Come sono prodotti i nostri vestiti

per Gabriella
Autore originale del testo: Luca Cellini
Fonte: pressenza.com
Url fonte: http://www.pressenza.com/it/2016/11/come-sono-prodotti-i-nostri-vestiti/

di Luca Cellini 4 novembre 2016

Il più giovane di loro ha 15 anni, e lavora più di dodici ore al giorno per guadagnare ancora meno degli altri. Tutto il giorno stira vestiti, prima che questi vengano spediti nel Regno Unito, per poi essere distribuiti nelle grandi catene di distribuzione commerciale.
Comincia così il servizio d’inchiesta di Darragh MacIntyre, reporter della BBC che rende pubblico, come vengano sfruttati i rifugiati di guerra siriani insieme ai loro bambini. Costretti a lavorare duramente in cambio di pochissimi spiccioli, per alcuni dei migliori marchi di moda del Regno Unito, senza rispetto alcuno per i loro diritti.
E’ questa l’ultima frontiera del business Made in Occidente, sfruttare donne e bambini, rifugiati di guerra, in fabbriche che producono vestiti per marche famose, come ad esempio, Mango, Zara, Marks and Spencer, Asos ecc..
È questa la dura realtà di centinaia di siriani, prima costretti ad abbandonare il loro paese per scappare dalla disperazione e dalla guerra, e che adesso risiedono in Turchia in condizioni precarie e di assoluto sfruttamento.
Così, se un giorno ci si trovasse bene ad indossare un capo di uno dei tanti marchi al mondo che fanno soldi sfruttando la disperazione della gente, ad esempio coi rifugiati siriani o coi bambini in Bangladesh, magari si possa fermarsi, pensare solo per un attimo al costo smisurato in termini di sofferenza umana, pagata sempre da altri, per far arrivare questo articolo sul nostro mercato.
Ovviamente, tutte le marche accusate nel servizio, negano ogni forma di responsabilità, si sbracciano a spiegare che loro avrebbero monitorato accuratamente le loro catene di produzione ed i loro fornitori, eppure, su quei prodotti pagati a suon lacrime, sudore e sangue, campeggia bello chiaro il loro logo.
Si nega, anche di fonte all’evidenza, pure quando la fonte giornalistica citata che ha investigato, mostra chiaramente le immagini rubate dalle telecamere nascoste, riporta conversazioni e testimonianze di decine di lavoratori siriani, che tutt’ora vengono usati illegalmente in fabbriche tessili, compresi minorenni, che vengono pagati meno di un dollaro l’ora, attraverso un intermediario clandestino, ripreso anch’egli per strada, mentre mercanteggia per il lavoro di queste persone.
Uno di loro, con coraggio racconta persino dei maltrattamenti subiti, arrivando a dire che “se succede qualcosa ad un siriano, magari si fa male lavorando, lo buttano via, come uno scarto di un tessuto.”
Eppure è da tempo che molte organizzazioni di attivisti che si battono per i diritti umani, continuano a denunciare quotidianamente che questo tipo sfruttamento lavorativo, è in costante aumento, specie dopo l’arrivo di milioni di rifugiati siriani, e di altri paesi in guerra, una sorta di atroce e cinico plusvalore aggiunto, che si nasconde opportunisticamente dietro le più famose marche di moda, intanto i governi che finanziano le guerre, continuano a chiudere entrambi, gli occhi da tutte le parti, permettendo questo, e ben altro.
Molti vestiti che noi compriamo, oggi vengono realizzati in Turchia, perché è vicina all’Europa, e perché oltretutto la Turchia è abituata a trattare con gli ordini dell’ultimo minuto. Questo consente ai rivenditori di non tenere di fatto il magazzino, consentendo loro sempre più guadagni, in nuovi e scintillanti negozi del centro città oppure in outlet che sorgono rapidamente in limitrofe aree periferiche urbane.
L’inchiesta giornalistica mostra anche, come i minori siriani rifugiati, siano stati impiegati nella produzione di jeans per marchi come Mango e Zara, fa vedere ragazzini che senza nemmeno una maschera, spruzzano pericolose sostanze chimiche, tossiche e nocive, per sbiancare i jeans.
Il marchio inglese M & S dopo l’inchiesta ha dichiarato: “Tutti i nostri fornitori sono contrattualmente tenuti a rispettare i nostri standards e i nostri principi etici generali”, che a loro dire comprendono anche un trattamento “etico e rispettoso” dei lavoratori, aggiungendo a voce alta. “Non tolleriamo tali violazioni di questi principi, e faremo tutto il possibile per assicurare che questo non accada di nuovo.”
Peccato sia difficile credergli, specie perché sorge una domanda, senza questa inchiesta giornalistica, quanto sarebbero andati ancora avanti permettendo la produzione dei loro capi a quelle condizioni di sfruttamento?
L’inchiesta di denuncia giornalistica della BBC è stata condotta in un’area d’Istanbul dove insistono molte lavanderie industriali, una zona fortemente inquinata della città dove sono state trovate queste fabbriche tessili che si avvalgono appunto, dello sfruttamento lavorativo di molti rifugiati di guerra dalla Siria.
Sempre in una di queste fabbriche tessili di Istanbul, dove vengono prodotti i capi d’abbigliamento per queste grandi marche, insieme ai rifugiati siriani, sono stati trovati sul posto di lavoro persino bambini turchi di età inferiore ai 10 anni.
Questo purtroppo è un racconto incompleto, è solo un piccolo pezzetto della storia, quella che corre per il mondo e unisce in tanti puntini , sfruttamento selvaggio, disperazione, imbarbarimento e impoverimento con guerre e distruzione che come effetto collaterale producono appunto tutto questo.
Guerre, incoraggiate dalle potenze occidentali, che hanno finora spalleggiato gruppi estremisti che vogliono abbattere il governo della Siria, distruggendo il paese, pur di cambiare i rapporti di forza nella regione a favore di interessi privati, illegali e illegittimi di pochi.
Tutto permesso in nome della “legge di mercato”, e ormai proprio più niente in favore dei diritti della gente.

Come sono prodotti i nostri vestiti

sullo stesso argomento ha scritto anche Il Fatto Quotidiano:

Turchia, bimbi siriani rifugiati al lavoro per le griffe della moda: H&M e Next

di | 1 febbraio 2016
E’ quanto rivela un report di Business and Human Rights Resource Centre (Bhrrc), un’organizzazione non profit che ha chiesto a 28 grandi aziende di svolgere dei controlli approfonditi sul personale impiegato. Ecco quali sono i marchi coinvolti e le loro posizioni a riguardo.

Le fabbriche turche di alcuni grandi marchi della moda internazionale sfruttano i bambini e i rifugiati siriani. A dirlo è un report di Business and Human Rights Resource Centre (Bhrrc), un’organizzazione non profit che ha chiesto a 28 grandi aziende di svolgere dei controlli approfonditi sul personale impiegato nei loro stabilimenti in Turchia. A rivelare la presenza di minori sfruttati sono stati i due grandi marchi Next e H&M. Primark e C&A hanno detto di avere identificato tra i lavoratori dei loro fornitori rifugiati siriani adulti. Altre case, come Adidas, Burberry, Nike e Puma, hanno detto di non aver trovato rifugiati siriani senza documenti nelle aziende da cui si riforniscono. Anche per questo, le Ong temono che il fenomeno sia ancora più diffuso, nonostante sia in discussione un accordo tra Unione Europea e Turchia per oltre 3 miliardi di euro di aiuti in cambio, tra le altre cose, di permessi di lavoro per gli immigrati siriani che, così, alleggerirebbero i flussi diretti verso il Vecchio Continente.

Il timore del Bhrrc è che il problema sia più esteso di quello emerso fino ad oggi. La Turchia è uno dei Paesi dove è forte la presenza di fabbriche che lavorano per i grandi marchi internazionali nel campo dell’abbigliamento. Sono 28 i brand alle quali l’organizzazione ha richiesto un’indagine approfondita sui propri stabilimenti e quelli dei propri fornitori. La risposta di soltanto due tra queste e l’elevato numero di profughi siriani presenti nel Paese, circa 2,5 milioni, fa pensare a Bhrrc che il fenomeno possa essere più vasto e diffuso. Next e H&M, dopo aver svolto i propri controlli, hanno comunque fatto sapere che si adopereranno per garantire a questi bambini un’educazione e supporto alle loro famiglie.

Tra le aziende coinvolte, sostiene il Guardian in una sua inchiesta, ci sarebbe anche il brand italiano Piazza Italia che, secondo quanto il quotidiano inglese, è stato contattato dal giornalista ma non ha voluto rilasciare commenti.

In Turchia questa situazione ha raggiunto numeri preoccupanti, si legge nel report, nonostante alcuni brand abbiano svolto dei controlli per assicurarsi che i rifugiati non siano “in fuga dal conflitto e sottoposti a condizioni lavorative di sfruttamento”. Secondo l’organizzazione sarebbero centinaia di migliaia i rifugiati siriani che lavorano con stipendi inferiori al salario minimo consentito, soprattutto in fattorie e aziende agricole nelle aree più remote del Paese. Esperti del Centre for Middle Eastern Strategic Studies (ORSAM) parlano di almeno 250 mila rifugiati siriani che stanno lavorando illegalmente in Turchia.

Bhrrc si dice preoccupata soprattutto perché “solo poche di queste aziende sembrano tenere in considerazione e monitorare problemi di questo tipo nelle fabbriche dei loro fornitori in Turchia”, tanto che spesso le ispezioni vengono preannunciate, permettendo ai responsabili di coprire le irregolarità: “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.

Non è la prima volta che le vicende legate alla guerra civile siriana e le fabbriche di abiti turche si intrecciano. Secondo alcuni report, lo Stato Islamico controllerebbe circa il 75% dei campi di cotone siriani, con il prodotto finale che, come succedeva prima dello scoppio de conflitto, nel 2011, viene esportato in gran parte in Turchia, dove poi viene utilizzato per la produzione di abiti destinati ai negozi occidentali. Una situazione che permetterebbe agli uomini di Abu Bakr Al Baghdadi di arricchirsi grazie a un mercato che ha come cliente finale i cittadini europei e americani.

 

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