La ferocia

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 25 luglio 2015

ferocia

 

 

Nicola Lagioia racconta ne ‘La ferocia’ (che ha vinto recentemente lo Strega) le vicende drammatiche di una famiglia pugliese totalmente spogliata di affetti. Un mero raggruppamento sociale, più che una famiglia come la si intende comunemente. Un’organizzazione dedita alla cura degli interessi di gruppo e personali, dove un padre scaltro che fa di mestiere l’imprenditore edile, costruisce una fortuna stracciando ogni genere di etica e di morale, anche giocando sulla complicità forzosa dei figli, che aderiscono all’impresa comunque interessati alla sua riuscita, soprattutto il maggiore. Tempo fa si diceva che oggi sopravvivono socialmente solo gli individui e poco più sopra la famiglia, quale clan o cerchia di fedeli, e quale ultima cellula sovraindividuale prima dell’atomizzazione. E meno che mai riescono a tenersi in vita istituzioni rappresentative, sindacati nazionali e partiti impersonali. Ma quale famiglia, mi chiedo? Di che genere?

La famiglia narrata da Lagioia interpreta ‘ferocemente’, appunto, il proprio ruolo. ‘Feroce’ verso il mondo attorno, ma feroce soprattutto al proprio interno, e come svuotata di cura, di affetti, di amore (se non a brandelli, un amore minacciato, precario, provvisorio, ‘feroce’ a sua volta!) e ridotta al mero e reciproco interesse. Una specie di mutua associazione tutto meno che naturale, dove ci si preoccupa di diventare ricchi, salvare questa ricchezza materiale, e proteggerla da ogni insidia a partire dalle indagini della magistratura. Vite spezzate, compresse, rabbiose, vite vittime di se stesse. Legate alle altre per ragioni che nessuno sa più quali siano se non la piatta convenienza. Ecco come viene rappresentata la famiglia, questa ultima e più resistente cellula sociale, questo estremo fattore di coesione, prima della tempesta perfetta della disgregazione sociale.

Certo, la famiglia non è in assoluto riducibile a questo modello estremo rappresentato da Nicola Lagioia. Ma nemmeno potremmo immaginare che l’altro punto di vista, quello della famiglia ‘Mulino Bianco’, oggi possa essere considerato egemone. La ferocia è ovunque, ed è figlia di uno spazio umano dove i rapporti sociali sono ridotti alla mera competitività individuale, dove il senso del ‘pubblico’ è ridicolizzato, tutto è personalizzato, le cose detengono un valore più alto dei viventi, e il mondo appare sempre più ricolmo di uomini soli, al comando o meno, ma soli. E feroci. Affamati. Pronti a sbranarsi, pronti a sbranare anche i propri figli, a usare i loro corpi, a farne una risorsa per gli affari, ovviamente i più sporchi.

In un mondo in cui non scovi più interesse pubblico, reciprocità, solidarietà, in un mondo a digiuno di cura e di attenzione verso gli ultimi, verso il bene pubblico, verso le condizioni di vita degli altri, è perfettamente logico che si ritorni allo stato di natura (ammesso che sia esistito), dove l’uomo è lupo tra gli uomini, ed è pronto a dilaniare tutto e tutti, e dove il conflitto aperto, ingovernabile, che ingenera la faida, prevale in modo umiliante e darwiniano. E le leggi dell’usufrutto, e quelle più egoistiche dell’appartenenza atavica comunque a una famiglia che si smembra reciprocamente e si lacera, prevalgono sulla più elementare civiltà, sui più elementari bisogni, sui gesti semplici di amore e di affetto. In un mondo così fatto vediamo solo i nostri eguali, solo reciproche identità, mentre l’altro, gli altri, sono i primi mortali nemici della nostra inquieta, affannata, esagerata ricerca di sicurezza.

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