di Alfredo Morganti – 10 dicembre 2016
“Quanto più sarà forte il partito comunista, tanto più ci potrà essere una speranza”. Andatevi ad ascoltare la conferenza stampa di Enrico Berlinguer prima del voto politico del 1972. A un certo punto egli ripete più volte questa frase, ogni volta aggiungendo un soggetto sociale: “una speranza” per i pensionati, per i giovani, per gli operai, ecc. Confrontate questo lessico con l’attuale tipico della Seconda Repubblica (per quanto ormai defunta). Se nel 1972 Berlinguer insisteva sulla ‘forza’ e vi associava la ‘speranza’, oggi è solo una richiesta di vittoria, come se ‘vincere’ fosse l’unico orientamento, l’unica vera bussola della politica. Vincere, si badi, anche in assenza di una forza vera, vincere anche avendo nel Paese solo il 20%, per dotarsi comunque di un 54% maggioritario in Parlamento. Una governabilità senza forza è il segno di questi anni della miseria. Una ‘forza’ (vera, sociale, politica, nel Paese) per alimentare concretamente la ‘speranza’ dei soggetti sociali, invece, era il lessico della sinistra che abitava la Prima Repubblica.
La politica è ‘forza’, non è ‘vittoria’. La vittoria, semmai, è agonismo sportivo, sfida, azzardo, competizione. È in quella forza politica (che Berlinguer chiede agli elettori) che risiede la possibilità stessa di trasformare effettivamente le condizioni di vita delle persone e gli assetti. Laddove la forza attribuisce un effettivo potere di rappresentanza anche nelle istituzioni, la vittoria, e dunque quell’unico voto in più che può regalare tutto il reame a chi ne rappresenti appena un quinto, garantisce al più l’occupazione delle poltrone e il potere di gestire le risorse pubbliche. Un cambiamento legato alla sola vittoria maggioritaria è, dunque, una falsità ideologica. Adesso è anche più chiaro perché Berlinguer non amasse nemmeno il 51%, e dicesse che col 51% non si governa. Perché così si spaccava il Paese, la sua unità popolare di fondo, perché si sarebbe trattato di un mero atto di forza, di una sfida muscolare destinata solo a minare le basi della Repubblica, scatenando forze opposte a quelle democratiche. L’unità era la prima cosa, e soltanto dopo venivano i conflitti e la formazione effettiva degli esecutivi. E la Costituzione (oggi messa in salvo) è la prima garante dell’unità.
Le democrazie moderne, quelle decisionali, quelle deliberative, quelle bipolari, quelle leaderistiche, ecco il punto, hanno dimenticato che la politica è forza, e che i parlamenti sono la sede in cui le forze (le ‘forze’ politiche!) si confrontano e producono equilibri ogni volta intimamente rappresentativi dello stato e dei movimenti nel Paese. Questa delicata e potente costruzione dei conflitti e delle alleanze istituzionali, tende ad avvicinare il Paese al Parlamento, al suo ‘stato’ attuale e ai suoi dinamismi sociali, ne coglie umori e speranze, colma infine le distanze, produce rispecchiamenti, senza togliere alle camere, ovviamente, la sacrosanta autonomia e ai parlamentari la stessa autonomia di mandato. Ai partiti, tassello centrale di questo edificio democratico, l’instancabile compito quotidiano di raccordare biunivocamente il Paese alle istituzioni. La loro assenza oggi, sostituiti da comitati elettorali, si fa sentire, vista la crescita esponenziale del grado di lontananza e sfiducia verso la politica da parte dei cittadini. Ci sarebbe molto da fare, insomma, ma l’unica cosa chiara in questo guazzabuglio oggi ingigantito dal renzismo, è che, senza i partiti, manca un ingranaggio essenziale per intendere di nuovo la politica come forza e le istituzioni come effettiva rappresentanza nella vita di una nazione.