Lombardia, Bruno Tabacci: “La sanità con la Dc era pubblica, ha cambiato volto con Formigoni. La Regione ammetta gli errori”

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Concetto Vecchio
Fonte: La Repubblica

Il deputato del Centro democratico, che è stato presidente lombardo della prima Repubblica, accusa: “Nella crisi del coronavirus c’è stato un misto di insipienza e superficialità. Ma il sistema è stato stravolto già dalla metà degli anni Novanta. E Maroni ha addirittura equiparato pubblico e il privato”

“La sanità lombarda ha cambiato faccia negli anni Novanta, con Roberto Formigoni. Quando la governavamo noi democristiani era tutta pubblica, salvo una piccola parte privata. La Lega ha proseguito il lavoro a tal punto che nel 2015 Roberto Maroni ha addirittura equiparato il pubblico al privato”.

Bruno Tabacci, 73 anni, ha governato la Lombardia nella Prima Repubblica, da democristiano di sinistra, corrente De Mita. Oggi è un deputato del Centro democratico, un piccolo partito che sostiene la maggioranza di Giuseppe Conte.

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“Nel sostenere tutto e il contrario di tutto. ‘Apriamo’. ‘Chiudiamo’. ‘Riapriamo’. Ancora pochi giorni fa, quando il governo ha deciso la riapertura delle librerie, il presidente Fontana è insorto, smarcandosi. Adesso non vuole più aspettare nemmeno il 4 maggio. Servirebbe più saggezza”.

Come racconterebbe a uno straniero quanto è accaduto?
“C’è stato un misto di insipienza e superficialità: ‘Siamo i più bravi e nessuno ci può dire cosa dobbiamo fare’. I dati dicono che il Veneto, che pure ha avuto un focolaio iniziale, è stato più bravo nel gestire l’emergenza. Loro, nella prima fase, hanno ricoverato il 26 per cento dei malati, l’Emilia Romagna il 45 per cento, la Lombardia il 75. Per converso la Lombardia ha curato soltanto il 14,5 per cento nell’assistenza domiciliare, l’Emilia il 45, il Veneto il 65. Questi numeri ci dicono che in Lombardia si sono indebolite le strutture territoriali in favore dell’ospedalizzazione. Un processo avviato a metà degli anni Novanta”.

Com’era ai suoi tempi?
“Io sono stato presidente dal 1987 al 1989. Prima di me avevano governato Bassetti, Golfari, Guzzetti, dopo di me venne Giovenzana. La sanità era in larga prevalenza pubblica, a parte il polo dei Rotelli a San Donato Milanese. Con Formigoni questo equilibrio si spezza. Si punta sull’ospedalizzazione d’eccellenza, che attira molti malati da fuori, specie dal Sud, e ancora meglio se danarosi. Ma di fronte all’epidemia questo modello ha mostrato tutti i suoi limiti. E queste cose non le dico io, da vecchio amministratore, ma le hanno scritte nero su bianco i medici dell’Ordine regionale in un documento del 6 aprile scorso”.

Come spiega lo spostamento dei malati nelle Rsa?
“Nel tentativo di svuotare le corsie degli ospedali si è commesso un altro errore gravissimo. La delibera regionale dell’8 marzo destinava i malati ‘a bassa intensità’ in 16 Rsa, senza verificare se fossero strutture adatte o meno ad isolare i contagiati. Di più: si sono ingolosite ad accettare questi pazienti, perché il 30 marzo si era fatta una delibera con cui si assegnava 150 euro al giorno per ciascun degente”.

Fontana dice che spettava ai tecnici controllare la capacità di isolamento delle residenze.
“Non si scarichi sui tecnici, per favore, le scelte della politica. Quando ci fu la frana in Valtellina, nell’agosto del 1987, dovetti decidere se far tracimare il lago che il fiume Adda aveva formato nella val di Pola, per togliere così l’alta valle dall’isolamento: Bormio era isolata da Sondrio. Mi consultai con il ministro della Protezione civile, Remo Gaspari. I tecnici erano divisi. Era una situazione complicata, rischiosa. C’era la diretta tv. Beh, presi la decisione e diedi il via libera, senza nascondermi dietro ai tecnici”.

Come nasce il modello Formigoni?
“Si è ceduto alle sollecitazioni dei privati. C’erano anche ai nostri tempi, cosa crede, ma la politica svolgeva ancora una funzione di rappresentanza degli interessi collettivi. Qui non si è saputo dire di no, mutando la sanità pubblica in un’altra cosa. La Lega, con Maroni presidente, ha poi proseguito l’opera. Morale: siamo stati incapaci di un controllo sul territorio, di operare screening di massa all’inizio della pandemia”.

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Tra le case di riposo sotto accusa c’è anche il Trivulzio.
“E mi addolora leggere le testimonianze di quanti avevano affidato fiduciosi i loro vecchi lì e se li sono ritrovati cadaveri. La magistratura faccia chiarezza”.

Cosa è successo invece nella Bergamasca? Perché Nembro non è stata dichiarata zona rossa?
“Qui hanno inciso le pressioni dei grandi gruppi industriali presenti sul territorio, che speravano di poter convivere con il morbo. Un po’ li capisco. All’inizio eravamo tutti impreparati. Anche se c’era già stato il precedente di Codogno, con la differenza che a Codogno il pronto soccorso l’hanno chiuso subito, ad Alzano l’hanno chiuso e riaperto nel giro di due ore”.

Come ne esce il modello lombardo?
“Vedo che in rete i napoletani si fanno beffe di noi. Credo che dovremo riflettere sul nostro modello. Diventare più umili e più saggi. La ricchezza non può prevalere su un compiuto diritto alla salute. Abbiamo perso il rapporto con la terra. Vengo dalla bassa Mantovana, una provincia che fu contadina, e penso che abbiamo svillaneggiato l’ambiente. D’accordo, eravamo la locomotiva d’Italia, ma ciò ha comportato anche l’essere una delle zone più inquinate d’Europa e ora siamo chiamati a pagare un conto anche per questo”.
Qual è il sentimento tra i milanesi?
“Di turbamento. Apro la finestra della mia casa in corso Indipendenza e fuori non c’è nessuno. Ci si sente anche meno al telefono, è subentrato un silenzioso scoramento”.

Lei aspetterebbe il 4 maggio per ripartire?
“Io sì. Aspetterei la fine dei due ponti. Poi servirà la prudenza necessaria per non ricaderci. Ma mi chiedo anche come faranno le famiglie con le scuole chiuse? A chi lasceranno i figli? Nemmeno ai nonni si potranno lasciare. Vedo in giro molta confusione. Troppi slogan per andare sui giornali. Dovremmo prendere esempio dai tedeschi”.

La politica è stata all’altezza?
“C’è un problema che riguarda le classi dirigenti di questo Paese. Ho visto con favore l’elezione di Bonomi a capo di Confindustria. Ma spero che non si risolva in una presidenza dell’antipolitica. Da soli non ce la facciamo. Serve lo sforzo solidale di tutti. E il rapporto con l’Europa è centrale, se non vogliamo finire nell’orbita degli Usa o dei cinesi”.

Cosa le manca in questi mesi?
“Il non poter andare in bici. Una volta alla settimana prendo il treno da Milano a Roma. C’è un solo Frecciarossa che parte al mattino da Torino e arriva a Napoli. Per molte settimane sono stato l’unico viaggiatore nella carrozza. Ora siamo tornati a essere una decina, una persona nello spazio da quattro: in totale, nelle undici carrozze, non viaggiano più di quaranta persone. Poi io scendo a Termini e vado a Montecitorio, dove tutti, dai commessi ai deputati, portiamo la mascherina e restiamo a distanza. Sono immagini incredibili”.

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