Ricordo di Stefano Bonilli “è stato un vero piacere”

per Gabriella
Autore originale del testo: Luca Fazio
Fonte: il Manifesto
Url fonte: http://ilmanifesto.info/carlo-petrini-con-stefano-ho-condiviso-anni-di-vero-piacere/

Intervista a Carlo Petrini di  Luca Fazio, 4 agosto 2014

Il padre fondatore del movimento Slow Food ricorda l’ex giornalista del manifesto, inventore dell’inserto il Gambero rosso, morto l’altra notte per un malore improvviso. “Con lui ho vissuto una straordinaria avventura che ruotava attorno a uno speciale sentire comune per la gastronomia intesa come riflessione sulla società, sull’economia e sull’agricoltura italiana… Con quella rivoluzionaria pubblicazione, nel 1986, il quotidiano ebbe il coraggio di sperimentare un prodotto nuovo che non apparteva al suo Dna, fu un’impresa straordinaria”.

A 67 anni ci ha lasciato Ste­fano Bonilli. L’ex gior­na­li­sta del mani­fe­sto è stato una delle più grandi e visio­na­rie firme dell’enogastronomia ita­liana. Nel 1986 ha dato vita alla più impor­tante ini­zia­tiva edi­to­riale che que­sto gior­nale ha avuto l’onore e la forza di man­dare in edi­cola. Era “solo” un sup­ple­mento geniale che par­lava di cibo e si chia­mava il Gam­bero Rosso. Otto pagine pro­fe­ti­che che prima di tra­sfor­marsi in una delle più auto­re­voli guide gastro­no­mi­che ita­liane con­tri­bui­rono alla genesi del movi­mento Slow Food. Ecco per­ché si può dire che Ste­fano Bonilli, insieme a Carlo Petrini e pochi altri, ha con­tri­buito a rivo­lu­zio­nare quel pia­ce­vole com­bi­nato tra sto­maco e pen­siero che oggi domina la cul­tura pop, una fetta dell’economia e anche la sto­ria sociale di que­sto paese.

Carlo Petrini, chi è stato per te Ste­fano Bonilli?

L’amicizia con Ste­fano è una parte impor­tan­tis­sima della mia vita. Nel corso degli Ottanta, e lungo buona parte dei Novanta, abbiamo vis­suto insieme un’avventura che ruo­tava attorno a uno spe­ciale sen­tire comune verso la gastro­no­mia. E’ stata un’esperienza unica che ci ha por­tato a riflet­tere sull’importanza di que­sto com­parto per la cul­tura, l’agricoltura e l’economia di que­sto paese. Aver lavo­rato con lui è stato molto gra­ti­fi­cante, non solo per la pub­bli­ca­zione del Gam­bero Rosso, che poi è stata la genesi di Slow Food e di tutto un per­corso che con­ti­nua tutt’ora.

Sono pas­sati quasi trent’anni. Nel 1986 come è stato pos­si­bile met­tere in piedi una ini­zia­tiva di quel tipo in un quo­ti­diano rigo­roso come il mani­fe­sto? E’ stata la testar­dag­gine di un pic­colo clan di pio­nieri del gusto, oppure quelli erano ancora tempi in cui un gruppo poli­tico di sini­stra era in grado di guar­dare così avanti da pun­tare su strade del tutto ine­splo­rate? Cosa ricordi con più pia­cere di que­gli anni?

E’ stato molto sem­plice, quasi natu­rale. Innan­zi­tutto c’era una comune pro­ve­nienza e una comune sin­to­nia poli­tica con molti gior­na­li­sti del mani­fe­sto, e Ste­fano era stato un gior­na­li­sta del mani­fe­sto fin dalle sue ori­gini. Io, nel mio pic­colo Pie­monte, sono stato uno dei primi soste­ni­tori del gior­nale. Que­sta atten­zione pro­fe­tica verso un mondo che non era ancora stato esplo­rato dall’informazione si deve soprat­tutto ad alcune ami­ci­zie par­ti­co­lari. Oltre a Ste­fano ricordo Franco Car­lini e il mitico notaio Franco Leidi, lui è stato uno degli amici più cari del gruppo ber­ga­ma­sco del mani­fe­sto. Era una pic­cola enclave che non riu­sciva a vivere una dimen­sione distinta tra pia­ce­vo­lezza ali­men­tare e con­di­vi­sione di ideali poli­tici. Diciamo pure che è stato come se il dia­volo entrasse in cano­nica. All’inizio forse non c’era grande entu­sia­smo, ci guar­da­vano strano. Ma ricordo che il mani­fe­sto a quel tempo pub­bli­cava anche un inserto che poi ha fatto molta strada, si chia­mava L’Indice, que­sto per dire che il gior­nale spe­ri­men­tava anche cose che filo­lo­gi­ca­mente non appar­te­ne­vano al suo dna. Ricordo il mio arti­colo sul primo numero del Gam­bero Rosso, mi pre­sen­tavo ai let­tori dicendo “non siamo i nuovi for­chet­toni”. Ste­fano è stato deter­mi­nante per la nascita del pro­getto per­ché viveva a Roma ed era vicino ai suoi amici del manifesto.

Gam­bero Rosso, per­ché que­sto nome?

Un giorno Ste­fano era venuto a Ver­ba­nia a riti­rare un pre­mio per un ser­vi­zio gior­na­li­stico molto bello che aveva rea­liz­zato per la Rai. C’era stato lo scan­dalo del vino al meta­nolo e ricordo ancora la sua tele­ca­mera che si aggi­rava per le vie dei paesi coin­volti da quella tra­ge­dia e le tap­pa­relle che si abbas­sa­vano. L’anno suc­ces­sivo Ste­fano vinse quel pre­mio, insieme ad altri, per l’attenzione che aveva dimo­strato nei con­fronti del vino. Pro­prio in quel periodo era in gesta­zione un sup­ple­mento sul cibo da far uscire con il mani­fe­sto e Ste­fano si fermò a man­giare in Toscana nel risto­rante di Ful­vio Pie­ran­ge­lini: il Gam­bero Rosso. E poi quello era anche il nome dell’osteria dove il Gatto e la Volpe por­ta­rono Pinoc­chio. Ci è pia­ciuto subito il gam­bero, un ani­male che guar­dava anche indie­tro e che non rifiu­tava la sua sto­ria. E poi era rosso: insomma quel nome era perfetto.

Come è nata quella intui­zione? Era una neces­sità che era nell’aria per con­tra­stare l’omologazione non sono solo gastro­no­mica degli anni 80 — erano gli anni del disim­pe­gno alla rucola — oppure è stato dav­vero un colpo di genio che ha saputo gio­care d’anticipo come non capita molto spesso nella sto­ria dell’editoria e della cul­tura popolare?

Era­vamo con­vinti che fosse la cosa giu­sta da fare, certo spa­ri­gliava le carte. In quel periodo c’era una certa sini­stra già dedita all’auto mor­ti­fi­ca­zione e nei primi tempi effet­ti­va­mente ci guar­da­vano dall’alto in basso. Ste­fano diceva sem­pre che con il Gam­bero Rosso in edi­cola aumen­ta­vano anche le ven­dite del mani­fe­sto, eppure c’erano let­tori che addi­rit­tura lo but­ta­vano via. Sba­glia­vano tutto. Ricordo che que­sta grande intui­zione ha avuto un pre­cur­sore eccel­lente, una rivi­sta nata a Milano che si chia­mava La Gola. Aveva un approc­cio cul­tu­rale più alto, men­tre il Gam­bero Rosso voleva par­lare a tutti, il punto è che tutto il set­tore che si occu­pava di cul­tura gastro­no­mica espri­meva un’attitudine molto bor­ghese. Il mani­fe­sto con quella mossa arrivò prima di tutti, prima anche di Libe­ra­tion. Non so dire quanto fos­simo coscienti di cosa sarebbe suc­cesso in seguito, ma posso aggiun­gere che quel discorso non si è esau­rito in pun­teggi e ricette per buon­gu­stai: con quell’operazione, e con Slow Food, è cam­biata l’attenzione della società, dell’economia e della cultura.

Avete avuto ragione con decenni di anti­cipo. Oggi che tutti par­lano di cibo ti senti di dire che è stata una sfida vinta oppure oggi, nel deli­rio media­tico che accom­pa­gna l’evento Expo, pensi che ci sia biso­gno di un’altra rifles­sione per tro­vare un altro modo fare cul­tura attra­verso il cibo? Insomma, l’overdose non rischia di satu­rare sto­maci e teste?

Il rischio c’è, oggi l’attenzione per il cibo per certi versi è ecces­siva. Ma posso dire che è stato giu­sto imboc­care quella strada. Que­sto tipo di cul­tura è un ele­mento di vitale impor­tanza per milioni di con­ta­dini in tutto il mondo e con­tri­bui­sce a dif­fon­dere l’educazione ali­men­tare in una società post indu­striale dove non è più fisio­lo­gica la tra­smis­sione delle cono­scenze e dei saperi da gene­ra­zione a gene­ra­zione. Penso, per esem­pio, all’importanza dei labo­ra­tori del gusto e all’università di Slow Food. Adesso sto lavo­rando ad una ini­zia­tiva con Ermanno Olmi e don Luigi Ciotti per ridare l’anima all’Expo, non deve diven­tare la fiera del cemento.

Per­ché a un certo punto si è veri­fi­cata la rot­tura di Ste­fano con il gruppo edi­to­riale del Gam­bero Rosso?

Quella sto­ria io l’ho vis­suta da fuori, ma so che lui era molto ama­reg­giato. Comun­que non ha smesso di farsi ascol­tare, si è rimesso in gioco con il suo blog, Il Papero Giallo, e con la nascita della Gaz­zetta Gastro­no­mica. So che è molto seguito dai gio­vani che si occu­pano di cul­tura del cibo, le sue pole­mi­che e le sue opi­nioni tirano sem­pre come una volta.

C’è una trat­to­ria o un risto­rante che per te è indis­so­lu­bil­mente legato a Stefano?

Eccome no! Ce n’è una sto­rica: l’osteria di Can­ta­relli a Bus­seto, la prima che ha avuto l’onore di rice­vere una stella Miche­lin. Oggi non esi­ste più. Ho sen­tito più volte Ste­fano lamen­tarsi con­tro il sistema che non aveva saputo pre­ser­vare un gio­iello della cul­tura gastro­no­mica ita­liana, lui che era di Bolo­gna ne era un auten­tico cul­tore. In quell’osteria Ber­nardo Ber­to­lucci andava sem­pre a man­giare con il cast di Nove­cento, ci por­tava Robert De Niro e Gérard Depardieu.

Sai qual­cosa del libro che stava scri­vendo sulla sto­ria della cucina del dopoguerra?

Pur­troppo no, ma so che ce ne sarebbe un gran bisogno.

C’è un piatto o un vino con cui vor­re­sti ricor­dare Stefano?

L’unica cosa che in que­sto momento mi sento di con­di­vi­dere è il ricordo della pas­sione con cui abbiamo vis­suto que­gli anni. Era un periodo in cui il vino stava cono­scendo il suo Rina­sci­mento dopo la ver­go­gna del meta­nolo e noi lo abbiamo attra­ver­sato da pro­ta­go­ni­sti, insieme ad altri intel­let­tuali come Luigi Vero­nelli o Gianni Brera, per­sone che non hanno mai rite­nuto il cibo una cul­tura minore. Insieme bbiamo con­di­viso momenti di vero piacere.

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