Fonte: L'Espresso
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MORIRE PER UN IPHONE – di PUN NGAI, JENNY CHAN e MARK SELDEN – ed. JACA BOOK
recensione di Alessandro Gilioli
Prendete il peggio delle dittature: la disciplina ferrea, il controllo sulle persone, il culto della personalità del capo. Aggiungetevi il peggio del capitalismo: la divinizzazione della produttività, le pressioni violente per aumentarla, l’alienazione delle persone sul suo altare.
Quello che ne esce è il colosso mondiale da cui provengono i tablet e gli smartphone che teniamo tra le mani: la Foxconn, il maggiore produttore di elettronica nel mondo. Sicuramente non la peggiore, tra le realtà produttive dei Paesi in via di sviluppo, ma probabilmente la più famosa e metaforica, come emerge dal documentatissimo e impressionante libro “Morire per un iPhone”, di Pun Ngai, Jenny Chan e Mark Selden, editore Jakabook, 272 pagine, 15 euro, in libreria dal 30 aprile.
Sappiamo qualcosa della Foxconn e non da oggi, dopo i suicidi che sono avvenuti negli anni scorsi nei suoi dormitori, ma poco sappiamo di altro, nonostante tutto. Ad esempio, non conoscevamo i “precetti di Gou” , la raccolta della filosofia del lavoro di Terry Gou, il presidente della Foxconn, che emula il Libretto rosso del presidente Mao: «All’interno della “Città proibita”, come i lavoratori chiamano il quartier generale dell’impresa, un florilegio di questi precetti adorna i muri delle fabbriche, e quando un lavoratore sbaglia o ritarda, è costretto a ricopiare centinaia di volte uno o più di questi comandamenti, dopo l’orario di lavoro; oppure deve ripeterli in pubblico, ad alta voce in modo che lo senta tutto il reparto, sotto gli occhi vigili del capocatena».
Ma non è questo l’unico residuo del passato a costituire la modernità di Foxconn: quando comincia il turno, ad esempio, i capi urlano a gran voce: “Come state?” e gli operai devono rispondere urlando all’unisono: “Bene! Molto, molto bene!”. Un esercizio che addestra i lavoratori alla disciplina, dicono i capi dell’azienda.
“Non si parla, non si ride, non si dorme” è la regola numero uno della fabbrica. Qualsiasi comportamento che violi la disciplina di produzione è punito. Una pausa eccessiva per andare in bagno comporta l’ammonizione orale, parlottare durante l’orario di lavoro comporta l’ammonizione scritta. Poi ci sono gli incitamenti verbali, con il capocatena che urla: «Se un operaio perde anche soltanto un minuto, allora quanto tempo sprecheranno cento persone?» Anche i manifesti sui muri dei reparti proclamano: «Ogni minuto, ogni secondo tieni in gran conto l’efficienza. Raggiungi gli obiettivi o il sole non sorgerà più».
Nella sola Cina la Foxconn ha 30 fabbriche, che vanno dalla dimensione minima di 80 mila a quella massima di oltre 400 mila occupati. Questo libro è frutto di un’accurata e approfondita ricerca universitaria con decine di interviste a lavoratori ed ex lavoratori dell’azienda, dialoghi supportati da fotografie, documenti, cedolini e altri. Non è insomma un bla bla ideologico, è una raccolta di dati di realtà.
Non si tratta tuttavia neanche solo di un elenco di vessazioni e soprusi. I tre autori sono studiosi che sulla base di questi dati alzano il velo su tutto il modello del neocapitalismo asiatico, sui suoi valori subculturali e disciplinari, così come sui suoi rapporti con le esigenze di profitto degli over the top occidentali: lo sapevate, ad esempio, che ogni 100 euro che spendiamo per un device di Apple solo 1,8 euro va nello stipendio di chi l’ha prodotto?.
Già, chi l’ha prodotto. Una gigantesca manodopera di provenienza rurale, il 60 per cento della quale vive nei dormitori dell’azienda, con le finestre sbarrate per evitare suicidi.
Ma è interessante, guardando al futuro, anche uno dei compiti che il capo assoluto Gou ha assegnato ai funzionari di più alto grado della sua azienda: quello di vedere il film “Real Steel”, del 2011, dove i pugili umani sono stati sostituiti dai robot, che combattono tra loro. «Gou vuole creare un luogo di lavoro dove uomini duri come l’acciaio eseguono comandi con l’esattezza e la precisione dei robot», spiega nel libro uno dei dirigenti.
Non è insomma solo una questione di iPhone. E, se vogliamo, nemmeno solo di sfruttamento, di vessazioni. È proprio un modello di capitalismo che unisce la modernità tecnologica e iperproduttivista con l’autoritarismo, in assenza di qualsiasi sindacato, di qualsiasi corpo intermedio, di qualsiasi “lacciolo”. E, di sfondo, un ricatto che conosciamo: “meglio di niente”, “non c’è alternativa”, “è il mercato, bellezza”.