[Libro] “Il Carcere” di Cesare Pavese

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Gian Franco Ferraris

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“Il carcere”, è un lungo racconto autobiografico di Cesare Pavese pubblicato nel ’49, ben dieci anni dopo la stesura.

E’ una storia d’introspezione, ombre, fantasmi personali: è una sorta di manifesto letterario e di vita dello scrittore: racconta del confino, ma è la stessa incapacità di comunicare a tenere prigioniero il protagonista.

La letteratura al confino. Carlo Levi e Cesare Pavese

Cristo si è fermato ad Eboli è il romanzo esemplare nella narrazione della vita dell’intellettuale antifascista confinato per volere di Mussolini e della polizia fascista in un comune del sud del Paese.

Le due opere sono state pubblicate nello stesso periodo (nel 1945 Levi, nel 1948 Pavese) e per lo stesso editore, quel Giulio Einaudi con il quale avevano condiviso la formazione intellettuale e la condanna per antifascismo.

Entrambi gli autori appartengono all’ambiente intellettuale torinese, vennero accusati di attività antifascista e, dopo un breve soggiorno in carcere, nell’agosto del 1935 vengono condannati a tre anni di confino, Pavese a Brancaleone Calabro e Levi prima a Grassano, poi ad Aliano, in Lucania. Vi resteranno poco meno di un anno, ottenendo la libertà in seguito ai provvedimenti di grazia emessi dal regime per celebrare la proclamazione dell’Impero.

L’impegno politico tuttavia fu differente: Carlo Levi, fin dalla giovinezza, aveva partecipato all’attività politica di Gobetti, per poi aderire al movimento antifascista “Giustizia e Libertà” – fondato a Parigi nel 1929 da Carlo Rosselli, Emilio Lussu, Alberto Tarchiani – del quale sarebbe poi divenuto a Torino uno dei principali attivisti; mentre Pavese aveva frequentato i gruppi antifascisti torinesi, ma il suo impegno non fu mai direttamente militante.

Levi riferisce delle delle condizioni di miseria e asservimento dei contadini lucani; scrive in prima persona, il protagonista è lo stesso autore. L’esperienza del confino drammatica ed estraniante, viene vissuta come opportunità di conoscenza e di denuncia sociale. Il mondo chiuso di Aliano (che l’autore, fedele alla denominazione della gente del luogo, chiama Galiano) è simbolico della distanza tra due Italie: quella della “civiltà” che sembra essersi fermata nel suo sviluppo là dove finisce la ferrovia, a Eboli appunto, e quello emarginato e asservito in cui si stenta a sopravvivere tra miseria, fame e malattie. Levi stabilisce un contatto diretto con la gente del posto grazie alle sue conoscenze mediche e questo gli permette di conoscere le pratiche della magia e del rito che interpreta come risposta alla miseria. Nei mesi di permanenza in Lucania, si crea un legame forte di compassione ma anche di affetto con quelli che l’autore definisce i “suoi contadini”. L’idea centrale del libro si basa sulla scoperta del mondo contadino come passato arcaico individuale e collettivo in cui lo spazio e il tempo mantengono una sacralità che il mondo borghese ha perso. Il “carcere” di Pavese è indirettamente autobiografico. Il protagonista è l’ingegner Stefano, un personaggio di fantasia e i riferimenti al contesto storico-politico, alle motivazioni della condanna al confino, sono rari, generici e non influenti. L’attenzione dell’autore, piuttosto che alla realtà umana che lo circonda, è rivolta all’introspezione del protagonista, unico personaggio tratteggiato in profondità. Nella solitudine trova la condizione che più lo appaga ad esempio nel rifiuto di incontrare l’altro confinato, anticipa così il difficile rapporto con l’impegno politico che verrà ampiamente rappresentato nel romanzo, La casa in collina. I due romanzi saranno pubblicati insieme con il titolo Prima che il gallo canti che, nel richiamo alle parole che Cristo rivolse a Pietro prima del tradimento, allude alla paura e all’incapacità dell’uomo di fronte alle proprie responsabilità.

Il Carcere

Il breve romanzo racconta l’esperienza del confino insieme fisica ma ancor di più esistenziale che porta l’autore a descrivere Brancaleone, il paesino della Calabria in cui è confinato, la descrizione paesaggistica, speculare agli stati d’animo, è importante:

“Per qualche giorno Stefano studiò le siepi di fichidindia e lo scolorito orizzonte marino come strane realtà di cui, che fossero invisibili pareti di una cella, era il lato più naturale”.  L’ing. Stefano, l’alter ego di Pavese pare trovare pace nei ritmi lenti del paese e nel ritrovarsi negli stessi luoghi ogni giorno – una passeggiata come nella locanda, ma traspare la solitudine e la desolazione del protagonista. Lo stile della lingua passa senza scossoni, da una forma descrittiva all’introspezione psicologica, dall’introspezione ai dialoghi, scritti in modo semplicissimo proprio per rendere realisticamente al massimo l’ambiente e i personaggi:

Stefano seduto davanti al sole della soglia ascoltava la sua libertà, parendogli di uscire ogni mattina dal carcere. Entravano avventori all’osteria, che talvolta lo disturbavano. A ore diverse passava in bicicletta il maresciallo dei carabinieri.

L’immobile strada, che si faceva a poco a poco meridiana, passava da sé davanti a Stefano: non c’era bisogno di seguirla. Stefano aveva sempre con sé un libro e lo teneva aperto innanzi e ogni tanto leggeva.

Gli faceva piacere salutare e venir salutato da visi noti. La guardia di finanza, che prendeva il caffè al banco, gli dava il buon giorno, cortese.

– Siete un uomo sedentario, – diceva con qualche ironia. – Vi si vede sempre seduto, al tavolino o sullo scoglio. Il mondo per voi non è grande.

– Ho anch’io la mia consegna, – rispondeva Stefano. – E vengo da lontano.

La guardia rideva. – Mi hanno detto del caso vostro. Il maresciallo è un uomo puntiglioso ma capisce con chi ha da fare. Vi lascia perfino sedere all’osteria, dove non dovreste.  (Cesare Pavese, Prima che il gallo canti – Il carcere, Einaudi, 1949)

Stefano è coinvolto nella vita di paese: gioca a carte all’osteria, va a caccia con Vincenzo, ma sente tutto come estraneo, precario,  e sono sempre e solo gli “altri” a prendere l’iniziativa.

Proprio con Gaetano Fenoaltea, Stefano si rende conto di essersi sbagliato sui conti del paese. Quel paese non era un eden immacolato: sotto la coltre dell’innocenza, i maschi nascondono torbidi atti e passioni, nel lungo racconto si fa strada il problema della frustrazione sessuale. Molti paesani, Gaetano, Giannino, Pierino molte volte gli chiederanno se avesse bisogno di una donna, ma Stefano rifuggerà sempre l’argomento verso la fine del racconto, Gaetano aveva mantenuto “la promessa”: avevano preso una donna, Annetta, e la tenevano a casa del sarto. Quella donna era a disposizione loro e di altri due: Stefano passerà solo qualche minuto in stanza con Annetta, senza farci niente, solo per non far scontentare Gaetano. nel racconto dell’episodio i maschi sono volgari, sudicioni, desolanti:

La ragazza – bella la conosceva Antonino – voleva quaranta lire: bisognava quotarsi – ci state, ingegnere? Stefano gli diede la moneta per troncare il discorso …Stefano fumava la pipa un mattino all’osteria e vide entrare guardinghi Gaetano e il meccanico. Vedendo il viso asciutto di Beppe, pensò a Giannino che aveva fatto con lui l’ultimo viaggio. Gaetano serio gli toccava la spalla: – Venite, ingegnere – . Allora ricordò.

Il sarto un ometto rosso, li accolse con mille cautele nella bottega. – Sta mangiando, – gli disse. – Ingegnere riverito. Nessuno vi ha visti? Sta mangiando. Ha passato la notte con Antonino.

La porticina di legno del retro non voleva aprirsi. Stefano disse: – Andiamocene pure. Non vogliamo disturbare – e spense la pipa.

Ma entrarono tutti e entrò anche lui. La stanzettina aveva il soffitto obliquo, e la donna sedeva su un materasso disfatto, senza camicetta sì che mostrava le spalle, e mangiava con il cucchiaio da una scodella. Levò gli occhi placidi in viso a tutti, tenendosi la scodella tra la sottana tra le ginocchia. I suoi piedi non toccavano terra, tanto che pareva una bambina grassa.

hai appetito eh? – disse il sarto, con una curiosa vocetta raschiante.

– La donna fece un sorriso sciocco, indifferente e poi quasi beato.

Gaetano le andò vicino e le prese la guancia tra le dita. La donna con malumore si svincolò e, deposta la scodella a terra si posò le mani sulle ginocchia fissando in attesa. Forse credendo di sorridere, i tre uomini. Stefano disse: – non bisogna interrompere i pasti. Ora andiamo.

Fuori respirò l’aria fredda e smarrita.

Quando volete, ingegnere, – gli disse subito Gaetano alla spalla.

Quindi l’incontro molto pavesiano con la donna.  “Ripartita la piccola donna che Stefano non aveva toccato, pur chiudendosi con lei qualche minuto per non essere scortese verso Gaetano – a Stefano accadde un fatto che la sua fantasia interpretò infantilmente come un oscuro compenso della Provvidenza. Trovò sul tuo tavolo, rientrando la sera, un mazzetto di fiori rossi, ignoti, in un bicchiere e accanto un piatto, sotto un altro piatto capovolto, di carne arrostita. La stanza era rifatta e spazzata. La valigia sul tavolino nudo,  fino fino all’orlo di biancheria lavata.

Nei pochi istanti che era stato nel covo, Stefano senza sedersi sul materasso aveva chiesto alla donna se era stanca, le aveva dato da fumare e, pur sapendo di farlo solamente per disgusto, s’era astenuto da lei. Le aveva detto: – vengo solo a salutarti – sorridendo per non offenderla: e l’aveva guardata fumare, così piccola e grassa, i capelli viziosi sulle spalle, il reggiseno rosa e innocente, dal ricamo consunto.

E adesso, in quella riconciliazione che Elena gli proponeva col mazzetto di fiori, Stefano vide un’ingenua promessa di pace, un assurdo compenso che più che da Elena gli veniva dalla sorte, per la sua buona azione. Naturalmente Annetta l’aveva rispettata per semplice disappetenza, ma Stefano non fece in tempo a sorridere della sua ipocrita ingenuità, che lo prese un terrore…..

Elena e Concia le donne del romanzo

Stefano ha una vera e propria storia con Elena l’unica persona che viene raccontata in profondità, gli altri personaggi vengono descritti come figurine, ombre. Elena è una donna matura, vedova, remissiva, spaventata da quel che la gente dice e tuttavia molto sentimentale. Si lega subito a Stefano mentre per lui è una sorta di ripiego, non riesce mai a sentirla accanto, a viverla propriamente come donna. Vorrebbe che lei arrivasse la notte e andasse via all’alba senza dire nulla, vorrebbe che fosse solo un corpo senza storia.

Elena non parlava molto. Ma guardava Stefano cercando di sorridergli con uno struggimento che la sua età rendeva materno. Stefano avrebbe voluto che venisse al mattino e gli entrasse nel letto come una moglie, ma se ne andasse come un sogno che non chiede parole né compromessi. I piccoli indugi d’Elena, l’esitazione delle sue parole, la sua semplice presenza, gli davano un disagio colpevole. Accadevano nella stanza chiusa laconici colloqui.

Una sera Elena era appena entrata, e Stefano per starsene solo, più tardi, a fumare in cortile, le diceva che forse tra un’ora sarebbe venuto qualcuno – Elena spaventata e imbronciata voleva andarsene subito e Stefano la tratteneva carezzandola – si sentì un passo e un respiro dietro i battenti serrati e una voce chiamò.

– Il maresciallo, – disse Elena.

– Non credo. Lasciamoci vedere: non c’è nulla di male.

– No! – disse Elena atterrita.

– Chi è? – gridò Stefano.

Era Giannino. – Un momento, – disse Stefano.

– Non importa, ingegnere. Domani vado a caccia. Venite anche voi?

Quando Giannino se ne andò, Stefano si volse. Elena era in piedi tra il letto e il muro, nella luce cruda con gli occhi perduti.

– Spegni la luce, – balbettò.

– E’ andato…

– Spegni la luce!

Stefano spense e le venne incontro.

– Vado via, – disse Elena, – non tornerò mai più.

Stefano si sentì male al cuore. – Perché? – Balbettò. – Non mi vuoi bene? – La raggiunse attraverso il letto e le prese una mano.

Elena divincolò le dita, serrandogliele convulsa. – Volevi aprire, – mormorò, – volevi aprire. Tu mi vuoi male -. Stefano le prese il braccio e la fece piegare sul letto. Si baciarono. (Cesare Pavese, Prima che il gallo canti – Il carcere, Einaudi, 1949)

Stefano ha bisogno dell’amore di Elena ma si tratta di un amore a senso unico, l’uomo è incapace di ricambiarlo e ripetutamente sfugge alla donna. Nella sua fantasia si invaghisce di una serva giovane e selvaggia, Concia, che definisce “bella come una capra”, lo  confessa agli altri uomini del romanzo, risultando ancora più distante da loro e bizzarro proprio perché attratto da questa animalità di cui gli altri pure sono parte e che cercano di fuggire.

Non voleva parlare, e parlava. L’orgasmo degli altri gli dava un’importanza che lo faceva parlare. Sentiva di confondersi con loro, di essere sciocco come loro. Sorrise.

– …Non c’era…

– Ma chi è?

– Non lo so. Con licenza parlando, credo faccia la serva. È bella come una capra. Qualcosa tra la statua e la capra.

Tacque, sotto le domande incrociate. Provarono a dirgli dei nomi, rispose che non ne sapeva nulla. Ma dalle descrizioni che gli fecero, riportò l’impressione che si chiamasse Concia. Se era questa, gli dissero, veniva dalla montagna ed era proprio una capra, pronta a tutti i caproni. Ma non vedevano la bellezza.

– Quando sembrano donne, non vi piacciono? – Chiese Vincenzo, e tutti si misero a ridere.

– Ma Concia è venuta alla festa, – disse un giovane bruno, – l’ho veduta girare dietro la chiesa con due o tre ragazzini. Ingegnere, la vostra bellezza serve ai ragazzini.

– Chi vuoi che la voglia? Ha servito anche al vecchio Spanò che l’aveva a servizio, – disse Gaetano guardando Stefano.

Stefano lasciò cadere il discorso. Quel senso di solitudine fisica che l’aveva accompagnato tutto il giorno fra la calca festaiola e il cielo strano di lassù, rieccolo ancora. Per tutto il giorno Stefano s’era isolato come fuori del tempo, soffermandosi a guardare le viuzze aperte nel cielo. Perché Giannino gli aveva detto ridendo: “Andate, andate con Fenoaltea. Vi divertirete”? (Cesare Pavese, Prima che il gallo canti – Il carcere, Einaudi, 1949).

Quando giunse il momento della partenza, Stefano riordinò in men che non si dica la sua valigia: c’è tempo per un ultimo saluto a Elena, che lui ha allontanato, forse per paura, forse per proteggerla. “Le disse che le pagava la stanza, perché tornava a casa, e che il resto, nulla avrebbe potuto pagarlo. Elena con la sua voce roca balbettò imbarazzata: – Non si vuole bene per essere pagati. 

“volevo dire la pulizia” – pensò Stefano, ma tacque e le prese la mano.”



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1 commento

Chiara De Noia 9 Maggio 2021 - 15:28

Ho avuto il previlegio di assistere al piece teatrale del ” Il vizio assurdo.” interpretato nel ruolo principale di Cesare Pavese da Luigi Vannucchi. Anni dopo quella interpretazione, l’attore si suicido’. La recitazione di quella vita che aveva visto Cesare Pavese, struggersi per quell’amore non contraccambiamo, lo segno’ a tal punto da vivere il dramma e l’epilogo. Chiara De Noia

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