I buoni motivi per rovinare la festa a Matteo Salvini

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Paolo Marchesani / Alessandro Gilioli
Fonte: L'Espresso

di Paolo Marchesani

È un punto di vista particolare, ma interessante. È chiaro che Gilioli è preoccupato per la tenuta democratica del paese. Sono preoccupatissimo anche io per la stessa ragione e lo sono da tempo. Con tutta la imbecillita’ renziana, i due soci di governo, oltre le parole, hanno concretizzato la tentazione autoritaria del paese. Erano solo gli argomenti diversi, ma concettualmente, entrambi i soci avevano la stessa tentazione. Probabilmente, in via di principio, era il vero tema che li univa in sede di contratto.
Comunque andranno le cose, Salvini è chiaro che sarà in condizione di rapporto di forza favorevole a lui. Anche non andando ad elezioni a breve, lui andrebbe alla opposizione e da lì farebbe il tiro al bersaglio su tutti gli altri e, in un paese superficiale come l’Italia, probabilmente gli farebbe più consenso e, quindi maggiore pericolosità. IL PROBLEMA VERO È NON CONSENTIRE A SALVINI DI SFUGGIRE ALLE PROPRIE RESPONSABILITÀ. PER 500 GIORNI HA FATTO PROPAGANDA PREVALENTEMENTE SULLA PELLE DEI MIGRANTI E NIENTE ALTRO. ORA CERCA IL MODO DI EVITARE LA MANOVRA ECONOMICA CHE METTEREBBE A NUDO LE SUE RESPONSABILITÀ IN UN PAESE DOVE LA SITUAZIONE È PEGGIORATA, COMPRESA LA SICUREZZA CHE STAVA IN CAPO A SALVINI. Siamo entrati in una fase nella quale, la democrazia italiana, non era mai stata così a rischio dalla fine del fascismo. Ci furono tentativi, ma la giovane democrazia italiana aveva nelle masse lavoratrici i suoi anticorpi che oggi non ci sono più.

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di Alessandro Gilioli

Perché dobbiamo dire no al voto a novembre

Nel 1983 Margaret Thatcher, forte dell’euforia collettiva iper nazionalista successiva alla guerra delle Falkland, andò dalla regina Elisabetta e le fece firmare lo scioglimento anticipato delle Camere. Era nei suoi poteri, nel Regno Unito funziona così, il capo del governo può proclamare nuove elezioni.

Non aveva la maggioranza assoluta dei consensi nel Paese, Thatcher, ma colse bene il momento: la debolezza dell’opposizione (che si era malamente divisa) e, appunto, un’ondata imperial-nostalgica seguita al conflitto vincente con l’Argentina.

Thatcher azzeccò perfettamente il tempo, sapeva che il tempo in politica è un fattore fondamentale. Forse il più importante di tutti, in termini strategici. Lo era 35 anni fa, figuriamoci adesso, con una realtà molto più liquida, un consenso di massa che è infinitamente più volatile e provvisorio.

* * *

Anche Salvini sta giocando col tempo, lo fa da un anno.

In un anno ha visto le sue azioni crescere gradualmente di valore, fino a raddoppiare. Come ogni buon giocatore di borsa, ha evitato di venderle ai primi rialzi – cioè di rompere con il M5S nel corso dei 500 giorni – confidando in un’ulteriore crescita, che poi infatti è avvenuta.

Non è avvenuta per caso, s’intende: le concause sono tante, dalla debolezza strutturale degli alleati-competitor al vento nazionalsovranista che soffia su mezzo mondo, fino allo stesso fatto che occupando il Viminale Salvini ha il ruolo, il microfono, il piedistallo per soffiare sulle paure che ne alimentano il consenso. Poi c’è tanto altro ancora, dall’occupazione della Rai all’efficacia della Bestia di Morisi, e altro ancora, insomma sta di fatto che le azioni continuavano a crescere.

Si poneva quindi il problema di quando incassare. E il buon giocatore di borsa cerca di vendere le sue azioni quando hanno raggiunto il massimo. Come fece Thatcher 36 anni fa.

La Tav, lo capisce anche un bambino, è stata solo una scusa, un appiglio.

Tra l’altro, non ha nessun senso logico apparente rovesciare il tavolo dopo una vittoria scontro i competitor-alleati. Semmai lo si fa dopo una sconfitta, dopo che gli alleati non ti hanno fatto passare qualcosa. È quindi perfino risibile, come appiglio. Ma non importa, Salvini ormai aveva deciso così, Tav o non Tav: le azioni sono al massimo, è il momento di incassare.

* * *

Si sa, i sondaggi sono imprecisi. Ma di solito hanno un margine d’errore di due o tre punti, non molti di più. Lo abbiamo visto anche alle ultime europee.

E al momento danno Salvini e Meloni, insieme, al 43-44 per cento. Record di sempre. Senza neppure Forza Italia, s’intende. E senza i fuoriusciti Forza Italia che accanto a Salvini sono appena passati: Toti, Romani, Ravetto e altri bei tomi. Il presidente della Liguria ha già registrato il comitato dal notaio, giusto mercoledì, il giorno in cui è esploso il governo gialloverde. Non importa se poi alle urne il suo partito varrà solo il 3 per cento, o il 4 come dice Piepoli. È tutta acqua che va a Salvini. Anche su questo ha ragionato il ministro dell’Interno, anche qui è stato scelto il tempo: quello in cui Forza Italia si è squagliata, quindi non c’è più bisogno di avere al fianco l’ingombrante Berlusconi.

Così come il tempo è stato scelto per la debolezza estrema dell’opposizione, almeno a livello di partiti, di rappresentanza.

Il Pd non ha nemmeno idea di chi proporre come candidato premier, a novembre. I renziani, che Dio li perdoni,  puntavano sulla Leopolda di ottobre per fare il loro nuovo partito di centro, invece ora hanno congelato tutto. Quindi alle urne di novembre il Partito democratico si presenterebbe diviso e mal lottizzato tra renziani e zingarettiani, più varie sottocorrenti. Entusiasmante, un po’ come il litigio su chi raccoglieva le firme contro Salvini.

Nemmeno a parlare dell’altra sinistra, quella che tradizionalmente valeva tra il 3 e il 4 per cento e che ora è scomparsa dai radar, dopo la scoppola alle europee. Anche loro, avrebbero avuto bisogno di tempo per cambiare leader, perimetri e pratiche, ora non ce l’hanno più.

E anche il resto, è polvere.

In sintesi, con l’attuale allucinazione di massa nazional-sovranista, con le attuali rappresentanze e geometrie politiche, con Salvini che farebbe campagna elettorale per tre mesi dal piedistallo mediatico del Viminale (e che da ministro dell’Interno gestirebbe le elezioni stesse…) anche un cieco vede dove andremmo: a un governo Salvini-Meloni-Toti. Cioè sostanzialmente a un governo Salvini.

* * *

Certo, si dirà: è la democrazia.

Giusto, vero. E se Salvini vince regolarmente le elezioni – rispettando poi ogni dettaglio della Costituzione con tutti i suoi strumenti di bilanciamento dei poteri – niente da dire se non una normale e democratica opposizione.

Ci si può però anche chiedere se il disegno di Salvini non sia invece politicamente contrastabile, ovviamente all’interno della democrazia stessa, delle sue regole, della Costituzione.

Ci si può cioè chiedere cioè se tutto il gioco di Salvini – interamente basato sulla scelta dei tempi – non sia smontabile impedendogli appunto di sceglierli lui, questi tempi.

Non sta scritto da nessuna parte, in Costituzione, che sia obbligatorio votare a novembre.

Sta scritto che si deve votare solo se non si trova un’altra maggioranza, anche provvisoria, anche solo finalizzata – politicamente finalizzata – proprio a evitare che si voti nel momento scelto da Salvini per favorire se stesso, con un candidato premier che farebbe campagna elettorale da ministro degli interni, alimentando così le stesse paure che poi trasforma in consensi.

* * *

Ecco, questo è la mia personale opinione su quanto sta accadendo e quanto dovrebbe accadere.

Questa fase politico-mediatica va fatta decantare. La narrazione bulimica salviniana va invecchiata fino a che non stufa. Bisogna evitare che i tempi scelti da Salvini si realizzino così come vuole lui. E sarebbe molto salubre anche arrivare al voto senza che lui abbia il piedistallo mediatico e i poteri del ministro dell’Interno.

Trovo folle e suicida, se posso, l’entusiasmo con cui anche da sinistra si è accolta l’ipotesi del voto subito. Mi paiono vacche che cantano felici andando al mattatoio.

Ma non è nemmeno questione di “sinistra”, attenzione.

È evidente che il disegno di Salvini è più ampio e profondo di un semplice governo come tanti altri che si sono alternati in settant’anni di democrazia parlamentare. È un disegno putiniano, per arrivare a quella che  lo scrittore sudamericano Eduardo Galeano aveva chiamato “democratura”. Si vota sì, plebiscitariamente, ma si riducono fino ad annullarli i bilanciamenti, i controlli, i diritti d’opposizione. Basta sentire il ministro dare del pedofilo al cronista che ha scoperto un suo piccolo abuso di potere, per capire il suo progetto, il Paese in cui vivremmo se e quando sarà lui solo al comando. O basta leggere i suoi tweet, vedere tutta la sua impostazione autoritaria illiberale.

Giusto ieri sera ha chiesto «pieni poteri». Pieni poteri. Da brivido.

La democrazia ha gli anticorpi per fermare questo disegno: con le sue stesse regole, con la sua stessa Costituzione, nulla di più né di meno.

È solo una questione di volontà e di intelligenza politica.

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