Jerosolymitana “Se ti dimentico, Gerusalemme…”

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Franco Cardini
Fonte: Minima cardiniana

di Franco Cardini – 15 ottobre 2018

“Se ti dimentico, Gerusalemme…”: così recita il salmo 137, quello dell’esilio del popolo d’Israele in Babilonia. Siamo tutti esuli, su questa terra. Aspettiamo e speriamo tutti di scorgere un giorno le pietre preziose delle mura della Gerusalemme celeste. Ma non possiamo dimenticare la nostra Gerusalemme. C’è chi la vuole capitale eterna e indivisibile di uno stato. Può darsi che sia così, magari a lungo. Ma gli stati passano e le capitali cambiano. Gerusalemme eterna non passa perché Dio l’ha eletta a Sua sede privilegiata sulla terra. Gerusalemme, Visio Pacis, appartiene a Dio e al genere umano. Ricordiamolo tutti, nell’attesa che essa possa ricevere da Dio e dalla storia il dono della pace: che non viene mai, se e quando è autentica, senza giustizia.

D’ORO, DI RAME, DI LUCE

Martedì 9 scorso gli archeologi israeliani hanno dato notizia di aver rinvenuto una pietra d’età erodiana sulla quale, in bei caratteri ebraici, un architetto del tempo ha scolpito il nome di Gerusalemme. E’ una testimonianza importante. Da poco, il governo e il parlamento israeliani, dopo aver proclamato Gerusalemme “unica e indivisibile capitale dello stato ebraico”, hanno altresì sancito la natura esclusivamente ebraica di tale stato. Non è stata una decisione incostituzionale, dal momento che Israele – al pari del resto del Regno Unito – non ha una costituzione. Ma è una soluzione che preoccupa per quella che sarà l’evoluzione della vita civile di quei circa due milioni di cittadini israeliani non ebrei (quindi musulmani o cristiani) che vivono nel loro paese accanto ai sette milioni dei loro concittadini ebrei.

E’ pensando a loro che non è forse inopportuno richiamare il pensiero di tutti all’universalità di quella che è, per quasi quattro miliardi di credenti al mondo (circa due miliardi e mezzo cristiani, oltre uno e mezzo musulmani, una trentina di milioni ebrei: oltre la metà della popolazione del pianeta) la Città Santa.

Jirushalaim shel zahav, ve shel mehoshet, ve shel or…: “Gerusalemme d’oro, di rame, di luce”.

E’ proprio così che la scoprite in un mattino di cielo terso. Ascesi fino a metà costa del Monte degli Olivi, la vedete là, guardando verso occidente, stesa ai vostri piedi e inondata dal sole che nasce alle vostre spalle. E’ così – molto diversa da adesso eppure sempre là, sempre lei – che l’ha vista un paio di millenni fa anche Lui, e ha pianto sulla sua bellezza e sulle sue sventure. Al di là della fenditura della valle di Josaphat, il sole fa risplendere d’oro la cupola della moschea di Umar e la luce che l’inonda ti si riflette negli occhi, ti entra dentro, ti scalda, t’illumina…

“…ecco apparir Gierusalem si vede,/ ecco apparir Gierusalem si scorge,/ ecco da mille voci unitamente/ Gierusalemme salutar si sente”.

Forse la videro proprio così, i crociati nel 1099, esattamente come Torquato Tasso avrebbe immaginato, più o meno quattro secoli più tardi, quel momento. La vidi anch’io così più di quarant’anni fa la prima volta, e il cuore mi balzò in gola, e gli occhiali da sole mi si  appannarono.

Perché l’abbiamo tanto amata tutti, perché l’amiamo tanto ancora, perché siamo ancora in tanti a pensare che tutto sommato dar la vita per lei sarebbe un prezzo da pagare?

Gerusalemme riempie la nostra memoria, la nostra storia, la nostra fede se siamo credenti e la nostra fantasia se non lo siamo. E’ la città di Abramo e del suo Dio inflessibile eppure misericordioso; la città di David il poeta e di Salomone il sapiente; la città di Gesù; quella saccheggiata da Tito, minacciata da Traiano, distrutta da Adriano in una pagina che Marguerite Yourcenar non ha osato descrivere.

E’ stato un segno impressionante che il Candelabro a Sette Braccia del Tempio, la Santa Menorah, sia scolpito nei bassorilievi dell’arco di Tito, al Fòro. Gerusalemme l’abbiamo pensata nei secoli, associata e contrapposta ad altre città-simbolo: Gerusalemme o Roma, Gerusalemme o Alessandria, Gerusalemme o Parigi. La fede o la potenza, la fede o la sapienza, la fede o la ragione… Ma era, ma è, un aut/aut oppure un et/et. Oggi, nel mondo, vi sono circa sette milioni di ebrei israeliani che la ritengono l’eterna e indivisibile capitale del loro stato e altri otto di ebrei della diaspora che brindano augurandosi l’un l’altro “l’anno prossimo a Gerusalemme”, ma non vanno dimenticati nemmeno i due miliardi di cristiani che si sentono “il nuovo Israele” e che pregano ogni giorno in tutte le loro chiese chiese per Gerusalemme recitando i salmi e rileggendo Geremia mentre la invocano come loro capitale dello spirito; e oltre un miliardo e mezzo di musulmani che la chiamano al-Quds, “la Santa”. Nei secoli, ci siamo ammazzati per lei: eppure – ed è la cosa più meravigliosa e più terribile – era un odio che nasceva dall’amore. Anche le sassate palestinesi e i proiettili israeliani, anche il maldestro gesto diplomatico di Trump – il trasferimento dell’ambasciata statunitense contro le risoluzioni delle Nazioni Unite – e le scomposte reazioni di molti fondamentalisti di vario indirizzo, sono tutti gesti d’amore. Un amore che non può morire; un passato che non passa perché in esso è racchiuso un presente che guarda al futuro e all’eternità.

“Se ti dimentico, Gerusalemme, si secchi la mia mano destra”, recita il salmo 137. Anch’io, che come tutti i poveri cristiani del mondo mi sforzo di credere, spero di vedere un giorno le mura preziose dell’Altra Gerusalemme, la Gerusalemme Celeste che abbiamo sognato costruendo le nostre cattedrali e che nel giorno del Giudizio scenderà dal cielo, promette l’Apocalisse, “ornata come una sposa”. Eppure sono certo che, se mai mi sarà concesso di scorgere quelle alte mura gemmate, non potrò evitare di ripensare con nostalgia alle altre, a quella antiche muraglie di pietra arsa dal sole e sbrecciate da migliaia di proiettili.  La Gerusalemme Terrena, la Jerusalem miserabilis, quae est in Syria. La  “mia” Città Santa.

Se ti dimentico, Gerusalemme…

MICHELE PICCIRILLO. UN RICORDO NEL DECIMO ANNIVERSARIO DEL SUO RITORNO ALLA CASA DEL PADRE

Michele Piccirillo, francescano. Nato a Carinola presso Caserta nel 1944, addormentatosi sessantaquattrenne nel Signore a Livorno il 26 ottobre 2008. Una vita terrena breve, per gli standards odierni: ma piena, intensa ricca. Un dono di Dio, esattamente come lui è stato un dono di Dio per tutti: soprattutto per chi lo ha conosciuto, ha avuto il privilegio della sua amicizia e si è avvantaggiato del suo sapere.  Lo ricordo qui, ora, quasi a un decennio esatto di distanza dal suo transito: perché il suo è stato un transito, esattamente come quello del suo Padre Serafico. Non posso pensare a Michele come a un morto, perché lui non è mai morto, come mai muore chi vive nel Cristo e al Cristo Signore si affida.

Lo ricordo come un collega illustre, ma soprattutto come un amico fraterno. Ha vissuto per il Cristo Gesù, per Gerusalemme, per la Terrasanta, per la scienza che ha servito con scoperte magnifiche e con studi fondamentali, per la pace e per la giustizia che tante volte ha invocato su quella terra che amava sopra ogni altra e che davvero era sua e per la sua gente che ha tante volte difeso sfidando l’arroganza dei potenti. Cittadino della Gerusalemme di Giudea come ora lo è della Gerusalemme Celeste. Gli dedico questo semplice ricordo personale.

Salam alech, abuna!”;

“Ciao. Fatti il caffè. La miscela è sul tavolo”.

Mi dava le spalle e non si scomodò nemmeno a voltarsi. Stava armeggiando al suo computer e inseguiva evidentemente il filo del suo ragionamento. Non ci vedevamo da parecchi mesi, ma non mi aspettavo certo che mi sommergesse di abbracci. Non era il suo stile. Quello, invece, sì. Era come se ci fossimo lasciati la sera precedente. Come se mi aspettasse. O mi aspettava davvero?

Eravamo al primo piano dell’edificio dello Studium Biblicum Franciscanum, in Flagellation Road, a due passi dall’Arco dell’”Ecce Homo”. La stanza di padre Michele Piccirillo, ingombra di libri, di reperti archeologici, di appunti, era una sorta di Antro delle Meraviglie che almeno in apparenza lui non si preoccupava mai di mettere in ordine. Quando cercava qualcosa sembrava sempre frugare affannosamente, senza metodo: eppure alla fine trovava sempre tutto.

Era l’autunno di uno dei primi Anni Novanta. Ero stato tante di quelle volte suo ospite, in quel lungo corridoio d’un convento ch’era anche una facoltà universitaria, o magari viceversa. E poi eravamo stati insieme in lungo e in largo per Israele, la Palestina, la Siria, la Giordania; e talvolta anche in Italia e in Francia o altrove, in giro per convegni e congressi. Lo ricordo soprattutto sul “suo” Monte Nebo, a due passi da alcuni dei più bei tappeti musivi che aveva scoperto attorno al santuario di Mosè: quante volte, la sera, ci siamo seduti su quel muretto che guardava a ovest, da dove si vedeva e si vede ancora nelle giornate limpide la macchia verde del Giordano che si getta nel Mar Morto e da dove, nelle sere di cielo coperto, le luci rossastre di Gerusalemme si riflettevano e si riflettono sulle nubi. Da lì, talvolta, era ed è visibile il campanile della basilica del Monte degli Olivi. Ora lui riposa là, a un paio di metri da dove sedevamo, su quel poggio battuto dai venti, uno dei luoghi al mondo ch’egli ha più amato.

Quel mattino ero arrivato a Gerusalemme convinto di fargli una sorpresa. Non che mi aspettassi che mi buttasse le braccia al collo. Come dicevo: non era il tipo. Ma in realtà fu lui a stupirmi. Era come se sapesse che dovevo arrivare proprio allora, senza preavviso, e che mi aspettasse per prendere una tazza di caffè insieme. Al mio arabo (allora ne sapevo quattro parole; oggi forse sono arrivato a otto) rispose col suo bell’accento di Caserta, un campano leggermente tinto di ciociaro: un timbro, un’inflessione che si coglievano sempre, anche quando parlava (benissimo) francese, o inglese, o ebraico, o arabo.

Più tardi, fra quelli che abitualmente venivano a trovarlo, pellegrini o studiosi che fossero,  circolava una battuta. Tutti ricordano una bella fotografia che fece il giro del mondo. E’ presa sul Monte Nebo, proprio alla base del grande Tau sul quale si attorciglia il Serpente di Bronzo elevato secondo l’Esodo da Mosè per guarire gli ebrei ch’erano stati morsi dai serpenti velenosi del deserto, e dove, secondo la tradizione, il profeta Mosè in punto di morte contemplò la Terra Promessa, dalla terrazza dalla quale lo sguardo spazia su un panorama d’una bellezza e soprattutto d’un significato incomparabili. Due figure ammirano il panorama. Siamo nel 2000, nell’anno del Giubileo d’inizio secolo (e millennio). A sinistra guardando un uomo dall’aspetto venerabile ma provato, curvo, in una lunga veste bianca; a destra, in atto d’indicare un particolare saliente di quel che è offerto alla vista di entrambi, un robusto frate francescano nel suo semplice saio bruno. La battuta che divenne presto proverbiale recitava: “Ma chi è quel signore vestito di bianco accanto a padre Piccirillo?”. Quel signore era ovviamente papa Giovanni Paolo II nel suo viaggio giubilare in Terrasanta.

Naturalmente, la battuta non era vera, non l’aveva mai pronunziata nessuno: ma era molto ben trovata. Piccirillo, lo conoscevano davvero tutti. Fra Israele, Palestina  e Giordania egli  era senza dubbio uno dei personaggi più noti, autorevoli, simpatici ma anche temuti: amico di uomini di governo israeliani come della casa regnante hashemita della quale era molto intimo e dei principali leaders palestinesi tanto musulmani quanto cristiani, trattava tutti con amichevole rispetto ma anche con molta franchezza. E non è che da quelle parti la cosa fosse poi così semplice: per quanto, ancora una decina o una ventina di anni fa, nessuno poteva neppur immaginare fino a che punto le cose sarebbero poi precipitate.

Come archeologo, biblista e studioso, padre Michele era d’altronde davvero noto in tutto il mondo: e questo, badate, non è un modo di dire. Allievo d’un grande uomo di scienza francescano, l’archeologo Bellarmino Bagatti – che si può dire sia il fondatore degli studi relativi all’archeologia protocristiana della Terrasanta e del Vicino Oriente –, Piccirillo era divenuto celebre per avere scoperto centinaia di metri quadrati di splendidi tappeti musivi ellenistico-romani, bizantini e siro-cristiani situabili tra il I e il X secolo della nostra era.

Frate minore, nato nel 1944 a Carinola presso Caserta – un luogo del quale era nativo, coincidenza, il notaio trecentesco Nicola Martoni, che ci ha lasciato una memoria del suo pellegrinaggio alla Città Santa da padre Piccirillo amorosamente studiata –, egli era abituato da sempre a correre tutte le strade del mondo: era normale, condividendo allegramente con lui una buona cena in una trattoria della vecchia Firenze o in un bistrot parigino, chiedergli quando sarebbe tornato tornerà in Israele o in Giordania e sentirsi rispondere che prima sarebbe dovuto passare per Lima, quindi fare un salto a Melbourne e poi fermarsi in Vaticano. Lo faceva con naturalezza, senza iattanza, senza darsi arie.  Eppure, quella vita da vero pellegrino e da vero figlio di Francesco d’Assisi non lo distoglieva dai suoi abituali doveri di stato. Come professore, rispettato e amatissimo dagli studenti, insegnava abitualmente nello Studium Biblicum Franciscanum, parte della Custodia Francescana di Terrasanta: e dal 1960, quand’era poco più d’un ragazzo, la sua residenza abituale era la vecchia città di Gerusalemme. Fra allora e la metà degli Anni Settanta bruciò letteralmente le tappe accademiche: laureato in Sacra Teologia all’Antonianum e in Studi Biblici presso il Pontificio Istituto Biblico, addottorato in Archeologia nell’Istituto di Studi per il Vicino Oriente alla Sapienza, tutti istituti romani; ma anche Ordinario di Geografia e Storia Bibliche nello Studium Biblicum Franciscanum,  Direttore del museo ad esso adiacente e membro di una serie impressionante di istituzioni di alta cultura.

Ma la sua gloria maggiore sono le scoperte giordane. Dal 1973, Piccirillo iniziò a lavorare sulla cima culmine del Monte Nebo, dove restaurò la basilica bizantina dedicata al profeta Mosè e la trasformò in un mirabile museo a cielo semiaperto che ospita ancor oggi numerose decine di metri quadri di splendidi mosaici pavimentali; altre scoperte sensazionali egli fece in importanti siti archeologici, quali quelli di Madaba e di Umm ar-Razas. A Madaba, fu tra i fondamentali animatori della Scuola per Fabbricanti di Mosaici, un’istituzione dal prestigio oggi in forte crescita che prepara eccellenti artigiani, e collaborava abitualmente con i governi sia israeliano sia giordano oltre che con l’Authority palestinese.

A questa impressionante attività, lo studioso casertano affiancava ovviamente un’imponente produzione bibliografica, che annovera studi non solo archeologici, ma anche di tipo propriamente storico: quale ad esempio l’edizione del diario di viaggio del suo concittadino tardotrecentesco, il notaio Nicola De Martoni. Ulteriore fatica dello studioso francescano fu un grosso volume, La nuova Gerusalemme, che testimoniava  l’abilità e la fantasia degli intagliatori palestinesi in legno d’olivo, da sempre abilissimi nel costruire – fra l’altro – preziosi modellini dell’edicola del Santo Sepolcro: attività dalla quale essi ricavavano sovente il necessario di cui vivere e che oggi è in crisi come tutto quell’umile, grande artigianato ch’era profondamente connesso con il turismo e che oggi, a causa delle note vicende politiche, sta languendo in modo penoso.

Un sobrio profilo dell’eccezionale attività di quel grande studioso è il volume Michele Piccirillo francescano archeologo fra scienza e Provvidenza, a cura di Claudio Bottini e di Massimo Luca (Milano, Edizioni Terra Santa, 2010).

Ma non è soltanto allo studioso straordinario che penso, quando lo ricordo. E’ del cristiano semplice eppure profondo, è dell’amico sincero e fedele che sento ora la mancanza, specie ora che mi sto avviando verso il tempo di quella vecchiaia alla quale la Provvidenza, nel Suo disegno imperscrutabile, ha disposto ch’egli non arrivasse. Una volta, sul Nebo, gli dissi: “Senti Michele, quando sarò vecchio vorrei venir qua, su questa montagna, per passarci i miei ultimi mesi…”. Mi aspettavo che mi guardasse come faceva lui, al di sopra degli occhiali, e temevo m’inchiodasse con il suo solito “Ma cammina!…”, ch’era la sua frase preferita quando si spazientiva e voleva troncare netto con le sciocchezze che gli toccava ascoltare. Invece mi rispose con semplicità: “Non dobbiamo andare dove vogliamo: dobbiamo andare dove Dio ci manda”.

Ripensai a quelle sue parole quel giorno del 2008, quando a Livorno gli  portavo l’ultimo saluto. Nell’ultima fase della sua malattia era stato trasportato nella città toscana, dove avrebbe avuto cure particolari: che in effetti ricevette, ma che non furono purtroppo sufficienti.

Ma Livorno era ed è a due passi da Perignano, il paese in provincia di Pisa nel quale, nel 1905, era nato il grande archeologo francescano Bellarmino Bagatti, il suo amatissimo maestro. Una “coincidenza”, certo: e Michele ci avrà senza dubbio pensato mentre affrontava la sua prova estrema. 

Babelezon bookstore leggi che ti passa

Articoli correlati

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.