L’austerità è di destra

per Gabriella

 

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L’AUSTERITA’ E’ DI DESTRA – DI EMILIANO BRANCACCIO E MARCO PASSARELLA – ed. IL SAGGIATORE

“L’austerità è di destra e sta distruggendo l’Europa” (Il Saggiatore, 152 pagine, 13 euro) di Emiliano Brancaccio e Marco Passarella è un libro che ha diversi pregi, il primo dei quali è forse la chiarezza con cui vengono spiegati i fenomeni che hanno portato alla crisi e smontate le tesi liberiste correnti, delineando al tempo stesso una via alternativa, basata da un lato su meccanismi di riequilibrio automatici e dall’altra sul ritorno dello Stato al ruolo di indirizzo dell’economia, attraverso la pianificazione (si parla segnatamente delle proposte del Premio Nobel Leontief).

Il secondo pregio che abbiamo riscontrato nel libro consiste nel fatto che gli autori – senza cadere mai nella polemica “spicciola” e fine a se stessa – non lasciano spazio alla nebulosità e al non-detto, che spesso contraddistinguono il dibattito pubblico su temi economici e, soprattutto, politici. Una critica precisa e puntuale all’austerità (socialmente di destra) non esime e anzi implica la corrispettiva critica alla sinistra politica, la quale ha assunto l’obiettivo dei tagli, del pareggio di bilancio, del “risanamento” come sua stella polare durante l’ultimo ventennio (e, per certi versi, anche prima). Allo stesso modo per gli autori si deve sottoporre a critica il “liberoscambismo di sinistra”, quel tabù antiprotezionista che ha imprigionato i progressisti, incapaci di governare la globalizzazione (obiettivo che a parole perseguivano) proprio perché convinti dell’ineluttabilità dei suoi meccanismi e dei suoi esiti, tanto da paragonarla ad un fenomeno naturale.

Ne parliamo con uno degli autori, Marco Passarella, ricercatore presso l’Università di Leeds, Gran Bretagna.

Iniziamo con una domanda provocatoria partendo dal titolo del volume: “L’austerità è di destra”. E allora? Ammettendo che sia così, l’importante non è che funzioni?

Beh, è lo stesso titolo del pamphlet ad assumere un sapore provocatorio se solo si considera che proprio il centrosinistra (in Italia, ma non solo) è stato, negli ultimi decenni, il principale sponsor ed artefice del “rigore” dei conti pubblici. In effetti, “destra” va qui inteso come sinonimo di “classista”: l’austerità rappresenta, infatti, la “via bassa” alla soluzione degli squilibri strutturali esterni che caratterizzano i paesi-membri dell’Eurozona. Una via che passa per l’inferno della disoccupazione diffusa, della precarizzazione delle condizioni di lavoro di milioni di salariati, della deflazione salariale competitiva e della centralizzazione dei capitali europei a guida tedesca. Naturalmente, le sue possibilità di “successo” dipenderanno in modo decisivo da un vincolo di sostenibilità politica e sociale, non meno che dal contesto macroeconomico internazionale. Ma è bene aver chiaro in mente che, in tale evenienza, l’Italia e le periferie europee conoscerebbero un processo di mezzogiornificazione simile a quello che investì il meridione italiano nei decenni successivi all’unificazione. Al più, alcune tra le imprese presenti nelle aree ad alta concentrazione industriale, come le regioni del Nord Italia, potrebbero aspirare a ricoprire il ruolo di subfornitori a basso costo della manifattura tedesca e dei suoi satelliti. In ogni caso, si tratta di una prospettiva tutt’altro che auspicabile.

Tutti gli indici macroeconomici dell’Italia continuano a peggiorare. L’austerità è solo apparentemente irrazionale e controproducente o c’è un preciso disegno?

Come Emiliano Brancaccio ed io argomentiamo nel libro, è il crescente indebitamento estero dei paesi periferici, e non il presunto lassismo fiscale dei loro governi, né la presunta rigidità della loro legislazione sul lavoro, ad alimentare gli spread. Non si deve, tuttavia, cadere nell’errore di pensare che le politiche di austerità siano l’esito di un capriccio politico, di premesse teoriche irrazionali o, peggio, di un “complotto”. Tali politiche si basano, al contrario, sul convincimento, tutt’altro che infondato e ideologico, sebbene pubblicamente inconfessabile, che la crisi e le politiche di austerità svolgano una funzione disciplinante nei confronti della forza-lavoro. Che, insomma, sia possibile ridare fiato all’export mediante un’ulteriore compressione del potere contrattuale dei lavoratori, e quindi un taglio del costo del lavoro per unità di prodotto. Dietro l’apparente irrazionalità dell’austerity si celano, dunque, uno specifico retroterra teorico (quello che nel testo riconduciamo al “paradigma della scarsità”), una precisa filosofia sociale (quella “individualista”) e un’idea ben definita di modello di sviluppo economico (al traino dalle esportazioni nette).

Molti lettori di sinistra probabilmente saranno irritati dalla critica all’austerità berlingueriana. Pur con tutti i distinguo del caso, tuttavia, è difficilmente contestabile che allora il Pci commise un errore in cui trascinò anche la Cgil. Oggi la storia si ripete in modo persino grottesco. Nei convegni e nei libri si criticano le “idee fallite” ma poi si votano manovre e riforme che sono chiaramente figlie di quelle idee. Basti pensare al pareggio di bilancio in Costituzione. Come è possibile che, pur rendendosi conto degli errori teorici alla base del liberismo, la sinistra non sia capace di dire dei no e proporre una sua alternativa? E’ il timore per il vincolo esterno? Manca nella testa dei dirigenti una elaborazione teorica alternativa?

Credo che il punto sia che i principali partiti della sinistra italiana (ed europea) hanno rinunciato da tempo alla messa in discussione dei rapporti di produzione capitalistici. In assenza di un progetto alternativo di società, la posizione assunta dal governo Monti appare l’unica via d’uscita possibile, “realistica”, dalla crisi di competitività in cui versa la nostra economia. Va da sé che si tratta di un errore che non soltanto i lavoratori, ma le stesse imprese italiane, rischiano di pagare a caro prezzo.

Riassumendo, il campo della teoria economica si può dividere in due grandi filoni. Chi come Marx e Keynes non crede nella possibilità che il capitalismo sia sempre in grado di “aggiustarsi” da solo e chi al contrario pensa che il problema è semmai l’eccesso di presenza pubblica nell’economia, l’azione dei sindacati, i monopoli e gli oligopoli, tutti fattori che distorcono i mercati. Un contributo notevole alla seconda idea è venuto da quelli che pure si definiscono “New Keynesian”. Tuttavia oggi molti di loro, diciamo l’ala progressista del mainstream, da Krugman a Stiglitz passando per Roubini e Fitoussi, sembrano aver riscoperto un pensiero più critico. Persino alcune ricerche del Fondo monetario internazionale di Blanchard mettono in evidenza che l’austerità ha effetti negativi non solo nel breve ma anche nel lungo periodo. Ma nessuno di loro ha avuto il coraggio di uscire dal mainstream, di dire “ci siamo sbagliati”, di gettare alle ortiche i libri di testo di Macroeconomia che avevano scritto.

L’autocritica, sia pure implicita e parziale, di economisti del calibro di Stiglitz e Fitoussi è un segnale importante di risveglio dal torpore ideologico degli anni Novanta, e non va sottovalutato. Certo, non è un elemento sufficiente ad aprire un dibattito vero, all’interno della comunità accademica internazionale, circa i limiti evidenti del paradigma della scarsità, e circa la necessità di garantire la sopravvivenza di una pluralità di approcci teorici in competizione tra di loro. Non credo, peraltro, che sia necessario “gettare alle ortiche” i vecchi manuali per avviare un confronto serrato su questi temi. Per fare un esempio, da alcuni giorni è disponibile in libreria “L’Anti-Blanchard. Un approccio comparato allo studio della macroeconomia“. In quel volume Emiliano Brancaccio mostra come sia possibile avanzare una comparazione tra approcci teorici differenti proprio a partire dal modello-base del pensiero macroeconomico dominante (quello contenuto nel celebre testo di Olivier Blanchard, appunto). L’idea di fondo è quella di far vedere agli studenti che gli esiti teorici, e dunque le prescrizioni di politica economica, a cui pervengono gli economisti mainstream, discendono da ipotesi teoriche ben definite circa la natura delle variabili incluse nel modello. Aggiustamenti anche minimi di tali ipotesi consentono, peraltro, di rovesciarne le implicazioni logiche, riportandole in linea con quelle (assai più “robuste” sul piano dell’analisi empirica) raggiunte dal pensiero economico critico.

Diversi capi di governo, tra cui Monti (ma non Merkel e Sarkozy), hanno inviato una lettera alla Commissione Europea chiedendo misure per la “crescita”. Leggendola sembra che il focus sia molto orientato verso l’apertura del mercato interno e accordi di libero scambio con l’Asia. Ma non è proprio l’eccessiva libertà dei capitali una delle origini della crisi?

Sì, è così. Nel caso di paesi quali l’Irlanda e la Spagna, proprio l’afflusso massiccio prima, e il deflusso altrettanto imponente poi, di capitali esteri può, anzi, essere considerato il principale fattore di crisi. Quanto ai rapporti di scambio con i paesi asiatici, non mi farei troppe illusioni: tali economie sono destinate a svolgere ancora a lungo il ruolo di esportatrici nette di manufatti verso il resto del mondo. L’eventuale afflusso di capitali verso i paesi dell’Eurozona sarebbe, dunque, l’esito dei surplus commerciali realizzati dai paesi asiatici ai danni degli stati-membri dell’unione e “riciclati” in attività denominate in Euro. Tuttavia, proprio l’esperienza di Irlanda e Spagna dovrebbe aver insegnato che una crescita sbilanciata, “drogata” dagli investimenti esteri e caratterizzata da squilibri crescenti nella bilancia dei pagamenti, finisce alla lunga per rivelarsi un boomerang. No, quello che ci vuole non è un ulteriore allentamento dei vincoli alla circolazione dei capitali. Al contrario, è di un “motore interno” dello sviluppo economico e sociale, nonché di un vero e proprio sistema di “repressione dei mercati finanziari”, che le classi lavoratrici europee (e lo stesso sistema produttivo dell’Eurozona) hanno bisogno.

Lo squilibrio delle bilance commerciali, con la Germania che esporta e la “mezzogiornificazione” dei paesi periferici sono tra i problemi all’origine del perdurare della crisi in Europa che indicate nel vostro libro. In molti sostengono che l’unica soluzione sia “più Europa”, anche tra coloro che invocano maggiore intervento pubblico in funzione anticiclica. Eppure il bilancio UE è una miseria: solo l’1% del PIL dell’Unione e tendenzialmente in calo. Se ne esce con “più Europa”?

Dipende da come quello slogan viene declinato. Se “più Europa” significa un ripensamento radicale dei principi ispiratori dell’unione monetaria, che assegni alle autorità pubbliche (statuali e sovrastatuali) il ruolo di indirizzo e di intervento diretto su volume e composizione della produzione, di garanzia del pieno impiego della forza-lavoro, di segmentazione dei mercati finanziari, e di adozione di meccanismi che garantiscano, ad un tempo, un incremento della quota dei redditi da lavoro e l’aggiustamento degli squilibri esteri, allora si tratta di uno slogan condivisibile. Se, invece, si intende, come pare più probabile, una ristrutturazione del sistema produttivo europeo ad uso e consumo del capitale tedesco, allora meglio un’uscita pilotata dall’Euro, coordinata con gli altri paesi periferici (e con la Francia) e accompagnata da una revisione degli stessi accordi di libera circolazione dei capitali e delle merci.

La pianificazione economica è un concetto che rivalutate esplicitamente nel libro. Ma quale forma dovrebbe prendere? Se ad esempio guardiamo ai paesi emergenti i modelli di intervento pubblico sono piuttosto differenti, si va da un vastissimo “capitalismo di stato” in Cina alla “socializzazione dell’investimento” tramite una banca di investimenti pubblica in Brasile. E’ in mezzo a questi casi di successo che dovremmo pescare buone idee? Abbiamo anche da riguardare in modo critico un abbandono frettoloso dell’economia mista da parte delle socialdemocrazie europee?

Discutere oggi di “pianificazione economica” significa, anzitutto, riaprire il dibattito circa la necessità di garantire un controllo democratico su “cosa, quanto e come produrre”. Il fine è di porre un freno ai disastri sociali, economici ed ambientali prodotti dalla logica del capitale. Naturalmente, sarebbe non soltanto ingenuo, ma del tutto velleitario ed inconcludente, discettare di “piano” in termini meramente ideali ed astratti. È, infatti, evidente che le forme “concrete” della pianificazione debbano essere declinate sulla base della complessa articolazione delle economie e delle società europee, della loro collocazione specifica nell’ambito della catena internazionale del valore, e dei relativi rapporti di classe. Il punto di partenza della nostra riflessione è, comunque, la convinzione che il ruolo del settore pubblico non possa essere ridotto a quello di “ancella” del capitale finanziario ed industriale. Piuttosto, è necessario ridimensionare pesantemente il ruolo dei mercati finanziari mediante l’introduzione generalizzata di strumenti di controllo sui movimenti di capitale. È questa, infatti, la precondizione per l’attribuzione al settore pubblico del ruolo di creatore “di prima istanza” di occupazione. L’obiettivo è quello di indirizzare la produzione verso quelle basic commodities che maggiormente incidono sul progresso materiale e civile della società, e la cui produzione non può essere lasciata alla logica del profitto privato. È questa, e non l’illusione dei “beni comuni”, la vera sfida politica con la quale i movimenti e le organizzazioni della sinistra europea dovranno misurarsi nel prossimo decennio.

Il libro (è possibile scaricare l’introduzione e il primo capitolo) 

nel video un’intervista a Emiliano Brancaccio da youtube

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