La crisi della poesia e della letteratura in Italia

per Davide Morelli
Autore originale del testo: Davide morelli

Perché i migliori poeti in Italia non possono vivere di poesia? Perché devono fare gli editor, gli insegnanti, i traduttori? Perché spesso si trovano in difficoltà economiche? Perché la Merini e Zeichen hanno fatto la fame? Perché c’è così tanto bisogno della legge Bacchelli per i poeti e le poetesse? Perché invece dei mediocri pittori riescono a sbarcare il lunario, seppur senza pretese? I motivi sono diversi e rispondere a queste domande è complesso. Banalmente potremmo affermare che è la legge della domanda e dell’offerta. È questione di mercato. Il mercato condiziona anche gli stessi musei, che ai tempi delle lira pagavano centinaia di milioni gli esemplari di “merda d’artista”. Qualcuno ha pensato che in Italia troppo pochi leggono poesie e molti le scrivono malamente, abbassando il livello qualitativo medio. Eppure potremmo affermare che analogamente nell’arte contemporanea ci sono molti astrattisti che non sanno più dipingere o molti epigoni della neoavanguardia che sono solo capaci di fare provocazioni inutili. Se tutto è arte allora niente è arte. Però questo dovrebbe valere sia per la poesia che per gli eredi di Duchamp e Piero Manzoni. E allora perché questo succede solo alla poesia? Un grande esperto come l’editore Nicola Crocetti ha risposto dicendo che nessun prodotto vende se non è promosso, se è distribuito in pessimo modo come la poesia oggi nel nostro Paese. Ha anche aggiunto che in altre nazioni la poesia si vende e se non si vende in Italia è soprattutto una questione di cultura. In sintesi in Italia non si legge e la poesia è l’arte più povera. Agli scrittori va un poco meglio, ma sono pochi quelli che campano solo con i loro libri. Le grandi casi editrici si lasciano sopraffare dalle logiche di mercato. Non fanno spesso una scrematura, una selezione in base alla qualità. Sempre più spesso pubblicano diari di influencer e biografie di vip (scritte da ghost writer). Ma forse i responsabili delle grandi case editrici hanno più tempo di leggere la grande quantità di scritti che arriva loro, vista e considerata la maggiore scolarizzazione del popolo italiano ed il fatto che quasi tutti hanno un programma di videoscrittura tra le loro mani? La realtà è che ci sarà una ristretta cerchia di influencer ed una grande massa di influenced. Ma in fondo è sempre stato così nel corso della storia. Non c’è da meravigliarsi. Le ragioni della crisi della poesia in Italia possono essere molteplici. Molto probabilmente si tratta di una concomitanza di fattori, di una serie di concause. In Italia ci sono dei collezionisti di opere di arte. I collezionisti di libri come il celebre Mughini invece sono pochi. Molti considerano un investimento un quadro, mentre invece non avviene per un libro. Nell’era della riproducibilità tecnica per dirla alla Benjamin si accontentano delle copie dei poeti, mentre sono disposti a pagare ingenti somme per l’hic te nunc dei quadri originali. Un altro motivo, forse più fondato, è che il pubblico si accontenta delle canzoni, ovvero di un surrogato delle poesie. In sintesi i cantanti stranieri tolgono il pane ai cantanti nostrani, che tolgono a loro volta gli ossi ai poeti italiani. Forse i quadri e la musica leggera sono più facilmente fruibili, anche dai non esperti? Forse “arrivano” al pubblico. Sono i galleristi e gli operatori delle case d’asta a incidere nella commercializzazione, a determinare le cosiddette logiche di mercato. Potremmo pacificamente affermare che molti quadri contemporanei sono venduti a cifre astronomiche perché hanno grande valore sociale. La stessa cosa non si può dire per la poesia contemporanea, che spesso è per pochi, è elitaria. C’è inoltre una insufficiente considerazione della poesia da parte dei mass media, ma è anche vero che molti poeti viventi italiani non vogliono essere incasellati nella televisione generalista. Alcuni sono dei veri narcisisti per negazione per dirla alla Sgarbi. Infine potremmo tranquillamente dire che questa è la civiltà delle immagini, mentre invece le parole vengono svalutate, mortificate quotidianamente. La poesia italiana contemporanea spesso cerca lo scarto dal linguaggio ordinario massificato e forse per questo non viene apprezzata e neanche compresa. Un’altra ragione per cui la poesia è in crisi è la sovrapproduzione di libri di poesia ogni anno e la grandissima proliferazione di componimenti nel web. Insomma troppa offerta e poca domanda. Probabilmente non si riesce più a distinguere il grano dal loglio, ma nessuno si vuole più arrogare questo diritto: nessuno vuole più distinguere la poesia vera dall’impoesia. Ma in fondo esistono più delle linee di demarcazione nette, dei canoni estetici definiti, degli ismi per etichettare i poeti? In tutta onestà intellettuale a onor del vero non esistono più. Dicevo che la poesia contemporanea non vende perché ha scelto una strada impervia ed irta: è spesso anticomunicativa e a tratti illeggibile. Anche di questo ne va preso atto. Infine un altro motivo è che l’insegnamento scolastico della letteratura e i programmi ministeriali lasciano molto a desiderare e a detta di molti sono soporiferi. Un tempo le poesie venivano imparate a memoria e forse era uno sforzo inutile. Adesso nelle scuole le liriche vengono vivisezionate. Insomma molti escono dalle scuole e odiano la poesia. Pasolini invece fece una illuminante riflessione sulla ontologia estetica della poesia. Pasolini definì nella trasmissione di Enzo Biagi “Terza B, facciamo l’appello” la poesia come “merce inconsumabile”. Nessuno potrà mai produrre in serie poesia e nessuna lirica avrà mai una obsolescenza programmata. Pasolini sostenne che la poesia rimarrà sempre merce “inconsumata”, anche dopo che è stata letta migliaia di volte. Per il celebre poeta anzi da una lirica letta mille volte poteva sprigionare un nuovo significato. Anche questo va considerato: la poesia può essere vista come un errore o una anomalia del consumismo. A mio modesto avviso la poesia dovrebbe essere soprattutto percepita, sentita, intuita. Ma forse sono dalla parte del torto. Ad ogni modo non scagliamoci in fin dei conti contro l’arte contemporanea. Nessun furore iconoclasta. Questo mio ragionamento è solo una constatazione di fatto. Ho voluto partire dalla dicotomia arte contemporanea/ poesia contemporanea per fare considerazioni a largo raggio. Per Adorno dopo Auschwitz non si può più scrivere poesia. In realtà oggi molti scrivono poesia. Secondo altri studiosi la poesia è in crisi a causa dello scientismo, della razionalità tecnologica, del neopositivismo imperanti. Per altri non c’è più posto per la poesia in un mondo così pragmatico. Per altri ancora la poesia non ha più più alcuna funzione sociale. Per alcuni la poesia italiana è in crisi perché troppo intimista; per altri al contrario perché troppo ancorata agli stilemi della neoavanguardia; per alcuni perché è troppo criptica, addirittura esoterica; per altri perché è informe e diversamente brutta; per alcuni è colpa dell’editoria a pagamento, che illude tanti aspiranti poeti; per altri è il segno dei tempi in quanto i lettori si sono accorti della inutilità della poesia. La poesia non ha più pubblico nel nostro Paese. Resta un unico attore sulla scena, ma è un soggetto molto debole: l’autore. Resta interdetto il mandatario, ovvero il poeta contemporaneo. Secondo Romano Luperini siamo passati dalla letteratura della crisi alla crisi della letteratura. Questo naturalmente vale anche per la poesia nostrana. Cosa è successo? Non è forse più capace forse di rappresentare il presente, di restituirci la realtà, di interrogarsi sul senso della vita? La poesia nostrana forse non riesce più nella testualizzazione del mondo e non si fa più carico dei valori esistenziali? Oppure la colpa è solo dell’analfabetismo di ritorno? Si potrebbe sostenere che la poesia è un genere marginale a causa della sua ideologizzazione, a causa della scomparsa della poesia civile, a causa della autoreferenzialità della scrittura, a causa di componimenti metalinguistici o addirittura metapoetici, a causa dell’eccessivo sperimentalismo, a causa dell’irrazionalismo e dell’oscurità di alcuni poeti, a causa della “pseudopoesia” di Montale e Pasolini (tesi sostenuta dal critico e poeta Giorgio Linguaglossa). Si potrebbe sostenere che sono molti i verseggiatori e pochi i poeti. C’è chi vorrebbe essere inclusivo per una maggiore partecipazione collettiva e chi vorrebbe essere più esclusivo perché la pensa come Fortini, secondo cui la storia era storia di minoranze coerenti, capaci e molto ostinate. Oggi come oggi in definitiva la poesia italiana è aristocratica, di nicchia: croce e delizia, prendere o lasciare. Questa è l’analisi della situazione, ma non ci sono soluzioni semplici per superare questa crisi. È da decenni che la crisi perdura e questa situazione di impasse non è mai stata superata. Insomma è difficile stabilire i motivi. Sono pochi i poeti italiani contemporanei che divengono celebri. Resteranno solo coloro che hanno pubblicato con grandi case editrici. Gli altri cadranno nell’oblio, salvo imprevisti ed improvvisi cambiamenti di rotta. Secondo Montale la poesia non è più possibile in questa società di comunicazioni di massa. Secondo il grande poeta la poesia ha bisogno di riflessione, solitudine, silenzio, discrezione. Nella società di oggi invece abbiamo caos ed “esibizionismo isterico”. Montale forse aveva già capito tutto? Ma forse Montale si sbagliava perché la poesia morirà con l’ultimo uomo. La poesia si estinguerà quando si estinguerà l’uomo. Si tratterebbe perciò forse di aspettare nuove forme di poesia. Aspettiamo con trepidazione perciò. Comunque se scrivi poesie ricordati che pochissimi in Italia riescono a trasformare la loro passione in lavoro. Secondo una grande poetessa polacca però è da preferire il ridicolo di scrivere poesie al ridicolo di non scriverne.

Per cosa si scrive, indipendentemente dal risultato? Per sfogo oppure per diletto. Per cogliere degli stati di animo o per fare delle istantanee della realtà. Per sublimare gli impulsi sessuali o il proprio disagio esistenziale. Per lasciare una traccia. Per conquistare l’anima gemella. Per diventare famosi. Per fare soldi. Per sbarcare meglio il lunario. Oppure per mettere ordine al proprio disordine o al disordine del mondo. Ognuno ha il suo motivo o i suoi motivi. Scrivere forse è allo stesso tempo un modo per distrarsi dal pensiero della morte e un modo per prepararsi alla morte. Forse aveva ragione il grande Giorgio Manganelli, ovvero che il linguaggio è un gioco, un sempiterno “come se”. La vera letteratura può essere senza trama né macchinazione. La cosa importante è che abbia uno stile. Pochissimi hanno uno stile. Siamo molti scriventi ma di scrittori ne esistono davvero pochi. Siamo molti versificatori ma pochissimi sono i poeti. Lo testimonia il fatto che pochi finiscono nei manuali di letteratura. Per avere uno stile bisogna avere una visione del mondo e non è facile avere una visione del mondo, vista la complessità della società odierna. Ad esempio si parla tanto di capacità di intendere e di volere, di pieno possesso delle proprie facoltà psichiche. Ma forse oggi i giovani acquisiscono la capacità di intendere prima di un tempo, sollecitati come sono da molti stimoli cognitivi. Eppure allo stesso tempo acquisiscono forse la capacità di volere dopo rispetto ad un tempo perché il mondo si è fatto più difficile, più eterogeneo e di più difficile comprensione. Gadda parla di “grommero”. Montale parla di “matassa senza bandolo”. La realtà già nel novecento diviene garbuglio, groviglio inestricabile. Le scienze umane teorizzano la razionalità limitata. Immaginiamoci quindi quanto sia difficile avere uno stile veramente originale e dire cose nuove per uno scrittore o un poeta! Ma c’è anche chi ha una spiegazione diversa e pensa che attualmente molti siano in grado di scrivere magistralmente, vista e considerata la maggiore scolarizzazione nel nostro Paese. Ogni scrittore o poeta forse è sempre indeciso se provare a scrivere un libro totale(un’opera onnicomprensiva che descriva il mondo intero) oppure un brano brevissimo in cui viene descritto un particolare apparentemente insignificante ma che si rivela alla fine essenziale, fondamentale. Allo stesso modo ci sono persone che cercano in amore l’esperienza totalizzante che duri tutta una vita ed altre che inseguono il carpe diem. Per quale fine un essere umano scrive? In Meditazione milanese Gadda dedica un intero capitolo ai fini e scrive che «gli n tendono agli n+1 ma non sanno a cosa tendono, ché, se lo sapessero, gli n+1 non esisterebbero già”. L’uomo forse tende ad n+2, ad n+3, ad n+infinito. Questo significa che gli uomini vogliono progredire infinitamente la loro conoscenza. L’uomo vuole incrementare il sapere continuamente. Scrivere forse per chi ha pretese significa conoscere, sapere. Ecco allora spiegato perché molti scrittori del novecento hanno dato voce al molteplice, hanno cercato di dare forma all’informe, hanno cercato di volgersi agli infiniti possibili. Nel novecento fiorisce la letteratura combinatoria come quella di Perec e di Calvino. Scrivere significa allora cercare di contemplare tutta la casistica degli eventi e delle dinamiche umane. Ma quando si fa della letteratura un gioco combinatorio e dopo un sistema i problemi sono due: 1)bisogna definire cosa è un sistema e non è affatto facile. 2)bisogna che il sistema sia aperto per non farsi inghiottire dall’entropia(per il secondo principio della termodinamica) e per accogliere tutti i casi e le varianti del mondo. Il sistema chiuso significherebbe caos ed alla fine implosione. In fondo lo stesso Chomsky ha messo in rilievo la creatività del linguaggio umano, capace di produrre parole all’infinito. Forse ciò significa che qualsiasi essere umano è un sistema aperto. Sicuramente il linguaggio umano è un mirabile congegno dalle combinazioni inesauribili.

Ma sempre riguardo ai fini c’è sempre da considerare l’eterogenesi dei fini, secondo cui ci possono sempre essere conseguenze impreviste delle azioni umane, che avevano finalità molto diverse dagli esiti. A volte i vizi privati possono diventare pubbliche virtù come ne La favola delle api di Mandeville. Altre volte si parte con la nobile intenzione dell’aspirazione all’uguaglianza e si finisce con le dittature comuniste sanguinarie. Lo stesso filosofo Augusto Del Noce parlava di eterogenesi dei fini per quanto riguarda il marxismo. Si sa sempre dove si parte ma non si sa mai dove si arriva quando si pensa o si fa qualcosa. Un conto è l’intenzione ed un altro è il risultato. Lo stesso Zeno nel celebre romanzo di Svevo fa centro alla fine ma non nei bersagli mirati. Questo probabilmente succede anche per l’arte. Lo stesso Fenoglio in un suo aforisma definiva la scrittura come un “proiettile senza bersaglio”. Che sia questo il destino dell’uomo contemporaneo? E il destino dei poeti(veri, aspiranti o sedicenti) in Italia quale sarà? Avranno un futuro davvero?

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1 commento

Alessandro 20 Febbraio 2022 - 17:15

Complimenti, disamina magistrale.

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