Jobs Act e giovani: c’è qualcosa che non torna

per Gabriella
Autore originale del testo: Silvia Favasuli
Fonte: Linkiesta
Url fonte: http://www.linkiesta.it/jobs-act-cosa-non-funziona

di 29 dicembre 2014
 PEDRO ARMESTRE/Getty Images

Potrebbe succedere, ipotizzando, addirittura questo. L’azienda Beta che produce gomme da masticare decide di licenziare per ragioni ignote. Non ci sono motivi economici né organizzativi validi. Ma sia Marco, 50 anni, che Paolo, 30, vengono congedati. Illegittimamente entrambi. Succede però che Marco, assunto nell’agosto 1994 può far causa in tribunale, dimostrare l’assenza di giusta causa e riavere il suo posto di lavoro. Paolo, arrivato solo nel 2015 con contratto unico a tutele crescenti riceverà 4 mensilità di indennizzo e passerà un nutrito numero di settimane a cercarsi un nuovo posto di lavoro. Senza meriti o demeriti che giustifichino la disparità. Il Jobs Act rende legittimo questo. Pura discriminazione fatta sulla basa della data di assunzione. Ma se questa riforma ci lascia perplessi, non è solo per questo.

Luisa Corazza insegna Diritto del Lavoro all’Università del Molise e si occupa da tempo di giovani, lavoro e dello scontro generazionale in corso nel nostro paese. Guarda alla riforma del Lavoro, che segue fin dal suo primo abbozzamento, e sebbene vi trovi diverse «buone idee e buoni propositi» e non abbia un’idea del tutto negativa, non riesce a formulare un giudizio complessivo che non parta proprio da qui: dal torto fatto ai meno garantiti. «Non posso davvero trovare nessuna ragionevolezza nell’avere sistemi di tutele diversi solo in ragione della data di assunzione». C’è invece una ragione politica. Ed è evidente.

«È stato un compromesso politico facile, certo, ma fatto come sempre sulle spalle dei giovani. Su quelli che hanno meno voce in capitolo, meno rappresentanza, meno peso nei sindacati, meno tutele». Rimettere in discussione le regole di tutti, non solo dei neo assunti, avrebbe introdotto uno scontro forte sul piano sociale, avrebbe tolto consensi al governo, avrebbe scatenato un intervento più deciso dei sindacati (chiare a tal proposito le parole del Segretario della Uil Luigi Angeletti).

E Matteo Renzi, il paladino dei giovani e il fautore della rottamazione, non se l’è proprio sentita.

Ma, dicevamo, non è tutto qui.

Quando si parla di “tutele crescenti” nel primo decreto attuativo del Jobs Act arrivato la vigilia di Natale si intende sostanzialmente il risarcimento cui un lavoratore licenziato ingiustamente ha diritto. Crescono cioè le mensilità che riceve dall’azienda al crescere dell’anzianità di servizio. Nient’altro. Quattro mensilità per il primo anno, e poi due mensilità per ciascun anno successivo, fino a un massimo di 24. Il tutto viene dimezzato se si lavora in una azienda con meno di 15 dipendenti. Eppure il progetto iniziale del Jobs Act, ricorda Luisa Corazza, intendeva per “aumento delle tutele” anche la progressiva riduzione della possibilità di essere licenziati. Consolidando man mano il rapporto di lavoro che sarebbe diventato sempre più stabile. Ma questa parte il Jobs Act l’ha persa per strada.

Terzo punto. Poco evidenziato in questi giorni ma che a noi pare di rilievo. Il Jobs Act introduce la novità della conciliazione veloce. Ovvero, in caso di licenziamento ingiustificato, il datore di lavoro può offrire al dipendente un modo alternativo al ricorso in tribunale per risolvere la controversia. Al posto degli indennizzi sopra ricordati (quattro mensilità per il primo anno e poi due per ogni anno di anzianità fino a un massimo di 24) l’azienda si impegna a corrispondere al lavoratore una mensilità per ogni anno di anzianità, ma partendo da un minimo di due e arrivando a un massimo di 18: la metà delle tutele rispetto a chi decide di passare dal tribunale. Ma in modo più veloce, certo, e con più certezze.

Se è verosimile pensare che molti lavoratori opteranno per questa formula, rinunciando a passare attraverso tribunali ingolfati di cause di lavoro, dobbiamo ammettere che le “tutele” offerte dai contratti unici saranno di fatto la metà rispetto a quelle più pubblicizzate.

«Non possiamo dire con certezza se la conciliazione veloce avrà successo», commenta Luisa Corazza. «Certo vediamo che nella realtà le controversie di lavoro si risolvono sempre più spesso in via conciliativa», continua la docente che si dice comunque a favore di questa spinta, già introdotta dalla Riforma Fornero e «sicuramente da incentivare». Utile infatti a «non appesantire la giustizia del lavoro, una macchina già complessa e appesantita». Ma che, ahimè, offre tutele di ben altro tipo.

Il divario tra chi concilia e chi fa ricorso al giudice si ritrova anche quando si guarda a un’altra novità (o «buon proposito», come lo definisce la Prof Corazza) del Jobs Act: il contratto di ricollocazione. Positivo in sè, ma con qualche ombra. Esso prevede la possibilità di ricevere un voucher con cui presentarsi presso un’Agenzia del Lavoro e richiedere assistenza nella ricerca di una nuova occupazione, la partecipazione a iniziative di riqualificazione professionale, corsi di formazione, ricerca del lavoro. È il contraltare della flessibilità in uscita: rendo più facile il licenziamento, dice il Governo, ma poi ti aiuto a cercare un nuovo posto di lavoro.

Ma questo strumento (per cui il Governo stanzia 50 milioni nel 2015 e 20 nel 2016) è riservato a una fetta molto stretta di lavoratori: solo quelli assunti con contratto unico, licenziati ingiustamente, e che decidono di fare ricorso al giudice anziché conciliare. Esatto: chi concilia, anche se licenziato senza giusta causa, non vi può accedere.

Il contratto di ricollocazione non vale per gli autonomi e nemmeno per i para-subordinati. «Ma questa ultima parte ha senso – spiega Corazza – se si pensa che la riforma nel suo complesso intende cancellare anche le forme di lavoro non subordinato come cococo e cocopro. Ci aspettiamo quindi che ciò avvenga con i prossimi decreti».

Tuttavia, il vero problema a questo riguardo è per la docente un altro. «Il contratto di ricollocazione è un’idea interessante importata dal Nord Europa ma che può avere vero successo solo se accompagnata da un sistema dei servizi al lavoro robusto. E da un sistema di imprese che risponda in modo adeguato e reattivo a simili proposte. Eppure, strumenti come la Garanzia Giovani dimostrano che ciò in Italia ancora manca. Non basta scrivere sulla carta che viene garantito il diritto alle politiche attive perché ciò produca i risultati attesi». Non solo. «Cifre simili a quelle investite da paesi come Francia, Germania e anche Gran Bretagna per le politiche per l’impiego non si sono mai viste in Italia. Da noi si cerca solo di sistemare quel che già si ha senza grossi nuovi investimenti», commenta.

Infine, una questione basilare.

«Non sono le regole a creare nuova occupazione. Ma la ripresa economica. Se un’azienda non ha intenzione di assumere nessuno perché non ha lavoro, non sarà certo incentivata a farlo solo se le si offre un contratto più vantaggioso», commenta Corazza, convinta che non ci può essere l’ennesima riforma del mercato del lavoro senza che essa sia accompagnata da una politica industriale adeguata. «Certo, con il Jobs Act il contratto a tempo indeterminato diventa più appetibile di uno a tempo determinato perché meno costoso, e questo spingere le imprese verso l’assunzione a tempo indeterminato è una cosa nuova e positiva», spiega. Ma non basta.

«La parte più promettente del Jobs Act quando, lo scorso anno, veniva abbozzato, era proprio l’andare di pari passo con una politica industriale che selezionava sette settori chiave di intervento su cui puntare per creare nuova occupazione in Italia: cultura/turismo/agricoltura e cibo; made in Italy; ICT; green economy; nuovo welfare; edilizia; manifattura».

Ma questa parte pare «essere caduta in disgrazia» e non se ne parla più.

Si sceglie invece di partire dalla fine: prima fissiamo le regole del gioco poi costruiamo il gioco.

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