Fonte: huffingtonpost
di Pietro Salvatori – 3 maggio 2018
Molto sarebbe dipeso dalla relazione iniziale del segretario reggente, Maurizio Martina. Da lì si sarebbe capito se il Partito democratico avrebbe dato fuoco alle polveri nel corso della Direzione, o se avrebbe scelto di continuare nel conflitto a bassa intensità che si sta consumando da dopo le elezioni. Ecco che il ministro dell’Agricoltura sale sul podio. E tira una camionata d’acqua sulla santa barbara pronta a esplodere: “Il capitolo Pd-M5s è chiuso, ma nessuno pensi neanche a un governo con la Lega e il centrodestra”. E al Quirinale ci si andrà dicendosi disponibili unicamente a un esecutivo orchestrato dal Colle. La linea di Matteo Renzi, praticamente. “Ma non esiste nessuna resa (nei confronti del predecessore, n.d.r.) – si difende in serata nella controreplica – si tratta di politica”.
Le ironie nel partito si sprecano. “Praticamente ha detto: A rega’, avemo scherzato”, dice un onorevole romano ad alcuni suoi colleghi. “Ha chiesto il voto sulle idee di Renzi”, gli fa eco un altro. È l’ex segretario il vero protagonista della giornata. Che si vede di fatto dare un via libera totale sui punti del documento di Graziano Delrio che appena ventiquattr’ore prima era stato accolto nel partito come un sasso su un nido di vespe. La relazione passa all’unanimità. Con il reggente che incassa il rinnovo della fiducia fino all’assemblea (che Lorenzo Guerini ha annunciato entro la fine di maggio), ma imbrigliato in una linea politica che almeno fino al giorno delle consultazioni con Roberto Fico non sembrava la sua.
Renzi ottiene anche di non arrivare alla conta interna. È Martina a intestarsi la richiesta: “Lunedì avremo nuove consultazioni e proprio a partire dalle prossime giornate dobbiamo avere verso le indicazioni di Mattarella un atteggiamento costruttivo e vi chiedo di poter votare solo la relazione, chiedendo a chi intendere di presentare ordini del giorno di ritirarli”. La maggioranza renziana, sotto il coordinamento di Lorenzo Guerini, aveva approntato un proprio documento. Analogamente avevano fatto le minoranze interne, anche se su una conta vera avrebbero rischiato di spaccarsi e andare in ordine sparso, nonostante la grancassa suonata nelle ultime ore. Andrea Orlando era stato il più duro di tutti. “Mi dicono perché parli te e non può parlare lui? Se parla l’azionista di maggioranza di una corporation e smentisce l’ad le azioni crollano”, aveva detto rivolgendosi a Renzi. “Se parla uno che ha un pacchetto minoritario – aveva aggiunto – non succede la stessa cosa. Forse dovremmo parlare meno tutti. Ma se dopo che la delegazione apre si chiude da un’altra parte si toglie credibilità a quella forza politica”. E ancora, durissimo: “Una barca con due timoni non va avanti, perché purtroppo se dopo che la delegazione al Quirinale apre io chiudo da un’altra parte si toglie credibilità a quella forza politica”. Parole che preludevano a una resa dei conti finale.
Il punto di caduta è stato uno scambio alla pari. I renziani hanno ritirato il proprio odg, che avrebbe ammorbidito ulteriormente la relazione di Martina. Il reggente ha rivendicato la propria autonomia di movimento sui prossimi passi in ottica governo, sia pur su una piattaforma che non gli lascia ampio spazio di manovra. Solo a quel punto Orlando ha deciso di fare un passo indietro. Via il documento delle minoranze, si voti solo sulla relazione del segretario.
D’altronde in direzione i numeri dell’ex sindaco di Firenze erano schiaccianti. Su 198 presenti, 115 – numero in più, numero in meno – appoggiavano la sua linea. Una situazione potenzialmente esplosiva per Martina, che ha deciso così di sfumare un malumore che pure è stato palpabile negli scorsi giorni e presentare una linea con molti punti di contatto (“La ricalca”, dice ironico un deputato della minoranza) con quella dell’azionista di maggioranza del partito.
La sintesi, come spesso capita, nelle parole di Dario Franceschini: “Mi sembra che il tema del dialogo con il M5s non ci sia più da domenica, dall’intervista di Renzi e della reazione di Di Maio. Ma dare un mandato pieno a Martina anche portandoci dietro tutte le differenze che abbiamo che non vengono cancellate da un voto unitario, ma oggi dare al nostro popolo frastornato e stordito il segnale di un voto unitario credo sarebbe un fatto positivo per tutti”. Do ut des. Esplosivo interrato in attesa di tempi migliori che non sembrano arrivare mai.
E continua lo scontro a bassa intensità. Con le minoranze che ancora una volta si tirano indietro un passo prima della lotta, confidando che il rinnovo della fiducia conceda a Martina quel margine d’azione che fino ad oggi è stato soffocato. “Ma la sua apertura ai 5 stelle era un’operazione improvvisata, non aveva in nessun modo i numeri”, gongola a tarda serata un renziano incrociato a Montecitorio. Non un ottimo viatico per ripartire. Anche in considerazione del fatto che sull’analisi della sconfitta elettorale e sulla linea politica da portare al Colle molto poco è stato detto. Una sorta di ripartenza al buio. Ma solo là fuori, nel grande gioco del Palazzo. Perché dentro il Nazareno ancora una volta il vincitore è uno. Un fu rottamatore che resiste coriaceamente a qualunque tentativo di essere rottamato.