Fonte: La Repubblica
Lucio Caracciolo – L’11 ottobre 1975, quasi cinquant’anni prima che Donald Trump proclamasse l’intenzione di piazzare i marines a Gaza per garantire pace e ricostruzione, nella prima puntata dello show televisivo Saturday Night Live andava in onda un film di Albert Brooks sullo scambio di posto fra Israele e lo Stato americano di Georgia. Narratore: “Con una mossa senza precedenti destinata ad allentare le tensioni mondiali, Israele e lo Stato di Georgia hanno concordato di scambiarsi il posto. L’intera Georgia — residenti, affari, ogni forma di commercio — traslocherà in Medio Oriente il 1° gennaio 1977. Non si sposterà alcun edificio. Sarà un equo scambio di proprietà”. La telecamera inquadra il leader israeliano: “Spero che New Orleans sarà più facile da trattare del Cairo”. Soggiunge il rappresentante georgiano: “So che il mio Stato tutto gode alla prospettiva del calore senza umidità”.
L’ironia dell’ebreo Brooks illustra l’ingovernabile tic americano di trattare all’americana dispute geopolitiche che molte personalità d’Oltreoceano non saprebbero dove collocare sul planisfero. Su pragmatiche basi transattive: io do una cosa a te, tu ne dai una a me. Ok, il prezzo è giusto. Storia, tradizioni, religioni? Non contano. Gerusalemme contro la capitale della Coca-Cola? Colpo di genio. Faraway deals for faraway issues.
La Riviera di Gaza non la vedremo, probabilmente nemmeno la Striscia svuotata dalla massa dei sopravvissuti. Il dato rivoluzionario del ballon d’essai trumpiano è che smentendo la sua “dottrina” propone di inviare soldati americani a Gaza. Stivali sul terreno. L’idea di chiamare truppe statunitensi e atlantiche ad assicurare pace in Terrasanta era stata evocata in passato dall’Autorità nazionale palestinese, quanto di meno autorevole e più inutilmente corrotto si possa concepire. Sicché oggi in campo palestinese c’è chi pensa di espungere quella battuta del presidente dal contesto e prenderla sul serio.
Per esempio l’attivista palestinese Daoud Kuttab. Secondo il quale “Trump potrebbe scoprire che a garantire pace e tranquillità non sarebbe ciò che gli israeliani — e specialmente la destra israeliana — si attendono”, quanto invece lo spiegamento di un contingente americano quale cuscinetto fra i duellanti. Un presidio a stelle e strisce “tra un potente occupante militaristico e una popolazione debole ma resistente è esattamente quel che serve alla regione”. La missione armata americana a Gaza, di fatto provvisoria annessione della Striscia agli Stati Uniti, garantirebbe insieme sicurezza di Israele, salvezza dei gaziani e ricostruzione. Kuttab è convinto che se Trump accettasse l’invito a frapporsi fra i contendenti si guadagnerebbe il titolo di protettore della pace — lunga tregua — fra Israele e palestinesi. E magari quel premio Nobel frettolosamente anticipato a Obama. Aggiungiamo che potrebbe spingere noi italiani e altri atlantici a mettere un gettone militare nella Gaza pacificata. Quindi al futuro tavolo dei negoziati.
Per ora però sembriamo anestetizzati dalla narcosi bellica che induce media e politici a concentrarsi sui territori trascurando chi li abita in modalità di sopravvivenza. La misura delle guerre sono i chilometri quadrati, non chi ci vive. Proponiamo quindi un’esercitazione che a molti parrà provocatoria, a noi necessaria.
Specialmente dedicata a chi accusa l’Unione Europea di non far nulla per Gaza. Vero, ma ingiusto: se non sei un soggetto geopolitico non puoi fare geopolitica. Tuttavia si tratta pur sempre di un’organizzazione di umani, cui nulla vieta di agire umanamente. Ergo: immaginiamo che ognuno dei suoi 27 Stati ospitasse in ragione della propria popolazione alcuni palestinesi di Gaza disposti a lasciare la Striscia e abilitati a poi rientrarvi in pace. Doppia opzione: uno o due ogni diecimila abitanti. Davvero una goccia nel mare: su 449.206.579 europei salveremmo nel primo caso 44.912 persone, nel secondo 89.924. L’Italia ne prenderebbe 5.889 o 11.798.
Non accadrà — o forse invece sì. Però almeno capiremo chi siamo.