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di Goffredo Bettini – 12 febbraio 2017
Nel Pd sembra di vivere un finale di partita. Renzi è stata una grande occasione per arginare il populismo e innovare la repubblica. È persino stucchevole motivare: il trionfo alle primarie; il 40% alle europee; la speranza da lui accesa in tutta la classe dirigente democratica europea e americana.
La minoranza interna fin dall’inizio lo ha considerato un estraneo, contrastandolo con ogni mezzo. Tradendo, cosi, l’ispirazione dei comunisti italiani mai settaria.
La reazione del segretario è stata di sottovalutazione di tale contrasto e di sopravvalutazione della forza del suo consenso. Si è chiuso in una cerchia di fedelissimi; ha varato un governo non tutto in grado di reggere compiti di alta responsabilità; ha formato una segreteria nel complesso incapace di dirigere il partito, lasciato a se stesso.
Così mentre Renzi proclamava l’innovazione, nei territori il suo gruppo dirigente, in particolare l’organizzazione, riciclava alleanze con i trasformisti dell’ultima ora, ordiva strategie confuse e alla fine fallimentari, in molti casi con uno stile andreottiano, persino rivendicato.
Così, il miglior talento politico emerso negli ultimi decenni si è andato via via ad impigliare, privo della lucidità necessaria in grado persino di assumere almeno alcuni contenuti giusti posti dalla minoranza. Il referendum e il modo di affrontarlo è stato l’ultimo decisivo passo lungo questa deriva. Oggi siamo nella confusione più totale. Non so cosa succederà nella direzione convocata per domani.
Si grida al pericolo di Grillo. Ritengo Grillo insopportabile, a partire dal suo eloquio. Ma attenzione! Per certi aspetti lo dovremmo persino ringraziare. In una fase di crisi spaventosa, in realtà, ha congelato i peggiori istinti populisti e anti democratici (anche se il movimento 5 stelle non è fatto solo di questa pasta) in un contenitore tutto sommato innocuo, non eversivo; in alcuni casi governato con una sapienza da prima repubblica, a dispetto di ogni coerenza sui contenuti e sulla linea politica.
Grillo, ci ha dato un tempo nel quale potevamo riorganizzarci; rimandando qui da noi l’ondata di destra che ha investito l’Europa e l’occidente.
Grillo è un fenomeno transitorio; una, due, mille Raggi ne decreteranno la decadenza politica e la diminuzione dei consensi. Tuttavia, la pausa che ci ha concesso potrebbe finire rapidamente. Noi non l’abbiamo saputa utilizzare: tra divisioni, ideologismi, sete di potere, pratiche in alcuni casi disgustose per i cittadini.
Trump può essere la scintilla che incendia anche l’Italia con una destra illiberale, xenofoba, aggressiva, che rimane il nostro vero avversario.
Che fare? Cercare di recuperare. Intanto evitando due opzioni sbagliate presenti in mezzo a noi.
Un ritorno indietro: la scissione per fare un partito di sinistra “old style”, per la felicità di qualcuno che vuole mantenere un qualche potere, ma del tutto inutile per l’Italia.
Oppure, l’accelerazione nella costruzione di un partito personale, del capo, che ambisca da solo al 40%. Con la tradizione della sinistra italiana spenta in un mero supporto ad un progetto politico confuso e imprevedibile.
Tra queste due opzioni c’è un campo enorme da organizzare. Questo dobbiamo fare: organizzare questo campo. Campo è una parola che uso da più di 10 anni. Oggi è tornata prepotentemente con la proposta di Pisapia. D’Alema stesso ha parlato di un campo di associazioni, di società civile, di energie della cultura, in particolare giovanile, da valorizzare e includere.
Bene. Se fossi in Renzi, in preparazione del congresso e delle elezioni, mi intesterei questo compito, o tentativo: unire in forme nuove questo campo che potenzialmente può arrivare al 40%. Ma per unirlo è indispensabile rifondare la forma dei partiti.
Perché qui casca l’asino. Se si intende unire il campo sommando l’attuale PD, a vecchie o nuove aggregazioni tradizionali, in un gioco tra gruppi dirigenti, si ritornerà alle sconfitte del passato; alle alleanze spurie, litigiose, inconcludenti. E non basterà un premio di coalizione a cambiare le cose; semmai esso potrà amplificare ricatti e trasformismi. Solo la destra ne trarrebbe un vantaggio.
Il campo impone una nuova concezione dei partiti e della rappresentanza politica.
Il campo è una rete di luoghi dove gli iscritti e i cittadini si incontrano, discutono, prendono l’iniziativa, ma soprattutto decidono. Il campo è una cessione di sovranità dall’alto verso il basso. Il campo si confronta con la vita vera delle persone, nella sua rudezza, incompletezza, forse rozzezza. Il campo è una continua, trasparente, fertile tensione tra un leader, un gruppo dirigente eletti democraticamente e i militanti.
Esso va regolamentato e va garantita la decisione, anche rapida. Ma il campo non subisce l’iniziativa, la fa lievitare, la rende propria, la vive nella realtà, arricchendola. Il campo definisce indirizzi, contenuti e ideali: la libertà delle persone, la lotta alle ingiustizie, la cura degli ultimi, la spinta ad una crescita di qualità, l’occupazione e l’innalzamento culturale. Dentro tali indirizzi costruisce l’azione reale, elabora i programmi che non possono cadere dall’alto con illuministica e fallace presunzione.
Il campo non accetta correnti di potere, cordate manovriere, personalismi impropri, brame di incarichi immeritati. Il campo verifica qualità e capacità dei propri dirigenti, fa vivere aree di pensiero e di ricerca. L’anima del campo sono le persone, nell’esercizio delle proprie personali responsabilità, di fronte alla sinistra e alla Repubblica. Il campo è unitario di tutta la sinistra, dei progressisti e dei democratici che vogliono trasformare il paese e ambire a governarlo. Il campo non può includere il moderatismo centrista. Semmai può stipulare alleanze dopo le elezioni qualora vi sia una situazione di ingovernabilità. Ecco: se fossi Renzi, ricandidandomi, sfiderei tutti, in positivo, su questa proposta, giocandomi le mie carte in questa prospettiva di vera rifondazione della rappresentanza. Perché se non si parte da li anche le migliori proposte programmatiche non avranno orecchie disposte ad ascoltarle. Tanta è diventata la distanza tra la politica, le istituzioni, il potere democratico e i cittadini.