chiedono contributi sostanziosi per il posto in lista ed è ovvio che il meccanismo premi gli arrampicatori di scarsa coscienza e, in generale, chi è capace di autofinanziare la sua carriera. Nella logica dell’Uno-Vale-Uno del grillismo prima maniera la questione risultava irrilevante. Spariva dai radar un intero pezzo di politica e società civile poco adusa alla raccolta fondi spericolata, stappava spumante chi nel mondo dei soldi sapeva destreggiarsi. La cuoca di Lenin e il fornitore di bombole a saldo preferenze: momento d’oro per entrambi. Oggi si rompono alleanze in nome della deriva etica di Bari, Palermo, Torino, e tuttavia manca ogni accenno di approfondimento al quesito: perché i voltagabbana del “Vota Antonio” sospetto, i capibastone della scheda mafiosa, riescono a saltellare da una maggioranza all’altra e trovano sempre porte aperte? La risposta è facile: i soldi, il controllo di pacchetti blindati di elettori. In quel lontano 2013 i pochi che contrastarono l’abolizione del finanziamento pubblico dicevano: finirà che faranno politica solo i ricchi, i miliardari. È finita al contrario, la riforma ha premiato mezze figure di periferia, residuati della Prima Repubblica, ottantenni a fine corsa senza più nulla da perdere, e ovviamente i clan che sanno come maneggiare ciascuno di questi soggetti. Per ogni riccone che si è comprato un seggio sicuro in Parlamento con donazioni milionarie (ce ne sono sempre stati) abbiamo visto mille sfaccendati trafficare in buoni benzina per assicurarsi una fettina di potere. Ora che qualcuno dice “il re è nudo” e chiede il ritorno al finanziamento pubblico – come Chiara Gribaudo ieri su La Stampa – è evidente a tutti la difficoltà di fare conversione.
Non c’è leader abbastanza forte per intestarsi questo tipo di battaglia. La retorica dell’anti-casta appare ancora sentimento prevalente nel Paese. Sfidarla richiede energie che non si vedono, anche perché fare politica coi soldi dello Stato renderebbe obbligatorio un do-ut-des in termini di trasparenza, rendicontazione, regole interne che nessuno sembra interessato a pagare. E tuttavia ce ne sarebbe bisogno. Ora che la politica italiana ha archiviato la fase rottamatori e scassinatori di scatolette, la revisione delle norme sul finanziamento è l’unica contropartita immaginabile per dare piena attuazione all’articolo 49 della Costituzione, rendere effettiva la democrazia interna ai partiti, contendibili le loro leadership, trasparenti i loro conti e le loro spese, e magari regolare pure il tema del conflitto di interessi: insomma, riabilitare il ruolo delle organizzazioni politiche nella costruzione delle scelte locali e nazionali. L’alternativa è replicare all’infinito il corto circuito degli scandali, oggi a te e domani a me, insieme con la disaffezione dei cittadini, che infatti cresce.