L’Unione Europea al bivio e la crisi della governance europea

per Lillo Colaleo
Autore originale del testo: Lillo Colaleo

di Lillo Colaleo  26 maggio  2015

La produzione di un’analisi rigorosa sulle elezioni che sono avvenute di
recente nei paesi aderenti all’Unione Europea, con la pretesa da un lato di
osservare in termini generali il fenomeno e dall’altra di comprenderli,
corre il rischio di porre chi lo voglia fare nella posizione del verme che
viene a trovarsi all’interno della mela, capace cioè di scandagliare il reale
in una serie di affermazioni molto chiare e leggibili, tecnicamente
ineccepibili, ma allo stesso tempo di relegarlo all’incapacità di muoversi
all’esterno, non avendo posto adeguatamente l’occhio critico sul contesto
dove si trova poi concretamente a muoversi, con l’esito, fin troppo
frequente, di sfiorare puntualmente l’argomento, ma di non trattarlo.
E’ necessario, quindi, porre delle premesse affinché ciò non avvenga.
Che, data l’esiguità in cui si dovrà sviluppare il ragionamento, cercando
di dirci quello che fin troppe volte non ci diciamo, e dunque ad uscire
fuori dalla mela, finiremo per non parlare affatto, se non incidentalmente,
delle elezioni stesse, che risultano soltanto essere poi frammenti in una
cornice più ampia, in quanto non sono altro che il risultato, e non lo
causa, di fenomeni che, seppur calati successivamente nelle particolarità
delle singole realtà nazionali, sembrano rispondere ad una logica
generalizzata, di cui alla fin fine costituiscono il dato puramente fattuale,
l’oggetto, rispetto al quale dobbiamo noi successivamente riconnetterli in
una visione di sistema. L’insegnamento hegeliano, in tal caso, costituisce
un punto importante: la nottola di Minerva arriva solo e soltanto al calar
della sera. Non potrebbe d’altra parte arrivare prima, salvo volerci far
fare, puntualmente, la figura di un qualsiasi Don Ferrante, avulso dal
principio che dai fatti che dipendono poi i ragionamenti, e dunque le
analisi, e mai il contrario.
Questa premessa ci porta ad una premessa successiva, non meno
importante. Ovverosia quell’affermazione che, come un faro che fa luce
tra le tenebre dell’ipertrofia dell’informazione, dovrebbe costituire un
punto di riferimento per qualsivoglia argomentazione politica: Destra e
Sinistra sono solo e soltanto punti nello spazio. Ci dicono poco o nulla
sul contenuto, sugli oggetti e sui soggetti che questo spazio si ritrovano a
riempire. Costituiscono, se vogliamo, delle tensioni, rispetto alle quali il
magma dei gruppi sociali si muove e dunque successivamente, per mezzo
della mediazione di forme organizzate, poi s’identifica trovandosi ad
essere legittimato nel dibattito politico.
Le due premesse sono peraltro fondamentali.
La prima ci induce a rifuggire qualsiasi pregiudizio ideologico, cercando
di porci nella condizione più laica possibile, anche se mai del tutto
imparziale, di chi deve ricostruire dal fatto l’idea e non il contrario.
Quindi, sarebbe bene capirci su questo punto: non è pensabile trovare
giustificazioni ideologiche, come quelle che si sono lette, per dimostrare
fatti ed avvenimenti che stanno poi altrove. In altri termini non è
pensabile che queste elezioni costituiscano la prova tangibile, un segnale
divino, la prova empirica di qualcosa, l’esito di laboratorio capace di
condurre a superamento rapporti dialettici interni, come quelli tra forze
partitiche nello scenario politico italiano. “E’ giusto, perché è avvenuto
lì” sarebbe un’affermazione di ben poco respiro.
La seconda ci ribadisce che è indispensabile fuggire da una seconda
forma di semplificazione, dovuta a rigurgiti nostalgici: la lancetta
dell’orologio non torna mai indietro, perché quando il fiume della Storia
si mette in moto va solo avanti, senza conoscere ripensamenti. Le
strutture della società creano con forza innovativa e distruttrice sempre
nuove ed incredibili combinazioni. Ed il fatto che bisogna cercare nuovi
appigli crea solo false speranze, ma ben poche conseguenze. “Facciamo
come fanno lì” è solo un modo per non capire dove ci si sta dirigendo,
ritrovandosi, come il Del Longo di Stendhal a Waterloo, senza averci poi
capito molto.
Consapevoli delle armi a nostra disposizione, liberatici da pulsioni e
mentalismi fuorvianti, avventuriamoci fuori dalla mela, sperando di non
perderci.
Sarà necessario partire da due osservazioni. La prima è quella di Matteo
Renzi, presidente del Consiglio e segretario del PD, la seconda quella di
Emanuele Macaluso, anziano esponente politico del (fu) PCI.
Riportiamole. La prima: “Il vento della Grecia, il vento della Spagna, il
vento della Polonia non soffiano nella stessa direzione, soffiano in
direzione opposta, ma tutti questi venti dicono che l’Europa deve
cambiare e io spero che l’Italia potrà portare forte la voce per il
cambiamento dell’Europa nelle prossime settimane e nei prossimi mesi”.
La seconda: “È chiaro che l’assetto europeo non regge e non c’è una
sinistra in grado di indicare una strada comune che sia europeista e al
tempo stesso alternativa all’attuale assetto conservatore. Non regge il
vecchio compromesso che aveva consentito in Europa lo stare insieme
delle forze moderate europeiste e socialiste. La crisi economica e sociale
ha messo alle corde quel compromesso e, con esso, anche il socialismo
europeo.”
Entrambe hanno un pregio: colgono che c’è un elemento di novità,
generalizzato, non individuato in un solo paese, ma di più ampio respiro.
Entrambe cioè colgono che c’è un elemento di profonda trasformazione
che investe le realtà “non” dei singoli Stati, ma dell’Unione Europea, in
quanto “istituzione politica”. Il problema dunque non sono, non possono
essere le politiche nazionali, poiché il terreno del conflitto ha cambiato
assolutamente piano, in quanto si muove in un mondo dove ad aver
cambiato piano sono anzitutto le dinamiche sociali, politiche, culturali,
sulla quale i popoli si trovano poi a doversi confrontare. E di questo
bisogna rendersi conto, bisogna interiorizzarlo con estrema urgenza:
altrimenti si rischia di disperdere tutto ciò nell’esercizio retorico della
“Europa dei burocrati“, che, seppur cogliendo un aspetto, quello più
sgradevole, finisce per creare un conflitto, quello tra Stato ed Unione, che
non è quello reale, perché è la stessa dimensione dello Stato a non
trovarsi ad essere più quale discorso e momento centrale dello stesso
mutamento storico.
Andando all’affermazione di Renzi, però, sembra a questo punto evidente
che alla consapevolezza iniziale, posto che fosse quella, ne manca una
successiva alla stessa presa d’atto, in quanto non è il singolo Stato ad
essere soggetto operante e protagonista all’interno del fenomeno, quale
possa essere l’Italia, da lui indicata come avanguardia nella battaglia del
cambiamento, né è pensabile che in quest’ottica il problema stia poi
effettivamente in una contrapposizione plastica tra cambiamento e
conservazione, o quantomeno non è pensabile che si possa dare per
“dato” e “presupposto” che il cambiamento in questione abbia uguale
contenuto per tutti quanti i compartecipi, sia che ciò avvenga in Spagna o
in Francia, che avvenga in Polonia o in Regno Unito, che avvenga in
Scozia o in Grecia.
La vera debolezza del ragionamento, al netto della condivisibile
intuizione, sta su un altro piano, che coglie in buona parte Emanuele
Macaluso, nonostante l’età avanzata. Quello che questi coglie è un punto
ben preciso e sta in due espressioni: “Assetto europeo conservatore” e
“compromesso”, spostando il momento dialettico su un altro fatto, che ci
offre con più lucidità quale sia l’oggetto del contendere, ossia l’UE come
istituzione anzitutto politica, in cui la conservazione dello status quo
regge su un compromesso di natura anch’essa politica. Compromesso
che, a quanto pare, viene messo ampiamente in discussione. In altri
termini: la battaglia è sul modello della Governance europea, ed è questa
che viene ad essere messa ampiamente in discussione. Ed in tal senso sta
l’esplosività dei movimenti che si sono venuti a creare, dalla Scozia alla
Polonia, dalla Grecia alla Spagna, dalla Francia al Regno Unito, che
hanno in questo il minimo comune denominatore: non è una battaglia per
il cambiamento che ha per contenuto una visione progressista, perché con
ciò non puoi accomunare Le Pen e Tsipras. Quello che li accomuna è la
battaglia tutta politica contro un’istituzione politica, l’Unione Europea,
che regge su un compromesso tra forze popolari e sociali che a sua volta,
sin dal 2009 a guida Barroso, con spirito assolutamente conservatore,
porta a politiche di conservazione ed autoreferenzialità sotto la bandiera
dell’europeismo.
E che vede le forze del socialismo europeo assolutamente subalterne a
questa impostazione ed incapaci di immaginare una visione del mondo
alternativa e capace di offrire prospettive a quella che è una vera e
propria crisi di legittimazione anzitutto politica. Perché ancora legate o
alle nostalgie blairiane della terza via o incentrate alla lotta contro le
disuguaglianze, politiche le quali, seppur culturalmente distanti, in grado
di affrontare e risolvere problemi assolutamente differenti tra loro,
risultano tutte e due pensate e costruite per muoversi su un territorio ben
definito: lo Stato. Peccato che lo Stato, come lo avevamo inteso finora,
non esista più.
Ed è in questo passaggio, quello relativo alla consapevolezza che l’idea
di Stato, quale momento centrale del discorso inerente alla costruzione
delle teorie sociali, non sia in realtà più tale, che si consuma la tragedia
della crisi della legittimazione politica in Europa.
Non è bastato il Consiglio europeo di Laeken con i suoi moniti, tre lustri
fa, ad avvisare che l’Europa si trovava al “bivio”. Non è bastato il
tentativo abortito della Costituzione per l’Europa e la successiva
soluzione compromissoria del Trattato di Lisbona, la quale per la verità,
ha più lasciato le tutte vie aperte, ma non ne è ha invero intrapresa
nessuna. Non sono bastate le conferenze, i tavoli tematici, i movimenti, a
mettere in avviso che stava cambiando qualcosa. Non sono bastate le
proteste, le manifestazioni, non sono bastati i no-tav, i no-global, gli
euro-scettici, i nazionalismi di ritorno. Non sono bastate le crisi
economiche, le gestioni comunitarie zoppicanti, la confusione
ideologizzata ed egoista, non è bastata il fallimento sulla politica
monetaria, non è bastato perfino che la crisi economica, sociale,
culturale, identitaria, toccasse i paesi fondatori e più convintamente
europeisti dell’Unione. In un contesto come quello globale, dove perfino
dagli anni novanta è lo stesso segretariato ONU a fare presente che il
mondo sta cambiando e si registra un distacco tra il potere ed i popoli,
dove abbiamo enormi ed immensi stravolgimenti in altre aree del mondo,
tutti diversi tra di loro, ma allo stesso tempo accomunati dal fatto di
realizzare quella che è una fase di vera e propria transizione, l’elitè
europee non hanno saputo comprendere la natura del mutamento in atto,
registrando un ritardo senza pari nella costruzione dei modelli di
partecipazione e gestione condivisa sul piano delle istituzioni politiche e
nella realizzazione di adeguate e tutelanti politiche sociali, le quali,
d’altra parte, sono il fondamento, la roccia non dissolubile, sulle quali le
prime, le istituzioni politiche, devono necessariamente poggiarsi per
vedere riconosciuta la legittimazione e l’autorità a svolgere le proprie
funzioni.
“La crisi economica e sociale ha messo alle corde quel compromesso ”,
dice bene Macaluso, compromesso che era stato capace di nascondere,
dietro le bandiere del finto unanimismo e del finto europeismo, la natura
corrosiva dello scellerato patto e l’incapacità politica di pensare,
anzitutto, e realizzare, successivamente, un percorso alternativo a quello
della dialettica tra Stato ed Unione, ritenendo che fosse sufficiente
affidare la politica economica al primo e la politica monetaria al secondo,
di lasciare formalmente intatte le particolarità del primo ed allo stesso
paralizzarle in un’armonia dalla natura rimediale tipico della tipicità
atipica che è la struttura e la natura di questo mostro mitologico che è
l’Unione Europea.
Per questo non è condivisibile fino in fondo il ragionamento del
presidente del Consiglio italiano. In quanto, ancòrato ad una visione che
vede nella centralità dello Stato e nella sua funzione l’elemento chiave
del ragionamento politico. C’è l’intuizione del problema, l’intuizione del
dramma, ma non ci si avventura fuori dal seminato, non si esce dalla
mela, in perfetta continuità con le posizioni politiche che sul tema hanno
avuto tutti i governi di centro-sinistra in questi ultimi vent’anni. Gli
stessi discorsi, le stesse preoccupazioni, le stesse evidenze erano agli
occhi delle elitè europee, nei dirigenti della sinistra diversi anni fa. Lo
stesso Romano Prodi, presidente della commissione europea, affrontava
il tema con un lucidità e consapevolezza in quel già citato Consiglio di
Laeken nel 2001, sulla base della relazione allarmante dell’onorevole
Sylvia Kaufmann, esponente di spicco del socialismo tedesco, che già
allora parlava di un possibile “scavalcamento della società civile” a
danno delle istituzioni europee. Tuttavia, il socialismo europeo, seppur
consapevole del dramma, non è si è deciso ad avventurarsi al di fuori
della “via maestra”, di quel metodo comunitario, che ancora vedeva
protagonista, di fatto, un soggetto che non lo poteva essere più, lo Stato,
e nel momento in cui, avanzata la crisi economica, si trovata ad essere
scalzato nel governo dell’Europa dalle destre popolari, ha preferito,
piuttosto che prendere atto di un fallimento, avviando una fase del tutto
diversa rispetto a quella che si era costruita fin a quel momento, di
salvare il salvabile e fare da stampella, anche a costo di mettere a
repentaglio il fine lavoro di lento cesellamento che queste stesse forze,
nell’ultimo decennio, avevano fatto in Europa, cercando di spostarla da
una visione economicista ad una più vicine alle idee di cooperazione e
solidarietà, a quelle stesse destre popolari, le quali, invece, si erano già
da tempo mostrate decise a legittimare l’Unione su altri piani, quelli che
vedevano nella tutela del credito e degli interessi del capitale un più
solido riferimento e sostegno politico, ricco di interessi e più malleabile
alle esigenze di governance globale.
Perché il problema è politico ed economico assieme, in quanto sarebbe
sciocco pensare di giustificare la politica con la politica. E’ infatti un dato
di fatto che le forme in cui si ordina una società sono direttamente
dipendenti da precisi dati fattuali e dato per eccellenza è quello offerto
dall’organizzazione del lavoro. Il mutamento di questo, nel passaggio da
un’economia industriale ad una post industriale, caratterizzata dal
dominio dei processi finanziari rispetto a quelli produttivi, ha prodotto
conseguenze sull’organizzazione sociale e dunque sul piano politico.
E’ evidente, d’altra parte, che l’unica classe internazionalista sia quella
dei capitalisti, plasticamente intesi come possessori di capitale, laddove
l’altra classe, quella storicamente definitiva dei lavoratori, rimangono
invece legati alle vicende del precedente modello economico, basato sul
Welfare State, creando tutto ciò un impressionante distinguo dei piani. E
mentre quest’ultimi, i lavoratori, continuano ad appellarsi ed a far uso
dagli strumenti tradizionali offerti dalla classica struttura dello Stato, i
possessori di capitali hanno una più ampia libertà d’azione, non essendo
più legati né agli strumenti di produzione né alla forza degli organi
governo, ma servendosi, invece, delle maglie offerte dagli strumenti del
governance, intesa come alternativa modalità nella gestione del potere,
capace di ignorare, nella più assoluta indifferenza, i soggetti, il pubblico,
il privato, lo stesso monopolio della forza da parte degli Stati, i quali,
come la Grecia, rimangono più pericolosamente esposti alle convincenti
armi del Mercato, capace, molto più di un esercito e delle armi, di
provocare crisi economiche, mettere in ginocchio istituzioni, sconfiggere
nazioni.
La debolezza dell’Unione Europea, in tutto ciò, è il fatto di essere un
straordinario laboratorio di Governance, penetrabile alla forza di questi
interessi, incapace, come detto prima, ma forse risulterà solo adesso più
comprensibile, di costruire modelli di partecipazione e gestione condivisa
sul piano delle istituzioni politiche e realizzare adeguate e tutelanti
politiche sociali, in grado di legittimare le istituzioni politiche stesse.
Questo incredibile ritardo crea enormi spazi ed in questo spazio ci
entrano tutte le forze politiche che, nate nel senso di grandi
stravolgimenti sociali e nel seno di spazi di protesta, hanno sfidato le
forze politiche tradizionali, mettendo in discussione sul piano politico
una Istituzione politica quale l’Unione Europea.
E’ qui che abbiamo la quadratura del cerchio: non possiamo più ignorare
quanto sta succedendo nel nostro mondo, non posso rimanere bendati, a
non guardare quanto succede.
Bisognerà superare l’angusta visione nazionale e comunitaria al quale
sono relegati i partiti del Socialismo Europeo, incapace di dare una
soluzione alternativa, veramente alternativa, veramente capace di dare
voce al “cambiamento” in atto in Europa.
La strada non può più passare né per le “terze vie”, né per le battaglie
classiche della “socialdemocrazia”, in quanto non è né la ripetizione del
modello incentrato sulla politica di compromesso col modello liberale, né
la riproposizione delle dinamiche di Welfare State, che riusciranno a
permetterci di riuscire a risolvere l’enorme deficit di democraticità e di
tutela delle classi deboli che la zoppicante Governance europea ha
realizzato. Le prime ci ritroveranno schiacciati sul PPE, le seconda ci
condanneranno all’impotenza. Entrambe ci relegheranno negli Stati,
sempre più attori protagonisti di un mondo in veloce evoluzione.
La vera battaglia sarà la battaglia sull’Europa, su un’Unione basata sulla
democrazia, sul lavoro, sul governo e sulla solidarietà sociale. E se
l’unica strada perseguibile sarà quella della tutela del credito e dei
capitali, quella dei Partiti popolari europei, allora lo sfogo popolare
troverà altre strade. Torneranno i nazionalisti, torneranno i populismi,
torneranno i conflitti. Prevarranno altri interessi, altre logiche.
E non ci sarà più nessuna Unione Europea, almeno come l’avevamo
immaginata e conosciuta finora.

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