Pessimo clima per il dissenso
La vicenda degli attivisti che hanno imbrattato una facciata del Senato rivela, fondamentalmente, due elementi. Il primo è che sempre di più, nelle nostre società liberali, si va restringendo lo spazio del dissenso e del dibattito. Tutto, perfino la protesta, viene fagocitato dal sistema e inquadrato in una cornice di melassa che diventa sempre più difficile mettere in discussione. Questo relega il dissenso alla marginalità, lo schiaccia all’angolo e lo costringe ad azioni via via maggiormente sopra le righe.
Il secondo elemento, più attinente alla questione del cambiamento climatico, riguarda un non detto che aleggia sopra il (mancato) dibattito pubblico. Da più parti si tende a far passare l’idea che, tutto sommato, ce la possiamo cavare senza rinunciare a troppo. Si cerca di convincere le persone che sia sufficiente comprare la macchina elettrica per mettere a posto le cose. Che basti riutilizzare due o tre volte il sacchetto della spesa per liberare gli oceani dalla plastica. Ebbene, la verità è un’altra: ormai abbiamo raggiunto un punto di non ritorno. Per sperare solo di rallentare i processi inquinanti e poter avere più tempo a disposizione affinché la ricerca scientifica ci tiri fuori dai guai, dobbiamo farci entrare nella zucca che è indispensabile rinunciare a nostre quote di ciò che chiamiamo benessere.
Di recente, in tv, ho ascoltato un dibattito in cui si difendeva il monouso “perché altrimenti dovremmo dire addio al delivery”. Il delivery! Stiamo letteralmente saltando per aria e ci preoccupiamo del delivery! E qui entra in gioco un altro immancabile protagonista della querelle: il ricatto sociale e occupazionale. Quella filiera non si tocca perché garantisce migliaia di posti di lavoro; gli allevamenti intensivi valgono il tot per cento del PIL. Insomma, fondamentalmente mi pare non ci sia alcuna seria volontà di intraprendere azioni veramente efficaci: c’è sempre un impedimento, ad ogni proposta di radicale cambiamento si contrappone una visione volutamente di corto respiro che, di fatto, perpetua le logiche di sistema che ci hanno condotto al disastro.
Un’altra barzelletta che si racconta sempre più spesso è quella che sostiene che, in realtà, l’Europa, la nostra vecchia, cara, buona Europa per la quale vorremmo un futuro più certo, abbia già fatto molto in termini di riduzione di emissioni inquinanti e che, quindi, toccherebbe semmai agli altri regolarsi di conseguenza. Tocca a quelli sporchi e cattivi ripulirsi, non certo a noi che indossiamo abitualmente camicie fresche di bucato! Ci sfugge però un piccolo dettaglio: gran parte delle produzioni inquinanti dei cattivi cinesi, degli sporchi indiani, di tutte quelle insensibili moltitudini che non si curano a sufficienza dei destini del pianeta, sono commissionate da noi. In pratica, quelli sporchi e cattivi producono, inquinando allegramente, molte cose che noi, altrettanto allegramente, consumiamo come se non ci fosse un domani. E mai, temo, espressione fu più calzante.