di Fausto Anderlini – 18 novembre 2018
Nemesis
Occupiamoci del Pd. Del resto noi di Mdp ne siamo la coscienza critica finita in contumacia e condannata ad accompagnarne l’evoluzione a distanza. Il controcanto. Il ‘Pd dell’esterno’, grumo testimoniale di come avrebbe dovuto essere e, insieme, di come non sarebbe dovuto nascere. Spazio angusto e spinoso, ma obbligato dalla biografia e dalle circostanze. Fra la fatua effervescenza dei Melenchon de noantri e il residuo depressivo del fu centro-sinistra con tutte le sue cariatidi. Nessuno in grado, per adesso, di fare da recipiente all’inevitabile implosione dell’elettorato grillino. Per quanto tutti si sia diventati, in certo senso, grilli parlanti.
Dove va dunque il Pd ? In che cosa sta trasformandosi ?
Contrariamente a quel che si crede o si auspica il Pd non collasserà. Ma neppure si rigenererà. Semplicemente persisterà. Arrancherà nel proprio limbo indefinito: un po’ centro un po’ sinistra. Programmaticamente sfumato. Come tipico dei partiti cetuali di governo che si trovano costretti all’opposizione. Non ci sarà alcuna autocritica che del resto in un partito depauperato di capacità autoriflessive non ha alcun senso (gli stessi moniti cuperliani rischiano di risultare parole trite, tanto che nessuno si è azzardato a immaginare che potesse incarnare un Corbyn).
Perchè l’imperativo primario di ogni organizzazione in difficoltà, specie se gravi, cioè tali da escludere il rischio di una catarsi, è durare. In attesa di una risorgenza a venire. E il primo problema auto-conservativo del Pd è la ‘derenzizzazione’, cioè la neutralizzazione soft del pazzo di Rignano. Minimizzando il danno. Dove l’aspetto saliente della questione non è di linea politica e/o di orientamento ideologico, ma di assetto formale, e conseguentemente anche antropologico. Cioè il ‘modo d’essere’. Di questa operazione il Minniti, Nosteferatu, è un’emblema ancor più rilevante di Zingaretti, la Saponetta. Nosferatu non è un kaghemusha (per quanto una certa credenza che lo sia gli fa gioco). La sua stessa biografia, considerata in parallelo alla sua struttura psichica, ne fa una sorta di D’Alema pietrificato. Freddo e calcolatore, senza il fuoco passionale che arde (all’insaputa dei malevoli) nel cuore del maestro. Uomo perfetto nella manovra capace di gestire con calma luciferina gli effetti perversi. Il migliore traghettatore per il riciclaggio di un ceto di disperati politici approdati al seguito renziano dopo avere tradito tutto quanto c’era da tradire e anche di più. Soprattutto il personale di provenienza post-comunista. I già ex dalemiani, ex veltroniani, ex bersaniani, ex cuperliani, ex fassiniani (coincidenti col Fassino medesimo) ed ex miglioristi. Ma anche i renziani che in gran numero ormai dubitano in interiore homine del loro capo e che vedono un Pd tornato ‘garantista’ una dimora plausibile per il loro destino personale rispetto all’azzardo di un neo-partito renziano macroniano di centro per il quale non c’è più spazio di quanto ne abbia a disposizione De Magistris a sinistra per fare il Melenchon.
Martina e altri carneadi a parte, l’assetto che assumerà il Pd sarà quello di una diarchia accomodante basata sul ‘dualismo convergente’ di Saponetta il romano e il Nosferatu calabro, quale che sia il vincente. Con le correnti al seguito pronte a spostarsi sull’uno o sull’altro. Tutti ancorati allo stesso tavolo da gioco. Se si vuole l’equilibrio duale fra premiership e leadership che si ripristina, e proprio quando l’eventualità di mettere in campo un premier è rinviata sine die. Ma per certi aspetti anche una replica in tono minimo (e grottesco) del dualismo fra Veltroni e D’Alema che caratterizzò il Pds. Con Minniti che recita la parte del duro e Zingaretti quella dell’accomodante. In effetti il Pd sarà infine davvero la sintesi delle cd. culture riformatrici, quantomeno delle loro espressioni politico-organizzative. Un po’ il Pds dei ’90, un po’ il Psi demartiniano ante Craxi, un po’ la Dc mignon della Margherita. La ‘parte peggiore’ delle culture riformiste storiche. Tutte consegnate, non per caso, su ordini di grandezza elettorali modalizzati sul 15 % circa. Un partito medio di correnti stabilizzato su quel 15-18 % ormai consolidato dai sondaggi, per lo sconforto di chi istericamente inveisce contro di esse invocando comunità d’acciaio lisce come l’olio. Non capendo che le correnti se sclerotizzano un partito servono anche a tenerlo in piedi quando ne è minacciata l’esistenza, come già avvenne nel Pds messo a repentaglio dalle intemerate leaderistiche di Occhetto.
Et pluribus unum, per quanto scalcagnato e meramente inerziale. Questa eteroclita combinazione è del resto l’esito necessario del fallimento del renzismo, espressione radicale estrema del cd. partito maggioritario. Cioè di un partito uniformizzato sino all’idiotismo sotto il carisma di un capo. Plebiscitario, direttista, ordalico, personalizzato. E se taluni considerano questa evoluzione una insopportabile mediocrità, al punto di poter fare del renzismo una nostalgia, la vera lettura è un’altra. Essa corrisponde invero alla nemesi necessaria del renzismo. Il pluralismo sporco, la bassa oligarchia che ripristina l’equilibrio violato dall’ubriacatura per un pazzo monocrate.