Fonte: facebook
di Alfredo Morganti – 9 ottobre 2014
Purtroppo il vincolo di partito è sempre più forte del vincolo di mandato. E con l’andar del tempo questa tendenza sarà sempre più accentuata. Nella versione ‘light’ della democrazia, tipica del renzismo, dove tutto cortocircuita velocemente dal Capo Decisore all’ultimo dei rappresentanti istituzionali, il vincolo di partito (che garantisce proprio quel cortocircuito) sarà il vero must di ogni legge elettorale e di ogni prassi istituzionale. I segnali li vediamo in questi giorni. C’è una pattuglia di parlamentari, che costituisce la residua opposizione a Renzi nel PD, che si dibatte tragicamente tra il proprio vincolo di mandato (dove si risponde al proprio elettore) e quello di partito (dove si risponde invece direttamente a Renzi – non al PD, ma a Renzi).
Una tenaglia stringente, anche dal punto di vista psicologico, che sta riducendo questa pattuglia di piddini a un manipolo di claustrofobici, stretti e costretti da ogni lato. Ormai è abitudine sentir dire: voto la fiducia per lealtà al partito e per responsabilità, ma non sono d’accordo in toto con la proposta presentata. Spesso, anzi, non si è d’accordo affatto. E poco conta che i tuoi elettori manifestino, magari, qualche contrarietà alle cose che voti pur a malincuore. Conta sempre che il governo non cada, conta che non si offra a Renzi alcun motivo o spunto per sparigliare e giocare spregiudicatamente il proprio gioco. Conta che il disagio non divenga isolamento, soprattutto verso l’opinione pubblica.
Certo, un parlamentare privo della propria libertà di mandato, ossia di una libertà di fondo, è una figura dimezzata. Renzi gioca molto su questo. Ha messo le cose in modo che un’eventuale alzata di scudi e di orgoglio appaia come espressione di un vecchiume ideologico, espressione di una classe politica di vecchi privilegiati ‘fuori dal mondo’. Con la conseguenza che può disporre di questa opposizione interna, brandendo le risoluzioni in Direzione come clave. Incudine e martello, dove i tartassati sono sempre gli stessi. Un labirinto da cui non è facile divincolarsi. E che sta triturando la pazienza e l’autonomia di molti rappresentanti del popolo nelle aule parlamentari. La domanda è: come si esce da questa stretta? Basta divincolarsi, schivare i colpi, piegarsi una volta in qua e una volta in là? Quanto si può durare a questo modo? È una specie di corrosione politica e personale di amici e compagni pur validissimi, ma di fatto in trappola, liberi solo di divincolarsi un po’, in attesa di momenti migliori o di un evento che modifichi gli attuali equilibri.
Il renzismo, insomma, è una specie di patologia che colpisce anche i contigui e che produce perniciosi effetti collaterali. Non irretisce solo i fedeli, ma attacca tutti gli altri, li stringe in un angolo, li obbliga a scelte che non avrebbero voluto. Sono due gradi diversi della patologia, ma a cascata, secondo questo paradigma: conquisto il partito con un’azione da palazzo d’inverno, irretisco l’opinione pubblica con annunci mirabolanti e un uso cinico e spregiudicato della comunicazione-politica, assiepo attorno a me un gruppo nutrito di giovani (e non) pronti a tutto, avvio uno sparigliamento nuovistico privo di una strategia chiara e deducibile, e poi ingabbio gli oppositori, riducendoli a stare alle mie regole. Un percorso mirabile, efficacissimo, che per ora, sul breve, garantisce a Renzi il controllo della situazione. E che sta sminuzzando e triturando l’opposizione interna, la quale è spinta da una parte a resistere in qualche modo all’avanzata del premier, ma è costretta, dall’altra, a sottostare al percorso di guerra e alle compatibilità che lo stesso premier è bravo ad imporre ogni volta in modo ultimativo.
Come se ne esce da questa trappola? Indicando una strategia di più lungo termine, in primo luogo, uscendo dal piccolo cabotaggio e dalla stretta tattica. Ciò vuol dire costruire uno ‘spirito di gruppo’ delle minoranze sulla base di idee condivise, un’identità attiva, una lingua comune, qualche proposito collettivo. E poi sollevare lo sguardo verso la società e pure verso gli inservienti della Ditta, che appaiono sempre più spaesati. Quindi ricostruire strumenti di dibattito e di comunicazione, in cui si aprano discussioni e si indichino prospettive. Strumenti di comunicazione forti, indentitari, persino sfacciati nella rappresentazione di un punto di vista. La domanda è: ma ‘le’ minoranze del PD sono capaci di uno spirito unitario, di marciare affiancate, sono capaci di presentarsi unite? Perché se questo non fosse, non solo cadrebbe l’ipotesi molto (ma molto) teorica della ‘scissione’ (che credo non sia nemmeno in campo), ma persino l’idea di un percorso comune, unitario, compatto, identitario. Se così non fosse, se questo spirito mancasse, perché triturato anch’esso dalla tenaglia renzista, allora non resterebbe che il ‘tertium’ tra rassegnazione e scissione, una lunga marcia nella società italiana, un tuffo nelle contraddizioni e nelle tensioni sociali alla ricerca di un nuovo e produttivo contatto col popolo della sinistra (come si dice). Senza gettare alle ortiche la tradizione ma con una buona capacità di rinnovamento. Alla ricerca di figure sociali, nuovi dirigenti, motivazioni politiche, spunti culturali, visioni organizzative. In dialogo con altre forze esterne al PD, politiche, sindacali, sociali. Ai nostri dirigenti della minoranza chiedo di agevolare questo processo, di avviarlo anzi. Non serve, non è essenziale alcuna ‘scissione’, anzi, ma solo un nuovo passo, più deciso, più coraggioso. Strategico. Un’apertura alle temperie italiane. L’ennesimo, rinnovato tentativo di aderire a tutte le pieghe della società italiana. E da lì riprendere la marcia.