Fonte: politicaPrima
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15 novembre 2015
Non dobbiamo avere paura. Non possiamo avere paura. Parigi colpita gravemente, Parigi come Roma, come qualsiasi altra città d’Europa. Parigi siamo tutti noi. Come lo siamo stati per Charlie Hebdo.
E come dovremmo essere sempre quando la furia umana raggiunge limiti impensabili.
C’è una guerra non dichiarata. Senza confini, senza trincee, anonima, senza scampo. Era cambiato il mondo, l’11 settembre 2011, con la tragedia delle torri gemelle a New York. E appena dieci mesi fa, il 7 gennaio 2015, l’altra strage, quella della redazione del giornale satirico e del supermercato di Parigi costata la vita a 20 esseri umani.
La reazione popolare fu enorme, l’11 gennaio Parigi invasa pacificamente da una folla immensa insieme a cinquanta capi di stato, ministri, sindaci e rappresentanti di ogni religione.
Bandiere di ogni colore, cartelli e scritte estemporanee per difendere la libertà, la civiltà, i valori imprescindibili della convivenza umana. Sembrava l’inizio di una nuova era, di una nuova politica per combattere il terrorismo di qualsiasi natura e per riaffermare i principi della libertà e della democrazia.
E, invece, rieccoci a contare le vittime, a soffrire insieme ai nostri fratelli francesi, a ricordare le altre stragi come quella dello scorso 18 marzo in Tunisia. Allora i morti al Museo del Bardo di Tunisi furono 23, di cui quattro italiani.
E adesso ancora Parigi. Un concerto al teatro Bataclan, musica, giovani, divertimento. E poi spari a raffica, esplosioni, sangue dappertutto, morti, tanti morti. Terrore infinito. A due passi dallo stadio strapieno mentre si gioca l’amichevole Francia-Germania. E sentire i francesi che cantano la Marsigliese mentre escono dallo stadio fa una certa impressione.
Venerdì 13 novembre 2015. Una data, anche questa, che resterà nella storia. 129 vittime, in gran parte giovani, e centinaia di feriti molto gravi. Una carneficina. Una strage assurda, immonda, schifosa. Una incredibile inumana volontà di fare male, tanto ma tanto male. Una specie di gara a chi uccide di più e nel modo più violento. Un’organizzazione precisa, infiltrata nella società europea, ragazzi cresciuti tra noi, vittime di menti perverse e mandanti oscuri(?). L’Isis.
Ma cui prodest? Qual è il fine di queste azioni ignobili, quale può essere la forza da spingere uomini poco più che ragazzi a uccidere, a farsi esplodere per uccidere di più insieme a se stessi. Quale Dio può volere questo e quale può essere lo scopo vero dietro queste atrocità. E il cosiddetto stato islamico ha un qualche beneficio da tutto questo? È pensabile che spargendo sangue e terrore possa ottenere un qualche vantaggio? O, invece, c’è dell’altro. Qualcosa che personalmente non so spiegare, non ho i mezzi per farlo.
Le reazioni a caldo, a volte scomposte, non servono e possono creare esse stesse altri problemi. È forse quello che vogliono, che qualcuno vuole. Per scatenare qualcosa di più grande di più pericoloso. Il problema è l’Islam? Due miliardi di musulmani in ogni parte del pianeta e dell’Europa? No non può esserlo. Sarebbe una follia, una guerra planetaria in nome di un unico Dio, una stupida e inutile generalizzazione. C’è bisogno, è vero, di una forte riflessione interna all’Islam stesso per fare emergere le ragioni perché accadono queste tragedie e avviare un ‘necessario’ e vero cambiamento culturale.
Ma tocca sempre a noi, al nostro mondo, alla civiltà laica e libera fare arrivare messaggi di pace di convivenza, di solidarietà, e di tolleranza.
E se c’è un problema che si chiama Isis, se tutto il male è concentrato in quel gruppo di esaltati, se i pericoli per la libertà e la democrazia del mondo sono i rappresentati dal Califfato, credo che la comunità mondiale ne debba prendere atto. A cominciare dalle multinazionali del petrolio, dai fabbricanti d’armi di quei paesi del civile occidente che lucrano vergognosamente sulle tragedie del mondo.