Non si uccidono così anche i partiti?

per Alessandro Rossi

di Alfredo Morganti

Il ‘Partito Democratico’ si definisce in un modo molto impegnativo per la miseria di questi tempi: “partito” appunto. Capisco che quella fosse l’avvincente (anche per me) sfida d’alemiana, bersaniana e, in ultimo, cuperliana. Una sfida, appunto, una frontiera avanzata da conquistare, un faticoso lavorare per mantenere (o ricostruire) un tessuto connettivo che prevedesse organizzazione, collettività, territorialità, solidarietà e adesione a un sentimento comune, oltre che a un programma o, prima ancora, ad alcuni valori-temi di riferimento, a un patrimonio reciproco di ideali. Sfida perduta per sempre? O percorso che ha subito una semplice impasse? Mah. Fatto sta che oggi, anche taluni che avevano scommesso su quella frontiera avanzata, ritengono che essa ormai sia fuori dalla realtà dei fatti, che oggi un partito non c’è e se c’è è una cosa diversa, un pulviscolo di poteri sparsi e di svariati modelli organizzativi arrabattati ma interagenti, un gruppo di militanti diffuso più che strutturato, che molto spesso rispondono a cordate, gruppi ristretti, conventicole, piuttosto che al partito presso nella sua maestosità. Per taluni, anzi, questa conformazione a galassia, questo esserci e non esserci, questo pulviscolo sarebbe persino una risorsa: marciare in ordine sparso (sparsissimo) per colpire uniti. Anche se non si capisce chi dovrebbe colpire chi. Visto che molto spesso si spara nel mucchio, o alla cieca, o trattasi di fuoco amico (amico?).

Detto ciò, un renziano (Nardella?) tempo fa disse: ma sì, leviamolo ‘sto termine ‘partito’ e chiamiamoci solo ‘democratici’. Aggiungendo che sarebbe più rispondente alla realtà dei fatti (e pure un tantino più ammiccante all’antipolitica e alla carica degli antipartito, diciamo). A quelle dichiarazioni ebbi un moto di disgusto. Ma come, si faccia i cavoli suoi e ci lasci lavorare alla costruzione del partito (‘costruzione del partito’ sapeva tanto di vecchia fase comunista, che quasi inorgogliva). Oggi, nel po’ po’ di marasma renziano, mi chiedo anch’io se la battuta di Nardella non fosse ben più vicina alla realtà della mia risentita reazione. Mi chiedo anch’io se quell’idea nobile di partito non fosse superata dai fatti, non fosse smentita dai comportamenti di taluni, non fosse più una splendida aspirazione che un obiettivo conseguibile, non registrasse un’etica (o un’estetica) piuttosto che una pratica reale. Ciò non vuol dire che io ritenga la cancellazione del termine ‘partito’ un bene, alla maniera di Nardella. Per niente affatto. Io penso che la politica la fanno anche (e soprattutto) i partiti (non il marasma renziano, ovviamente, ma delle organizzazioni democratiche, trasparenti, solidali, non personalistiche, unite nei principi e nelle grandi opzioni programmatiche). Pur tuttavia, non posso non constatare che l’ipotesi vincente non è la mia, che oggi si va verso (si è dentro) uno scioglimento organizzativo dei partiti e una coagulazione di forze mobili (al limite del voltagabbanismo) attorno a personalità carismatiche, mediatiche, avventurieri politici, outsider, con finalità soprattutto elettorali, e dunque di comando politico senza altre mediazioni. Lo dico col pianto nel cuore, ma è così. Ovviamente tornerà il tempo della (Grande) Politica, ma non so quando né come ciò avverrà. Spero non a causa del fallimento degli avventurieri di cui sopra e del conseguente disastro lasciato in eredità ai soliti comunisti (ex, post, mai-stati, non-più o ancora tali) di turno.

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